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L’ultimo film di Wim Wenders è molto diverso dalla maggioranza delle opere in circolazione ed ha colpito tutti per il suo carattere insolito. Il titolo Perfect Days allude a una celebre canzone di Lou Reed che evoca la felicità provata in un giorno fuori dal comune, ma racconta in realtà una serie di giornate molto comuni, uguali l’una all’altra: le “giornate perfette” di Hirayama, (Koji Yakuso) un sessantenne giapponese che vive in una casa modesta e pulisce i bagni pubblici di Tokyo con grande cura e attenzione. Queste toilettes, in mezzo a splendidi parchi o ai margini delle strade nel quartiere elegante di Shibuya, sembrano incontaminate: costruite da architetti famosi sono molto raffinate e a volte avveniristiche, come quella tutta trasparente, le cui pareti di vetro però diventano riflettenti nel momento in cui si chiude la porta e tornano trasparenti quando poi la si riapre per uscire. Ogni giorno Hirayama compie gli stessi gesti: in una Tokyo in cui il sole sorge presto e con vigore (non a caso siamo nel Paese del Sol Levante) accompagnato dalla canzone più adatta alla circostanza (The House of the Rising Sun) Hirayama si sveglia, fa una scrupolosa pulizia personale, prende un caffè freddo da un distributore automatico, monta in macchina e si dedica alla pulizia delle toilettes di tutti; pausa pranzo con un panino al parco o un piatto caldo a un fast food; breve turno pomeridiano fino all’arrivo di chi deve subentrare al suo posto; ritorno a casa nel traffico pomeridiano, dopo un bagno purificatore nei bagni pubblici; cura di un piccolo giardino bonsai fatto di talee di piante salvate dalla incuria di tutti; lettura appassionata di romanzi (tra i suoi autori preferiti William Faulkner o Patricia Highsmith, ma anche la “sottovalutata” e struggente Aya Koda). È appassionato di fotografia e scatta spesso istantanee dell’ombra sulle foglie degli alberi. È un uomo di poche parole, che ha certamente amato la moglie scomparsa, ma che ora si è rifatto una vita. Vede pochissime persone: Takashi, il ragazzo che lo sostituisce nel turno pomeridiano sfaticato, sanguisuga e lamentoso, con cui scambia due parole; una ragazza timida al parco o un senzatetto folle e originale con cui non parla mai, ma che rispetta e ama sia pure in silenzio: una donna che gestisce un ristorante tradizionale che lo tratta con affetto. Va al lavoro e torna a casa su un vecchio camioncino, ascoltando Lou Reed, Patti Smith, The Animals, Van Morrison, Otis Redding, Nina Simone: musica di un passato prossimo che sta per divenire sempre più passato remoto. Tutto in lui sembra rimasto ancorato a questo passato: le musicassette che ascolta o la macchina fotografica analogica i cui rullini devono essere sviluppati. Del resto tutta la vita di Hirayama sembra essere destinata alla conservazione e le fotografie che vengono collezionate e archiviate in scatole numerate sembrano il simbolo, l’emblema dei giorni che passano per essere archiviati e custoditi nella memoria. Ma nella memoria di Hirayama ci sono anche delle ombre che non conosciamo: compaiono misteriose come quelle che ci sono sulle foglie degli alberi, quando meno lo aspettiamo. Una nipote, fuggita da casa,va a trovarlo e chiede di essere ospitata: l’incontro fa emergere qualche piccolo segreto sul passato del protagonista. I segreti aumentano a poco a poco: quando la madre della nipote, la sorella di Hirayama, viene a prenderla arriva con una macchina lussuosa, con un autista. La donna non sa quasi nulla di lui; accenna a un padre che non sta bene, molto autoritario, che Hirayama non va a trovare da molto tempo. Non può credere che il fratello faccia davvero il lavoro che fa e ci fa intuire che prima faceva ben altro e che con il padre deve essere successo qualcosa. Quando va via, Hirayama si lascia andare ad un pianto dirotto. In ogni caso egli ha scelto la sua vita umile consapevolmente: è sereno e riesce a realizzare le sue piccole passioni ogni giorno. E a dare a ogni giorno il valore di giorno unico. Come ha scritto efficacemente Roberto Chiesi: «Wenders segue il flusso quotidiano dell’esistenza di Hirayama e rivela che…nessun istante è mai uguale all’altro perché nessun aspetto della realtà è mai banale se lo si guarda con attenzione e partecipazione.» (“Menteinfuga”, 27 gennaio 2024)

C’è comunque un’ultima cosa da considerare. Hirayama è sicuramente affascinato dalla proprietaria del ristorante che lo tratta così bene. Ma non ha il coraggio di dirle niente. Un giorno vede la donna insieme all’ex marito e si allontana subito, sgomento. L’uomo lo segue e lo trova davanti al grande fiume che scorre a Tokyo. Lo rassicura: non vuole tornare insieme alla moglie. È venuto solo per dirle che sta per morire di cancro. Tra i due scatta un sentimento di complicità affettuosa. Come ragazzi si mettono a giocare con le parole e con le loro ombre. E Hirayama dimostra al suo nuovo amico che sta per morire che un’ombra, aggiunta ad un’altra ombra, forma un’ ombra più scura. Come potrebbe essere altrimenti? Se si aggiunge qualcosa a qualcos’altro, ciò che è stato aggiunto deve restare in una qualche forma. Come nella vita di ciascuno. L’ombra di ognuno di noi, sommata all’ombra che esiste, farà aumentare il colore dell’ombra. Di poco. Ma abbastanza perché si possa intravedere se riusciamo a catturarne l’immagine. È questo il senso profondo di ciò che vediamo e di ciò che il film ci fa vedere, racchiuso in una parola giapponese intraducibile che Wenders colloca al centro dello schermo nell’ultima immagine che vediamo dopo i titoli di coda: la parola è “komorebi” e indica l’attimo fuggente in cui a luce appare e scompare tra le foglie, il bagliore istantaneo che filtra dove sembra che ci sia solo il buio. Quello che il poeta insegue per tutta la vita desiderando che finisca solo quando può dire all’attimo “Fermati! Sei così bello!”. Verweile doch! Du bist so schön! Ed ecco che alla fine di questa Tokyo story, così giapponese, fa capolino Goethe. Sì perché Hirayama, si chiama proprio come il protagonista di Il gusto del sakè, l’ultimo film di Ozu, il regista a cui Wenders ha dedicato Tokyo Ga. Ma il richiamo all’attimo fuggente, anche se è suggerito da una parola giapponese, fa pensare all’anelito di eternità del Faust.

Perfect days di Wim Wenders è stato molto apprezzato dai critici e dal pubblico. Ho l’impressione, tuttavia, che non tutto il suo fascino sia stato valorizzato. Mi permetto di conseguenza di sottolineare qualche aspetto che mi ha colpito, nella speranza di fornire spunti di riflessione, senza nessuna pretesa di offrire l’interpretazione definitiva di un’opera complessa e piena di ambivalenze. La prima cosa che mi viene in mente è che Wenders attualmente ha 78 anni, un’età rispettabile in cui non è strano fare uno o più bilanci del proprio passato, in qualunque forma. Wenders lo fa a modo suo, da regista. Ma lo fa, e come. Non possiamo ignorarlo. Nel film ci sono molti rimandi e molte allusioni ad altre opere dell’autore e soprattutto molti rimandi e molte allusioni alle sue illusioni, alle sue ossessioni. Non ha senso, dunque, soffermarci sul carattere ripetitivo dell’esistenza del protagonista come hanno fatto praticamente tutti coloro che hanno recensito il film, alcuni stupiti, altri affascinati o addirittura inorriditi. Dire che il protagonista del film conduce un’esistenza quasi “autistica” (sic!) o comunque “ossessiva”, una “routine” “monotona” e “sempre uguale”, significa non capire nulla e restare fermi all’apparenza. È ovvio che il personaggio principale ripeta sempre gli stessi gesti e faccia sempre le stesse cose: infatti è l’alter ego di un regista che ripete per l’ennesima volta ciò che ha già detto e ridetto in altri film. E lo fa a ragion veduta, perché rimugina sulla sua esistenza artistica e psicologica, ritornando di continuo su temi e problemi che lo hanno avviluppato e forse imprigionato sin dalla giovinezza. Quando si arriva all’età dei bilanci, confrontarsi col proprio passato è necessario, anche se visto dal di fuori può sembrare un esercizio monotono e ripetitivo. Se mettiamo da parte l’affascinante involucro che riveste la facciata del palazzo, l’intonaco istoriato da grandi pittori di edifici rinascimentali come il Palazzo Massimo a Roma, affiorano immediatamente la pietre con cui sono costruite tante costruzioni visive di Wenders.

Innanzi tutto l’identità di cinefilo del regista, che ritorna di continuo, non solo per i riferimenti ad autori fondamentali nella storia del cinema come Ozu (a cui abbiamo accennato) o il Nick Ray di Lampi sull’acqua, che parla della sua morte per tumore come l’ex marito della proprietaria del ristorante, ma per il fatto stesso di avere scelto che il suo film venisse fotografato nel formato a 4:3, “a francobollo”, tipico del cinema classico, che permette di inserire la figura umana in spazi quadrati, valorizzandola più di ogni altra cosa circostante o di inquadrare lo spazio senza perdersi in fughe a destra e a sinistra, facendo risaltare ogni oggetto con la forza di un bassorilievo.

Un altro carattere ricorrente della personalità di Wenders è l’amore e l’ossessione per la fotografia che isola un istante sottraendolo al “corso del tempo”, nel cui flusso vaghiamo perduti come il mendicante che appare e scompare nei parchi e nella strada davanti agli occhi complici e indulgenti di Hirayama. Questo atteggiamento che potremmo definire “passività operosa” ci fa tornare all’inizio dell’esistenza, quando tutto quello che si fa è seguire con gli occhi incantati il mondo, trasformandoci in un puro occhio assorbito dalla visione della vita, seguaci istintivi dell’invito dello Zen ad abbandonarsi al grande mare dell’essere. Da ciò nasce una naturale simpatia per l’atteggiamento di accettazione totale dell’universo da parte del mondo orientale ed in particolare per lo stile di vita giapponese. Come ha detto lo stesso Wenders: «Ho amato Tokyo la prima volta che ci ho camminato e mi sono perso. Era già la fine degli anni Settanta. Era un momento di pura meraviglia. Ho camminato per ore, senza sapere dove fossi in questa immensa città, poi ho preso una linea qualsiasi della metro e ho trovato il mio albergo. Ogni giorno andavo in un altro quartiere. Sono rimasto stupito dalla struttura apparentemente caotica della città, dove trovavi vecchi isolati con vecchie case di legno accanto a grattacieli e incroci trafficati, dove passavi sotto queste autostrade, e svettavano fantascientifici edifici a due o tre piani e dove c’erano i quartieri più tranquilli, quartieri residenziali e labirinti di stradine proprio accanto ad essi. Ero affascinato da tutto il futuro che vedevo prendere forma. Avevo sempre considerato gli Stati Uniti come il luogo dove si poteva incontrare il futuro. Qui in Giappone, ho trovato un’altra versione di futuro, che mi si adattava».

Un altro aspetto caratteristico del regista è il suo amore per la musica che caratterizza situazioni o sentimenti che vengono rappresentati. La canzone del titolo di Lou Reed, è quella che da un senso a quello che accade, ma Hirayama cerca anche altre ispirazioni perché ascolta ogni giorno un diverso brano musicale della sua collezione che anticipa o accompagna i suoi gesti. Questo ruolo centrale della colonna sonora è tipico di Wenders a partire dal primo cortometraggio 3 LP americani (1969), o dai primi lungometraggi come Estate in città (1970) o Alice nelle città (1973) nei quali la musica pop americana, scaturita da un juke box, scandiva road movies che si svolgevano di qua e di là dell’Atlantico, In Perfect Days la stessa musica ritorna con il suono d’epoca delle audiocassette su nastro.

Molti altri elementi ci riportano all’universo del regista tedesco a cominciare dall’amore per Patricia Highsmith che ha ispirato l’Amico americano o da quello per personaggi stravaganti, solitari, poetici, marginali, a disagio nelle grandi metropoli caotiche e nel mondo moderno. Senza avere la pretesa di elencare ogni analogia, ogni simmetria, ogni corrispondenza, ci sembra opportuno sottolineare che questo complesso gioco di rimandi interni, questa polifonia fatta di echi, di rime, di vibrazioni parallele nasce dal fatto che Wenders è un vero autore, che svolge sempre lo stesso discorso attraverso le variazioni sul tema rappresentate dalle sue diverse creazioni, che possono essere opere di finzione o documentari. Il fascino di Perfect days sta proprio in questo: nell’essere la manifestazione di un autore che ci ha parlato varie volte nel corso del tempo con una voce che riconosciamo subito tra tutte e che ci auguriamo di poter ascoltare di nuovo molte altre volte.