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Il 31 agosto 2023 saranno trascorsi cinquant’anni dalla morte di John Ford. È tempo di occuparsi di questo grande regista in modo diverso da come è stato fatto nel passato e si tende a fare negli ultimi tempi, che oscillano tra l’apologia-agiografia più banale e rimproveri assurdi e antistorici, tipici purtroppo dei nostri tempi. Sul primo atteggiamento non c’è molto da dire, se non che è veramente noioso, banale e banalizzante, anche se attira come mosche gli accademici inossidabili che non parlano se non dicono ovvietà.  Il secondo atteggiamento, a dire poco sconcertante, colpisce inesorabile come un virus maligno gli Usa e i loro satelliti mainstream, che come direbbe Petrolini “non hanno orrore di sé stessi”. Vi faccio un esempio. C’è un professorino di Princeton che ha vinto perfino il Premio Pulitzer, Glenn Frankel: dice a tutti che è di origine indiana e invece non è vero. Secondo lui “schiava è bello” se si è schiavi degli indiani: gli indiani infatti assimilavano le prigioniere alla loro tribù e ne facevano autentiche indiane. In questo modo davano loro una identità forte, un toccasana nel mondo moderno pieno di uomini senza identità. Perciò Sentieri selvaggi di Ford è un film abietto, perché esalta i bianchi che portano via la schiava sessuale al capo indiano invece di lasciarla in pace nella sua identità acquisita. Pensate che scherzo? Neppure per sogno (G. Frankel, The searchers. The making of an american legend, New York, Bloomsbury, 2013). Pregate che nessuno giri un film sulle schiave sessuali dei seguaci dell’Isis, perché sennò a Princeton bruceranno in piazza la pellicola. Evviva l’identità fittizia dei mitomani moderni, alla faccia della schiavitù e delle poche ma atroci confessioni delle ex-schiave sessuali dell’Isis!

Torniamo a Ford: credete veramente che nei suoi film un indiano è veramente un indiano?

Pensate sia un caso se in Sentieri selvaggi il capo indiano Scar lo fa un attore tedesco, Henry Brandon, nato Heinrich von Kleinbach? Eppure se c’è uno che ha portato in scena indiani veri e non bianchi travestiti quello è John Ford. Ma se Ford decide che parlare di indiani è un ottimo mezzo per esprimere pulsioni selvagge, allora ben vengano gli indiani rifatti dai bianchi e i capi tribù nati in una famiglia di aristocratici di Berlino. Gli indiani sono un’allegoria.

Non parliamo di quando Ford mette scena un attore di colore. Non ha nessuna importanza che il regista lo scelga come protagonista di un film antirazzista, come avviene al grande Woody Stroode in Sergeant Rutledge (I dannati e gli eroi, 1960). Il film non l’ha girato Spike Lee e quindi è invedibile! Anche in questo caso non vale il principio dell’allegoria. Ma pensate davvero che gli stereotipi li abbia inventati chi mette in scena quello in cui credono tutti? Pensate davvero che quando Pulcinella compare e apre bocca, parli come parla l’uomo della strada del 2023? Che Arlecchino non sia una maschera ma un vero lombardo? E che se veste un costume fatto di mille colori sia la caricatura degli  onesti lombardi di oggi che guadagnano i dané e vestono Armani?

Ci sono voluti secoli di sperimentazioni sulla scena per arrivare a oggi. Ogni secolo ha avuto i suoi stereotipi e coloro che cercavano di superarli.  A cominciare dagli artisti neri che facevano la caricatura del nero come lo vedono i bianchi pur di compiacere i bianchi e poter salire sul palcoscenico. È la storia bellezza. E non puoi farci nulla. Cioè qualcosa puoi fare: leggere, studiare, mettere via le orecchie d’asino. Vi cito qualche libro che gli uomini-somari farebbero bene a leggere, riprendendo sembianze umane: E. M. Gagey Il teatro in America, 1900-1950, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 1964; L. Hughes-M. Meltzer, Milton, Black Magic: A Pictorial History of Black Entertainers in America, New York, Bonanza Books, 1967; E. Lott, Love – Theft: Blackface Minstrelsy and the American Working Class, New York, Oxford University Press, 1993; R. C. Toll, Blacking Up: The Minstrel Show in Nineteenth-century America, New York, Oxford University Press, 1974; M. Watkins, On the Real Side: A History of African American Comedy from Slavery to Chris Rock, Chicago, Illinois, Lawrence Hill Books, 1999; W.T. Lhamon, Jr., Raising Cain: Blackface Performance from Jim Crow to Hip Hop, Harvard University Press, 1998; A. Portelli, Canoni americani: oralità, letteratura, cinema, musica, Roma Donzelli 2004.

Detto questo, sarebbe ora di occuparci di Ford come autore di cinema e smetterla di dire sciocchezze. Anche quando lo si elogia. Già perché con tronfio e compiaciuto savoir faire da uomo di mondo si continua a ripetere che John Ford è “un gigante del cinema, il grande padre del western, un narratore superbo e un raffinato inventore di immagini” che ha “attraversato tutti i generi del cinema classico” ed “una visione potente e complessa della società” ripetendo luoghi comuni senza spiegare un bel nulla. Cominciamo dal “cinema classico”. A me una simile definizione è sempre sembrata assurda, sia in generale, sia in particolare. In generale perché noi chiamiamo “classico” ciò che non era affatto sentito come “classico” da parte di chi lo faceva, dimenticando l’avventura, l’incertezza, la contraddittorietà di opere che hanno avuto spesso una vita travagliata ed assurda prima di essere considerati capolavori, anzi addirittura prima di essere visti dagli spettatori. Se si pensa che M. Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang, del 1931, fu immediatamente vietato e boicottato dai Nazisti e fu visto per la prima volta in Italia nel 1960, ci si rende conto di quanto sia mistificante considerarlo  come se fosse un’opera di Virgilio approvata dall’imperatore Augusto. Ma a parte questo, ho sempre trovato inadeguata, confusa e contraddittoria la definizione analitica dell’essenza del “cinema classico”: una sorta di grammatica cinematografica sviluppata tra gli anni Venti e gli anni Sessanta,  alla base del linguaggio filmico moderno, che permette di creare pellicole nelle quali  lo spettatore è “al centro del mondo”; la storia è lineare; la tecnica è la più chiara possibile; le trasgressioni poetiche o le distrazioni dalla storia principale sono ridotte al minimo, in maniera da non rallentare la narrazione e non complicare la fruizione cinematografica. Che fesseria! E allora il cinema espressionista che è? E il grande cinema francese, lunare e fantasioso, da René Clair a Jean Vigo? Per non parlare di tutti i grandi inventori di forme, di stile, di storie, di cinema tra gli anni Venti e gli anni Sessanta, gente come Buster Keaton, Sergej Michajlovic Ejzenštejn, Aleksandr Petrovic Dovženko, Aleksandr Medvedkin, che girava i film e li montava spostandosi su un treno e realizzando opere geniali come Scast’e (La felicità, 1934), Max Ophüls, Orson Welles, per non parlare dei surrealisti, tutti autori che hanno riformulato il linguaggio  cinematografico in accordo o in conflitto con le aspettative del regno della celluloide, cambiando la storia del cinema. Tutto questo è “classico” ?

Il cinema classico non è mai esistito. Certo, sono sempre esistite una serie di regole empiriche, alcune ferree, altre flessibili, per gestire l’oggetto-film, più o meno cogenti a seconda dei limiti tecnici della ripresa stessa e degli spazi di manovra dell’ambiente che finanzia i film. Ma questo è tutto. Ecco, se siamo d’accordo su questo punto potremo occuparci in modo serio di John Ford e comprendere il significato della sue scelte, perchè Ford è stato un grande innovatore, molto creativo e molto trasgressivo sin dai primi film girati.

Facciamo qualche esempio.  Quando Ford ha cominciato a fare il regista, la misura standard dell’opera prodotta era di due rulli di pellicola, non certo perché così voleva il “cinema classico”, ma per banali motivi pratici e tecnici. Il giovanissimo e sfrontato irlandese fece di testa sua e consegnò al produttore attonito, il grande Carl Laemmle, i cinque rulli di Straight shooting (1917) come se fosse un bruscolino. Questo significava che lo spettacolo in sala non sarebbe durato una ventina di minuti, ma un’ora e un quarto.  La risposta “classica” del produttore “classico” avrebbe dovuto essere: “Vada al diavolo giovanotto, ma che si è messo in testa? Di ‘disturbare’ lo spettatore che deve sempre stare ‘al centro del mondo?”. E invece il grande Laemmle disse: “Grazie tanto, ragazzino. Va avanti così.”. E, mentre i suoi collaboratori sgranavano gli occhi aggiunse: “ Ma se io vado a comprare un vestito completo e mi dicono ‘Le diamo in omaggio un altro paio’, io che devo fare? Tirarglieli in faccia?”. 

E fosse stato solo questa la novità del film.  All’epoca, c’erano in giro diversi pistoleri: “Broncho Billy” Anderson alla Essanay, Tom Mix e Buck Jones alla Fox e molti altri. Erano tutti eroi senza macchia e senza paura, adatti per un pubblico di gusti facili e di basso livello. Ford scaraventò nell’universo superficiale, macchiettistico, da romanzo popolare del western un umanissimo antieroe, Cheyenne Harr (il grande attore Harry Carey): un vagabondo, un mercenario, uno che si sbronzava senza scrupoli. Un “cavaliere” pieno di macchie e di paure, simpatico ma non certo esemplare, come tanti protagonisti dei western più moderni degli anni Sessanta e Settanta.  Il pubblico di analfabeti doveva fare uno sforzo e aguzzare l’ingegno. Erano questi i veri protagonisti del west, come Wyatt Earp o Pardner Gardiner: Ford si era dato da fare, li aveva conosciuti e interrogati. Ed aveva fatto tesoro delle loro parole.  Come ha detto il regista a Peter Bogdanovich: “[Pardner Jones] era solito raccontarci che nessuno di quei personaggi – Wild Bill Hickcok, Wyatt Earp – era stato un gran tiratore con la pistola. «Io non sono un grosso tiratore con la pistola», diceva Pardner, «e non ne ho mai conosciuto uno. Lo scopo era quello di intimidire l’uomo, di arrivargli il più vicino possibile. Se si era in un vero scontro a fuoco, si usava il fucile». Pardner diceva sempre: «Se un uomo allungava una mano per tirare fuori la pistola dalla fondina, si trovava morto prima di riuscire a estrarla.[1]». Questa battuta, ripetuta fino alla nausea dai registi di western-spaghetti e dai loro ammiratori manco fossero le parole di un oracolo, veniva direttamente dai protagonisti dell’epopea del west. Ascoltandoli, il ragazzino irlandese imparò a violare allegramente le “regole” e la “grammatica” superficiale del suo tempo. E riuscì a girare scena memorabili, antiretoriche e veritiere, che inchiodavano lo spettatore allo schienale della sua poltrona. Nella seconda parte di Straight shooting c’è un duello memorabile tra Cheyenne Harry e Fremont, il killer che deve ucciderlo. I due camminano l’uno verso l’altro, col fucile tra le braccia: Ford li inquadra in campo lungo, mentre avanzano lentamente l’uno verso l’altro. Ma poi li schiaffa in faccia allo spettatore, riprendendoli in piani medi e in primi piani, sempre più frontali, a volte con lo sguardo in macchina. La tensione cresce.  Ed ecco che all’improvviso, quando sono quasi faccia a faccia, Fremont non regge il confronto e scappa dietro una casa. Harry fa finta di niente e va avanti. Ma poi torna indietro e, appena Freeman si scopre, gli spara. E vince. Non è uno scontro leale, pieno di retorica, che rispetta gli stereotipi tradizionali. una sfida realistica, drammatica, piena di astuzia e di furore, ben diversa da quelle tipiche dei western di allora, nella quali nobili eroi, emuli degli antichi cavalieri, si sfidavano a duello e vinceva il migliore. 

Era un pezzo di bravura talmente efficace, che Ford lo ripeterà, quasi identico, nel finale di Ombre rosse, quando John Wayne-Ringo Starr uccide con le ultime tre pallottole rimaste i suoi nemici ed entra prepotentemente nella leggenda e nella storia del cinema. Già. John Wayne. Quando Ford lo scelse per Ombre rosse non lo voleva nessuno, come del resto nessuno dei produttori “classici” voleva più un western. Era l’epoca delle commedie brillanti di Cary Grant e di Katherine Hepburn. L’epoca dei musical di Bing Crosby o di Fred Astaire. L’epoca dei drammoni sentimentali di Greta Garbo. Che c’entrava il western con questo microcosmo brillante e superficiale? Il western di Ford, pieno di sudore, di ubriaconi, di vigliacchi, di indiani scatenati? Ma Ford era sempre il solito anticonformista e vedeva lontano. Non l’ha detto mai nessuno, ma sarebbe ora di dirlo: a quell’epoca il ribelle irlandese guardava all’Europa e in particolare ai film di Renoir, che avevano lanciato un umanissimo antieroe come Jean Gabin e umanissime e antiretoriche storie di uomini veri, come quella della Grande illusione. Il regista cercò addirittura di realizzare un remake del capolavoro di Renoir, tanto era affascinato dal suo stile. I critici non hanno fatto caso a una lettera di Zanuck a Ford che ricorda quest’episodio singolare e getta una luce nuova su di lui.  L’anno prima di Ombre rosse, il 2 marzo   1938, il produttore gli scriveva: “Caro Jack, l’altra notte mi hai regalato veramente una grande emozione facendomi vedere la Grande illusione: é una delle più straordinarie pellicole che ho mai visto dedicate a questi argomenti. Però penso che sarebbe un’ingiustizia, criminale, cercare di rifarla in inglese. L’aspetto più bello del film è la sua finissima ambientazione, la sua atmosfera autentica, i personaggi che parlano nella loro lingua. Se elimini questo, il film ci rimette e il suo valore si dimezza del 50%! Non so se lo sai, ma ci sono addirittura tre produttori che hanno cercato di comprare i diritti del film per rifarlo, compreso Alexander Korda e alla fine hanno rinunciato. Mi sono informato e ho saputo che la pellicola ha avuto un grande successo in Europa e questo sarebbe un ostacolo alla diffusione di un suo remake, ma a parte questo, penso proprio che non ce la faremmo mai a fare qualcosa che si avvicini a un’opera del genere[2].”. Zanuck aveva ragione. Ma anche Ford l’aveva. E infatti riuscì a girare, testardo, implacabile, un’opera che “si avvicinava” a quella di Renoir: Ombre rosse. Un’opera che rompeva gli schemi della commedia sofisticata americana di allora, rivolta a gente sofisticata e brillante. Un’opera che parlava alla gente comune di gente comune: poveri esseri travolti dalla storia; con un protagonista che veniva dal nulla come Jean Gabin, che aveva il viso non di un eroe da fumetto ma di un proletario, come Jean Gabin, con gli stessi occhi innocenti e dolenti di Jean Gabin.  In quest’opera Ford guardava a Renoir, al punto da imitare scopertamente certe sequenze de La Chienne (La cagna, 1931).


[1]P. Bogdanovich, Il cinema secondo John Ford, Parma, Pratiche, 1990, p. 46-47

[2]Memo from Darryl F. Zanuck: The Golden Years at Twentieth Century-Fox, a cura di Rudy Behlmer, New York, Grove Press, 1993

Confronto tra una sequenza della Chienne di Renoir (fig. 1 e 2) e una sequenza di Ombre rosse (fig. 3 e 4).

Non era un caso, perché era proprio grazie a Renoir e grazie a Maupassant (da cui proveniva il soggetto) che l’irlandese ribelle riusciva a nobilitare la sua materia e a ricavarne qualcosa di diverso dai clichés del cinema hollywoodiano.

La lezione europea rinvigorì Ford e gli permise di emanciparsi definitivamente da Hollywood, dando libero corso ad una fantasia dirompente e senza limiti. Nella celeberrima scena dell’inseguimento della diligenza da parte degli Apaches, il regista ribelle e anticonformista si permetteva il lusso di prendere a schiaffi tutte le convenzioni visive del cinema “classico”, facendo impazzire lo spettatore. Il rispetto delle presunte regole ferree della presunta grammatica visiva che mette lo spettatore “al centro dell’universo” avrebbe comportato che la diligenza e gli indiani corressero sempre nella stessa direzione dopo ogni “stacco”. Se la diligenza correva verso sinistra e c’era uno “stacco” nella ripresa, nell’immagine successiva avremmo dovuto vedere di nuovo la diligenza che va verso sinistra. E invece Ford fa saltare in aria lo schermo: gli indiani arrivano da destra, da sinistra, dall’alto, dal basso e i cavalli corrono da tutte le parti.  E lo spettatore segue solo le sue emozioni, frastornato, sbalzato da ogni lato.

Potremmo continuare. Potremmo ricordare tanti altri exploits del grand Ford, dalla soggettiva inaudita nel bel mezzo di Furore, che ci fa scoprire in presa diretta l’arrivo dei migranti in un mondo atroce di altri migranti, fino alle straordinarie illusioni di cinema verità dei documetari di guerra, in cui perfino le pallottole vere dei giapponesi, sparate contro il regista, diventano spettacolo. Ma facendo così andremmo molto al di là dei limiti di questo articolo e forse priveremmo il lettore il piacere di scoprire da solo quanto è bello infischiarsene degli stereotipi e dei luoghi comuni della critica accademica vetero-conformista o neo-conformista; così come quelli del cinema, sia tradizionale, sia finto trasgressivo.

Accompagniamo con affetto e con emozione Ford nella sua avventura cinematografica e facciamo attenzione. Ci abitueremo ad essere più liberi, più franchi, più fantasiosi, più originali.