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Uscendo dalla base, non incontrai nessuno, per alcuni chilometri solo mezzi di trasporto abbandonati, case deserte, branchi di cani che pattugliavano il territorio.
Il dubbio che avevo – cioè che sulla Terra il virus avesse completamente eliminato il genere umano – diventava sempre più realtà mano a mano che i chilometri scorrevano sotto al mio mezzo di trasporto: il computer di bordo al momento della partenza indicava una autonomia di 2200 km. 
Per raggiungere la mia meta sarebbe stata sufficiente, ma come avrei fatto per tornare indietro nel caso non avessi trovato una fonte di ricarica? Rimpiansi di non aver provato a usare un elicottero di quelli – apparentemente integri – rimasti alla base: ormai ero in viaggio, non avevo alternative che tornare indietro o proseguire per scoprire cosa fosse successo.

Avevo deciso, bisognava viaggiare.

Lungo l’autostrada automatica non c’era traffico, mi si consolidò la certezza che l’unico mezzo di trasporto in movimento fosse il mio, e che il feedback del mezzo con l’autostrada fosse garantito dall’energia solare, che alimentava gli impianti in maniera indipendente dall’intervento umano.
Calava la sera, un tramonto incendiario invadeva la pianura con i suoi bagliori infuocati, i pannelli luminosi a bordo strada si erano accesi regolarmente, interrogai il computer di bordo sulla possibilità di passare la notte in un motel piuttosto che sul divanetto del van elettrico che mi stava trasportando, ebbi conferma che a un’ora di distanza avrei deviato su una pista laterale e sarei arrivato al motel.

Chiesi di effettuare la prenotazione di una camera e di una cena, cosa che mi venne confermata. Immaginai che il sistema aveva continuato a funzionare anche in assenza di umani che lo controllassero, ma la solitudine non mi faceva paura, viaggiare nello spazio mi aveva abituato a periodi lunghissimi di distacco dalla realtà.
Il mezzo di trasporto automatico si fermò davanti alla porta del box numero 14, e si andò a posizionare sulla piattaforma di ricarica: allora il sistema elettrico funziona – mi dissi – e immaginai che in qualche centrale alcuni uomini sopravvissuti al virus mantenessero in funzione la produzione e la distribuzione dell’energia.

Uomini o androidi? Mi risposi che in quel momento non importava, ciò che contava era di non perdermi durante questo viaggio in uno spazio vicino, talmente piccolo e vicino da sembrarmi irreale, quasi pericoloso.

La camera da letto era perfettamente pulita, feci una doccia ionica, lasciai gli abiti a decontaminarsi, indossai il kimono di carta che era a disposizione degli ospiti.
All’orario previsto un robot semiandroide venne a portarmi la cena che avevo ordinato durante il viaggio, era un modello dotato di volto e braccia, ma si muoveva su cingoli.
Provai a interrogarlo sulla situazione locale, ma mi rispose che non era in grado di fornire notizie per assenza di connessioni ad ampio raggio, si limitò ad augurarmi buona cena e buona notte, confermandomi la colazione “senza frutta fresca purtroppo” per l’indomani mattina all’ora prevista.
Disattivai l’oscuramento delle finestre e del tetto della camera, intorno al motel solo le luci delle piste automatiche, il cielo era scuro, probabilmente avrebbe piovuto.
Disteso sul letto antigravitazionale, guardavo attraverso il soffitto trasparente, il cielo era di un grigio compatto, poco dopo iniziò a piovere: le gocce si frammentavano senza far rumore, creando frattali di particelle d’acqua.

Lo spettacolo ebbe effetto ipnotico, senza accorgermene scivolai in un sonno vischioso, popolato da sogni dei quali persi memoria, fino al momento in cui le luci del mattino che si avvicinava cominciarono a sciogliere il torpore: ebbi ad un certo punto l’impressione che dei bambini mi osservassero dal soffitto trasparente, era un sogno vivido – di quelli del dormiveglia – o li avevo visti veramente?

Mi alzai di scatto dal letto, aprii la porta della camera, ma fuori non c’era nulla, a parte quella pioggia sottile, quasi impalpabile.

Tutto intorno, il giardino ad irrigazione automatica, i box con i numeri luminosi, il parcheggio vuoto tranne il mio mezzo di trasporto, la pianura e l’autostrada deserte.
Mi convinsi che era stato un sogno, rientrai nella camera, volsi nuovamente lo sguardo al soffitto trasparente, ebbi l’impressione che piccole orme si scomponessero sotto la pioggia “sarà la pioggia che con la polvere ha formato queste figure” mi dissi ad alta voce.
Recuperai il mio bagaglio, il mezzo di trasporto era davanti alla porta, mi accomodai, riprese il viaggio, mentre guardavo nello specchietto il motel che si allontanava alle mie spalle vidi una coppia di coyote su una altura. Immobili.

l’autostrada automatica presenta poco traffico, arrivo previsto all’ultima stazione in sei ore. Non sono disponibili informazioni sul percorso successivo”.

Avevo interrogato l’assistente alla guida sul percorso, suggerendogli di procedere alla massima velocità possibile, e in effetti “poco traffico” aveva significato che l’unico mezzo in viaggio era quello che mi trasportava, e che stavamo procedendo a oltre 300 km/h, a questa andatura il panorama diventava una banda di strisce colorate, dove a prevalere era il grigio.
Accesi il monitor di bordo, provai a cercare un canale di notizie ma non ce n’erano disponibili, solo programmi registrati con film, avvenimenti sportivi del passato, arte, natura, ecologia: poi un programma che raccontava gli ultimi mesi della pandemia.

Un emaciato cronista spiegava alla camera che lo riprendeva di come la scommessa di chi era rimasto sul pianeta – sperando in una attenuazione dell’epidemia – era probabilmente perduta, e che ormai pochi abitanti popolavano il territorio nel quale lui riusciva ancora a muoversi, e tutti erano stati contagiati.
“So che morirò anch’io, prima o poi, lascio il mio reportage su questo canale di notizie affinché chi dovesse tornare un giorno sulla Terra possa avere informazioni. Dopo che i volontari sono stati portati su pianeti compatibili con la vita, qui il virus ha preso il sopravvento. Presto la Terra sarà popolata solo da animali e foreste, la Natura ha deciso di prendersi la rivincita sull’Homo Sapiens, l’Antropocene ne è stata la scena finale: avere accettato che gli umani potessero continuare a detenere animali domestici è stata la loro fine, il virus li ha usati come ponte per raggiungere anche coloro i quali si erano isolati, non è stato più sufficiente chiudersi in casa e azzerare gli incontri, sfortunatamente”.

Poi nient’altro, solo documentari naturalistici piuttosto datati.
Quindi, non era rimasto – secondo le supposizioni del cronista – nessuno in vita sul pianeta, il mio viaggio era probabilmente inutile.
Dovevo verificare, avevo avuto mandato di effettuare l’ultima ricerca possibile, quella del laboratorio clinico dove mio padre stava sviluppando la terapia antivirale, e mi sarei spinto fino alla ricerca della verità. O di una plausibile verità.

Durante il trasferimento automatico, continuai a pensare a come muovermi una volta arrivato all’ultima uscita dell’autostrada, e come tornare indietro in caso di insuccesso, arrivando alla conclusione che avrei preso una decisione nel momento in cui il mezzo di trasporto mi avrebbe depositato sulla banchina e con soffuso rumore pneumatico mi avrebbe salutato chiudendo il portellone scorrevole.
Nel frattempo, dialogavo con la rete neurale della nave spaziale che stava effettuando in automatico le operazioni di ricarica e rigenerazione, era l’unica certezza che avevo, quella di potere ripartire e abbandonare la Terra per sempre, in caso di insuccesso.

Riconobbi lo skyline della città ultima destinazione, ci avevo vissuto un certo numero di anni quando avevamo aiutato nostro padre a sviluppare il laboratorio, poi le cose erano andate come erano andate.

Mi ritrovai solo sulla banchina della piazzola di carico e scarico dell’ultima fermata, il mezzo automatico si allontanò per posizionarsi su una piattaforma di ricarica: sembrava funzionare, pensai che avevo sempre la possibilità di essere ricondotto indietro, misi la sacca a tracolla, mi allontanai a piedi, diretto verso il viale principale, dove una volta c’era una specie di garage museo nel quale un appassionato esponeva e noleggiava automobili, motociclette e altri mezzi con propulsione a scoppio, che erano stati completamente soppiantati dall’avvento delle microcelle fotovoltaiche ad alta efficienza.

Le strade della cittadina erano deserte, finestre e balconi dei palazzi chiusi, nessuna traccia di vita recente, a parte la rete nevrotica delle rondini che sfrecciavano sopra i viali e tra gli edifici, lanciando le loro grida isteriche.
Ad un incrocio, una coppia di daini mi fissarono, poi si allontanarono al piccolo trotto, non li avevo turbati più di tanto, mi dissi che dovevo comunque stare attento poiché avrei potuto anche incontrare dei predatori, e nonostante l’abbigliamento in tecnopolimeri, potevo risultare ugualmente appetibile.

Arrivai al Joe’s Garage: la reception era devastata, ma il garage era apparentemente intatto. Decine di auto e moto mi scrutavano con i loro fanali spenti, come a chiedermi di essere rimesse in vita e ricominciare a emettere i loro gas tossici, motivo per il quale erano state bandite dall’uso comune.

Le moto erano ancora collegate ai rispettivi mantenitori di carica della batteria, le chiavi nel cruscotto, i serbatoi pieni.
Era una ottima notizia, recuperai da una jeep male in arnese una tanica di metallo e travasai benzina per fare una piccola scorta, fissando poi la tanica al portapacchi di una grossa moto da enduro che si era avviata a primo colpo, dopo chissà quanti anni di torpore.
Il carburante mi sarebbe bastato per andare e tornare, e ancora ne sarebbe avanzato, secondo un conteggio di consumo ipotetico. Ero ancora in grado di governare una motocicletta, è una di quelle cose che non si dimenticano mai, pensai, spinsi la moto fino al marciapiede, ci montai in sella, innestai la marcia e partii.
Guardavo spesso negli specchietti retrovisori, avendo la sensazione di essere seguito, anche se era abbastanza lampante che in quella landa non ci fossero esseri umani in vita, solo coyote e cani randagi che mi scrutavano da bordo strada, apparentemente senza allarmarsi troppo.

La strada era sgombra, lungo i bordi le erbacce erano cresciute invadendo anche parte del piano asfaltato, ero preoccupato di finire in qualche buca, essere disarcionato, ferirmi o rompermi qualche osso, cosa che avrebbe significato la conclusione della mia ricerca, perciò cercai di adottare uno stile di guida prudente nonostante l’urgenza immotivata che sentivo nel raggiungere la fattoria dalla quale si scendeva nelle grotte dove era stato edificato il laboratorio di genetica, tanti anni prima.

La luce dorata del pomeriggio spandeva ombre lunghe sul terreno, che ora era diventato una pista sterrata, l’asfalto che l’aveva ricoperta si era usurato e nessuno lo avrebbe mai più potuto ricollocare, tuttavia alcuni cartelli stradali indicavano la direzione del villaggio, seguiti da altri che decantavano gli studi che erano stati intrapresi nelle minere di sale: mi stavo avvicinando, sarei sicuramente arrivato alla fattoria prima che facesse buio.

Dopo avrei dovuto decidere se cercare il modo di passare la notte in superfice o provare a scendere immediatamente: anche in questo caso mi dissi che avrei preso una decisione sul momento, anche in funzione della valutazione della sicurezza di quel luogo.
La pista seguiva il fianco di una collina, con una moderata salita, arrivato in cima avrei potuto vedere la vallata, gli edifici della miniera, la fattoria di mio padre, la torre dell’ascensore.
Feci l’ultima curva con troppo entusiasmo, la moto derapò, poi per fortuna riprese la direzione e svoltai sulla sinistra, attraversando il cancello di quella che tanti anni prima era stata una miniera di sale; dopo pochi metri parcheggiai davanti al muretto della fattoria, la porta di ingresso era chiusa ma girando il chiavistello si aprì.

Dentro, tutto era in quell’ordine apparente che si lascia quando si deve abbandonare un luogo con urgenza, esplorai le stanze: a parte la polvere e l’odore di chiuso non sembrava che ci fossero stati altri visitatori, di recente.
Sul tavolo della cucina, alcuni volumi di narrativa impilati uno sull’altro, come se qualcuno li avesse scelti e poi avesse deciso di non portarli via con sé.
Di mio padre, nessuna traccia, né un appunto né un capo d’abbigliamento, doveva aver portato via proprio tutto, o qualcun altro si era occupato di cancellare tutti i segni della sua presenza.

Uscii dalla porta di servizio, a qualche metro di distanza una automobile con gli sportelli aperti, mi avvicinai finchè non vidi che sui sedili c’erano degli scheletri mummificati, di diverse dimensioni: probabilmente una delle famiglie dei collaboratori di mio padre, che non avevano fatto in tempo a intraprendere un ultimo viaggio. Erano rimasti seduti con le cinture di sicurezza allacciate: qualunque cosa avesse provocato la propria morte, doveva essere stato fulmineo.

Un brivido scese lungo la mia schiena, non mi sentivo del tutto sicuro in quel luogo, tornai dentro, attraversai la casa e uscito dal lato principale mi preoccupai di mettere al riparo la motocicletta, era il mio unico biglietto di ritorno. La spinsi dentro ad un capanno degli attrezzi, accostai le porte e mi avviai verso la torre dell’ascensore.

Il sole era ormai scivolato dietro le colline, le rondini continuavano a sfrecciare isteriche nel cielo, incrociandosi senza mai scontrarsi – un software mirabile governava i loro voli – si accesero sul campo le luci notturne, alimentate dalla centrale solare installata sul tetto degli uffici della miniera.

La cabina dalla quale si accedeva al vano dell’ascensore aveva una porta con accesso controllato da lettore di iride, mi posizionai davanti allo scanner oculare, mentre un microago prelevava un campione di pelle dalla mano.

Accesso consentito.

Dunque, qualcuno aveva inserito i miei dati genetici nel sistema di sicurezza che proteggeva l’accesso ai laboratori sotterranei, immagino che chi aveva effettuato la programmazione aveva supposto che prima o poi una parte di se si sarebbe ripresentata.
Premetti il pulsante di chiamata dell’ascensore, il pannello luminoso sulla porta si accese, un ronzio acuto segnalò il fatto che il meccanismo si stava allineando al piano per permettermi di accedere. Avrei iniziato un altro viaggio, senza la certezza di tornare indietro e senza sapere cosa avrei trovato laggiù.

La porta scorrevole si aprì, un bambino vestito da marinaretto mi guardò fisso negli occhi, mi sentii completamente spiazzato.

Non sono quel che vedi, non vedi quel che sono”. La voce era quella di mio padre, ma aveva parlato il marinaretto, che mettendosi il dito indice sul naso a intimarmi silenzio mi disse ancora “conosci le tre leggi della Robotica”, e la sua voce non aveva accento, non era una domanda, era l’accettazione dello stato di fatto.

La porta scorrevole si chiuse alle mie spalle con rumore pneumatico, il bambino – se era veramente un bambino – premette il pulsante di discesa.

Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno.
Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non vadano in contrasto alla Prima Legge.
Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché la salvaguardia di essa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge.

Ripetei mentalmente le tre leggi della robotica, e poi cercai di interpretare la frase del mio accompagnatore, non riuscendo a trovare una logica in ciò che diceva.

Epilogo.

Ho predisposto la sospensione vitale per il viaggio di ritorno, deve lasciare attiva quella parte di coscienza che mi permetta di raccontare quanto ho visto e sentito nella Miniera. Il Comitato che ha deciso il mio viaggio dovrà essere informato dettagliatamente dallo sbobinamento della mia psiche, le parole potrebbero non essere sufficienti.
Arrivato al livello operativo della miniera, altri bambini mi circondarono e mi portarono verso il lago sotterraneo, illuminato da una luce opalescente: senza che potessi opporre resistenza venni spinto dentro, mentre dicevano in coro “purificati”.

Affondai nel perossido d’idrogeno, poi venni tirato fuori e portato in una sala di rivestizione.

I bambini erano androidi modificati: mi raccontarono che altri androidi avevano deciso di applicare le Leggi della Robotica per tentare di salvare l’Umanità dalla scomparsa, e che per sicurezza avevano estratto materiale genetico dal corpo di mio padre, prima che morisse per cause naturali, per creare reti neurali umanizzate, ed erano anche riusciti a creare linee di produzione fetale.
In pratica, sarebbero stati reimmessi nell’ambiente dei semiandroidi in grado di ricolonizzare la Terra, e la popolazione sarebbe stata incrementata dalle linee di produzione. Praticamente ognuno di quei bambini era mio padre “non sono quel che vedi, non vedi quel che sono”.

I motori magnetici dell’astronave ronzarono brevemente, si sincronizzò la frequenza di trasporto sulla traslazione spaziotemporale, l’equipaggio prese posto nelle capsule di sospensione vitale, presi un ultimo respiro, poi anch’io mi affidai al neurocalcolatore, mi sarei risvegliato nella costellazione di Pegaso, agganciato alla torre di ancoraggio della città di Terra Futura, sul pianeta HR2550, dichiarato biocompatibile dopo le prime missioni traslazionali.

Lasciavo la Terra, non aveva più bisogno di me.
Sognai bambini elettrici con occhi azzurri bionici.

Nda: Le tre leggi della robotica sono prese in prestito dalla fantasia di Isaac Asimov, mentre per gli androidi basta saccheggiare la letteratura di fantascienza e i film del genere.


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright. Foto copertina ©Antonio Musotto