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Quella che sto per raccontarvi è un’esperienza vissuta in prima persona in un giorno d’estate del 2021. In un mondo in cui si fa a gara a dare le notizie in diretta ed a raccontare le esperienze non appena fatte, ho avuto il bisogno di far sedimentare questa esperienza e sentito il desiderio di raccontarla dopo che il tempo ha rimesso in ordine le emozioni, senza però che esse perdessero vigore.

Ferragosto 2021. Mentre gli italiani si godono meritate giornate di sole allentando un po’ la tensione accumulata in questi mesi di distanziamenti e restrizioni dovute alla pandemia in corso, i notiziari di tutto il mondo rilanciano le immagini provenienti dall’Afghanistan: i talebani stanno entrando a Kabul e lo stanno facendo avanzando con incredibile velocità, generando panico e terrore tra i civili e facendo scappare a gambe levate i militari statunitensi e quelli alleati. Caos e panico sembrano le uniche parole che possono descrivere la situazione. Giorno dopo giorno è un susseguirsi di persone disperate che tentano di raggiungere l’aeroporto nella speranza di salire su un aereo cargo militare e fare un salto nel vuoto in un mondo che non conoscono, ma verso una vita che non potrà essere peggiore di quella che temono sarà d’ora in avanti a casa loro.

La situazione è talmente concitata che a un certo punto spuntano video di persone che si aggrappano agli aerei in partenza già sovraffollati. Resistono pochi secondi e, poco dopo il decollo, si sfracellano a terra. C’è chi dice che non può essere vero e che sia tutto un fotomontaggio, mentre opinionisti di tutto il mondo si affannano a fare analisi politiche e a sentenziare su chi ha torto e chi ha ragione.

È inevitabile… Anch’io mi appassiono a cosa sta succedendo da quelle parti e mi faccio tante domande e provo rabbia per tutto ciò che non si è riuscito ad evitare, dopo tanti anni di sofferenze e risorse impiegate. Guardo quei video che sembrano surreali ma, per quanto possa essere scioccato e indignato, mi sembra di guardare un film. Faccio fatica – per quanto razionalmente sappia che è tutto vero – a credere che tutto ciò stia realmente accadendo. Ai miei occhi è un appassionante film d’azione in cui i protagonisti vivono un’esperienza al cardiopalma ma alla fine finiscono felici e contenti dentro un aereo che li porterà lontani dal nemico. Certo, qualcuno non ce l’ha fatta, purtroppo, ma… L’umanità ha vinto! Hollywood è ora, senza bisogno di effetti speciali… Fico.

Da pochi mesi sono diventato socio Volontario di Croce Rossa e sto portando a termine il tirocinio seguente il corso e l’esame di accesso. Sto cercando di fare un po’ di esperienza prendendo servizio nei vari ambiti di cui si occupa il mio comitato. Al momento sento di non essere particolarmente tagliato a fare il soccorritore, ma mi sento a mio agio nello svolgere lavori nell’ambito del sociale. Nella chat del comitato, dove si elencano i servizi da fare e dove ci si attiva, viene pubblicato un appello un po’ diverso dal solito: “Buonasera, ci è stato richiesto supporto nel recupero di materiale alimentare per fronteggiare l’ondata di arrivi di ospiti di nazionalità afgana. L’attività vedrà impiegati nr.2 mezzi trasporto merci della struttura nazionale per la quale movimentazione si richiede il supporto del personale autista nello specifico […] con arrivo a Cesenatico nella prime ore della mattina, effettuato il carico il personale farà rientro a Roma nel primo pomeriggio. Qualcuno vuole dare la propria disponibilità?”. Passano sette minuti e già un primo Volontario si dichiara disponibile. Dopo meno di un’ora dalla sala operativa ci giunge la comunicazione che tutte le richieste sono state soddisfatte. Rimango sbalordito di come dei Volontari che hanno una loro vita, un lavoro, una famiglia, si siano immediatamente resi disponibili.

Le notizie si susseguono giorno dopo giorno e anche gli aerei militari italiani stanno partendo carichi di civili afgani. La Croce Rossa Italiana si attiva per organizzare l’accoglienza dei profughi. A dire il vero non c’è tempo per organizzare un bel niente, ma ci sono persone formate per intervenire nell’emergenza. Servono però tante persone e non c’è il tempo di addestrarli e dare direttive. Serve agire. Subito.

Nella chat del nostro comitato esce così un nuovo appello:

 

Davvero non c’è tempo. Quegli attori di quei film che vedevo nei notiziari stanno arrivando. E no, non sono affatto attori. Provo un po’ di vergogna per la mia stupidità.

Mi sento impotente e frastornato di fronte a degli avvenimenti che sono troppo grandi rispetto alla mia piccola realtà. Cosa possiamo fare noi italiani, noi occidentali? Cosa io posso fare? Posso solo rispondere all’appello. Non ho scuse, sono un Volontario di Croce Rossa e questa organizzazione sta facendo il possibile per far fronte all’emergenza. Non cambierò il mondo, non risolverò nulla, ma sento che qualcosa, seppur minima, la devo fare.

Sono però ancora un tirocinante e si richiedono Volontari effettivi. Mi metto così l’anima in pace. Manco a dirlo, il giorno dopo ci dicono che accetteranno il contributo anche di Volontari tirocinanti. È fatta: appena ho l’ok, offro la mia disponibilità per fare servizio in un turno della mattina.

Sono sincero… Un po’ me la sto facendo sotto, non so cosa aspettarmi. Non ho esperienza, non so cosa mi sarà chiesto di fare e non so se ne sarò in grado. È un’operazione che vede coinvolti tutti i comitati CRI di Roma e provincia, per cui non vedrò neanche i pochi Volontari del mio comitato che in questi mesi ho cominciato a conoscere.

26 agosto. L’appuntamento è per la mattina alle 6 al terminal 5 dell’aeroporto di Fiumicino. Parto di casa con netto anticipo. A quell’ora non c’è traffico, così arrivo alle 5:30 all’aeroporto. Già… ma dov’è il terminal 5? I cartelli indicano solamente i terminal 1 e 3. In effetti non ho mai sentito parlare di questo terminal 5. Faccio un po’ di giri con la macchina, chiedo a delle hostess che stanno per entrare in aeroporto e mi dicono che è distante da dove sono ora. Cerco di seguire le loro indicazioni ma mi perdo. Entro in un groviglio di strade adiacenti l’aeroporto. Chiedo a dei poliziotti. Mi trovo dalla parte opposta. Neanche il navigatore mi è d’aiuto. I minuti passano e l’orario dell’appuntamento si avvicina. Comincio ad agitarmi. Si accende pure una spia del quadro mai vista che segnala un qualche problema alla mia auto. Ci manca solo che mi si fermi la macchina! Le 6 sono passate e oltre ad agitarmi, comincio a perdere la speranza. Non so come, ma ad un certo punto decido, un po’ a caso, di prendere una stradina; la faccio fino in fondo e mi trovo davanti ad un ingresso con le sbarre. Chiedo a qualcuno lì fuori e mi dicono che quello è il terminal 5! Solo dopo verrò a sapere che è un terminal non destinato ai voli civili, ma utilizzato per voli militari e diplomatici e che non sono l’unico ad aver avuto problemi ad individuarlo.

Aeroporto Leonardo da Vinci, terminal 5, ore 6:15. Entro in questo terminal e mi ritrovo in mezzo ad una moltitudine di persone di ogni sorta. Alcune sono sedute a terra, altre chiacchierano tra loro, alcuni corrono freneticamente da una parte all’altra, altri danno presumibilmente degli ordini al megafono in un idioma a me sconosciuto. Fortunatamente i Volontari di Croce Rossa, con le loro uniformi rosse, sono facilmente individuabili. Provo a chiedere a qualcuno cosa devo fare e dove devo andare.

  • Hai già parlato con Mario?
  • Mario chi?
  • Il responsabile dell’operazione! Guarda, è quel signore laggiù con i capelli brizzolati che sta parlando con quelle infermiere, va’ da lui.
  • Buongiorno Mario, chiedo scusa per il ritardo, ma ho avuto difficoltà a trovare il posto. Come posso rendermi utile?
  • Tranquillo, non sei l’unico. Allora, quali brevetti hai tu?
  • Ehm… Sono un tirocinante…
  • Allora, le persone che vedi sono scese poco fa da un aereo, sono state tutte tamponate prima di entrare. Una volta entrate passano per il personale medico che si è sistemato là per una prima valutazione sanitaria, poi devono attendere in questa grande sala prima di essere chiamati dalla polizia, che nel frattempo ha allestito una questura temporanea con dei tavoli nell’altra sala per l’identificazione e fare i documenti necessari. Vedi queste persone con il megafono e il gilet arancione? Sono i mediatori culturali che danno informazioni nella loro lingua. A proposito, parli inglese?
  • Giusto un po’…
  • Vabbè, va’ da Maria, quella Volontaria laggiù, e dille che ti ho detto di darle una mano.

Mi presento a Maria e mi faccio spiegare la situazione: “Le persone presenti sono da poco scese dall’aereo, hanno fatto un viaggio di molte ore, sedute per lo più a terra e hanno una gran fame. Noi ora cerchiamo di distribuire le colazioni. Ci sono i thermos con il tè caldo, cornetti e biscotti confezionati, latte e purea di frutta. Per loro c’è roba sufficiente per farli magiare; il problema è che stanno per arrivare altri due aerei pieni di persone e questa roba non basterà per tutti. Dicono che dovrebbe arrivare un nuovo carico di roba da mangiare per le 10… Speriamo bene! Dunque… Tu, Giuseppe e Francesca organizzate una postazione da cui preparare e distribuire le colazioni. Fate il prima possibile perché soprattutto i bambini sono affamati!”. Chiedo se c’è un tavolino per preparare questo bar improvvisato. “Provate a cercare, ma non credo che lo troverete. Non c’è nulla, è tutto in divenire, inventatevi qualcosa!”.

Mi guardo negli occhi con Francesca, neanche il tempo di presentarci, e ci troviamo a vagare per il terminal in cerca di qualcosa che possa fungere da tavolino. Alla fine, con degli scatoloni rimediati, mettiamo su qualcosa che assomiglia ad un tavolino di Lego, ci mettiamo sopra i thermos e tutto ciò che abbiamo. Sfruttiamo i carrelli per i bagagli per trasportare le scatole con il cibo da una parte all’altra.

In tutto ciò non ho avuto il tempo di pensare, né di capire chi fossero e come fossero tutte quelle persone che aspettavano di ricevere un tè caldo da noi. Troppi volti, troppi suoni, ordini, gente che corre, ansia di non riuscire a soddisfare le aspettative. Fa un caldo boia e questa struttura è una serra priva di aria condizionata; i guanti in lattice e le mascherine in viso non aiutano. Io, che ho caldo anche a gennaio, comincio a tamponare il sudore sulla fronte con dei fazzolettini.

Bene o male riusciamo ad allestire la postazione e a servire le prime colazioni. Quasi nessuno parla inglese, ma ci si capisce. Le persone si accalcano intorno a noi e fatichiamo a servire tutti e a soddisfare le richieste di ognuno. Sono tutti molto composti e sicuramente più silenziosi di noi. Solo i bambini gridano: i più piccoli giocano, si rincorrono e vengono in continuazione a chiedere biscotti e cornetti, anche se li hanno già avuti. Sembrano fortunatamente ignari di cosa stanno vivendo e probabilmente per loro è una grande avventura. I bambini più grandi sembrano invece coscienti della situazione. Gli adulti sono seri ma molto composti nelle espressioni e nei comportamenti. Non capisco se ciò che traspare dai loro volti è più preoccupazione, più stanchezza o più la sensazione di avercela fatta a scappare dall’inferno.

Tutti hanno buttato nello stomaco qualcosa e un primo giro di colazioni è stato fatto. Ho finalmente modo di osservare da vicino i volti di quegli attori che attori ora non sono più ai miei occhi. Gli occhi… Le donne in particolar modo hanno degli occhi grandi e uno sguardo molto profondo. I bambini sono davvero bellissimi. Ho un attimo di respiro e, mentre ricordo a poche persone di tenere le mascherine alzate, passo tra loro a vedere se hanno bisogno di qualcosa. Incredibile ma vero: i bambini giocano proprio come giocavo io da piccolo, le donne accudiscono i propri figli, gli adolescenti sghignazzano tra loro e gli uomini si prendono cura delle mogli. Qualcuno attacca il telefono alla presa e prova a chiamare i familiari rimasti in patria.

Quanto sono stupido! Cosa avrebbero dovuto fare queste persone strane che avevo sempre visto in tv? Sto per dire qualcosa che potrebbe puzzare di retorica, ma io odio la retorica e vi assicuro che non è questo il caso né l’intenzione: a un certo punto ho avuto la netta sensazione di essere un essere umano in mezzo ad altri esseri umani. Davvero io ero come loro e loro come me. È come se tutte le sovrastrutture culturali, la differente lingua, le differenti espressioni, l’abbigliamento, fossero improvvisamente spariti. Mi sono sentito bene e grato per questa sensazione.

Ma c’è poco da poter pensare e fantasticare… Una ragazza mi fa cenno e, con l’aiuto di un mediatore culturale, mi dice che la sua bimba di pochi mesi che ha in braccio ha bisogno di mangiare. Ha il necessario per preparare la pappa, ma le serve dell’acqua calda. Le dico che gliela procureremo. Ma… Dove? Chiedo ad altri Volontari ma, quella che sembrava una richiesta semplice da soddisfare, diventa improvvisamente una sfida non da poco. In quel terminal non ci sono bar né macchinette automatiche. Nessuno sa come far fronte a questa richiesta e la bimba comincia a piangere. Abbiamo fatto tanto per dare da mangiare a tutti ed ora non siamo in grado di fare qualcosa per la persona che più di tutti ha il diritto e la necessità di mangiare. Nel frattempo dobbiamo continuare a lavorare ma chiediamo a chiunque se sa come risolvere la situazione. Dopo mezz’ora due Volontari mi portano una bottiglia piena di acqua calda.

  • Ma dove l’avete presa? – chiedo
  • Ce la siamo fatta riempire in un bar
  • Quale bar?
  • Uno al terminal 3
  • E come cavolo ci siete arrivati al terminal 3? È lontanissimo!
  • A piedi.

A poco a poco la sala grande dove siamo si svuota per riempire la sala adiacente dove c’è la questura e diversi bambini hanno la maglietta fradicia perché giocano a schizzarsi con l’acqua. Ma non c’è da rilassarsi, perché ci dicono che è appena atterrato un altro aereo. Non dobbiamo far altro che fare ciò che abbiamo fatto fino ad ora. Già, ma le colazioni sono quasi finite ed ora la gente è il doppio di prima! Mezz’ora fa doveva arrivare un furgone con il nuovo carico, ma ancora non si sa niente…

Ora entrambe le sale sono gremite di persone. In quella dove sono stati allestiti gli uffici della questura, sono quasi tutti seduti a terra, disposti in circoli. Ciò che mi fa in parte stare tranquillo è che, almeno tra quelli che ho visto oggi, non ci sono bambini senza genitori. Io e Francesca siamo costretti a distribuire le colazioni rimaste solamente a bambini e a qualche mamma. Nell’attesa nervosa che arrivi il furgone, cerchiamo un po’ di capire se c’è qualche esigenza particolare. Incredibile come dopo un’esperienza così provante, siano tutti estremamente gentili e rispettosi delle indicazioni che vengono date.

Dopo un’ora dall’orario che ci era stato indicato finalmente ci comunicano che il furgone sta arrivando. Usciamo fuori dal terminal in quattro con tre carrelli dei bagagli e aspettiamo. È un’occasione per rilassarci un attimo, anche se non vediamo l’ora che arrivi. Dopo un quarto d’ora di attesa, vediamo arrivare – come un miraggio – il furgone col simbolo della CRI! Come organizzarci ora? Saltano tutti i piani: io e Francesca veniamo mandati nella sala B e altri due Volontari nella sala A. Anche qui non abbiamo nulla per creare una piccola postazione; i pochi tavolini presenti sono occupati dai pc e dalle stampanti della questura, che nel frattempo sta lavorando a pieno ritmo. Non so come, ma proviamo ad individuare un punto dove posizionarci. Stavolta le persone sono meno composte, vuoi perché sono quasi tutti giovanissimi, vuoi perché semplicemente hanno fame. Siamo circondati da persone: chi vuole un tè, chi chiede se c’è del caffè, bambini che chiedono biscotti, una ragazza chiede un cornetto, cominciano a lamentarsi di essere serviti dopo di chi è arrivato più tardi. Io corro da una parte all’altra del terminal per portare scatoloni di latte e di cornetti, mentre Francesca, da sola, comincia a soddisfare le prime richieste. Finalmente finisco di portare il tutto e do una mano a Francesca nel preparare le colazioni. Ormai abbiamo imparato pure qualche parola in lingua pashto: choi è il tè, shish il latte e kik il cornetto. Siamo costretti a prendere dei cartoni vuoti e a posizionarli ad un metro da noi, come limite invalicabile per evitare di ritrovarci tutti addosso. A quel punto compare un ragazzo afgano che ai nostri occhi appare come un angelo. È uno di loro, ma parla perfettamente italiano! Non si presenta e non abbiamo neanche il tempo di chiedergli chi sia, ma lui si mette a fare da interprete e mediatore tra noi e gli afgani. Ci dice quel bimbo cosa vuole, ci dice di mettere lo zucchero nel tè di quella signora, dice ai ragazzi di stare buoni e in fila che ce n’è per tutti. Davvero una salvezza. Quando la pressione diminuisce ho modo di scambiarci due parole:

  • Grazie, sei stato preziosissimo!
  • Figurati, ero qua e ho pensato di darvi una mano
  • Ma tu perché parli italiano?
  • Perché ho fatto per tre anni il barista alla base militare italiana di Kabul
  • Ah, capisco. Parli benissimo italiano! Toglimi una curiosità: come ti sei trovato a lavorare con gli italiani?
  • Ah, benissimo! Persone molto gentili!

Non so se lo diceva perché stava parlando a un italiano, o perché non gli sembrava carino dire qualcosa di diverso dopo che stava ricevendo ospitalità dall’Italia. A me comunque è sembrato sincero. Come è apparso, però, si è dileguato.

In quella fase concitata c’è stata un’altra presenza rassicurante: una bambina che avrà avuto 9 anni che in qualche modo si era affezionata a me e Francesca. Non parlava ed era molto timida. Per tutto il tempo è stata di fianco a noi a guardarci mentre cercavamo di soddisfare le richieste di tutti. I suoi occhi sono bellissimi, grandi e verdi, la pelle olivastra e i lunghi capelli raccolti in due trecce. Potrebbe essere una bambina modella per una pubblicità della Benetton. Le diciamo qualcosa di carino che lei non può capire e ci ricambia con un sorriso, seppur nascosto dalla mascherina chirurgica.

Siamo andati oltre l’orario di fine servizio e ora la situazione sembra essersi normalizzata. Abbiamo terminato tutto ciò che avevamo, ma ora nessuno viene più a chiederci nulla. Cerchiamo di sistemare il tutto e fare un po’ di ordine. Incontriamo il responsabile, gli diciamo quello che abbiamo fatto e che abbiamo finito il turno. Ci ringrazia e ci dice che stanno entrando i Volontari del turno successivo. Nel frattempo vedo che da una parte c’è una Volontaria che ha gonfiato dei palloncini e sta facendo giocare i bambini. Domani queste persone andranno al centro di prima accoglienza di Avezzano.

Mi avvio all’uscita e un signore con la divisa della CRI mi chiede dove andare e che si scusa per il ritardo, ma non riusciva a trovare il terminal 5. Esco dal terminal felice di aver fatto questa esperienza, di aver condiviso – seppure per poche ore – parte della mia vita con queste persone. Ed esco un po’ meno stupido e superficiale.

Entro in macchina e la spia che mi avvisava di qualche ignoto problema non si accende più. Cerco comunque il suo significato nel libretto dell’auto, tanto per capire se sarei esploso da un momento all’altro o se mi fosse caduto l’intero motore sull’autostrada. Dice che si tratta dei freni usurati.

In realtà, li avevo cambiati giusto tre giorni prima.

Badea Cartan, gennaio 2022