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Partecipazione alla politica, impatto della violenza sulle comunità e difesa dei territori, sono questi i temi di cui si è parlato durante la seconda Conferenza Globale delle Donne Indigene. L’evento ha riunito, in forma virtuale a causa della pandemia, 500 leader di donne indigene provenienti da diverse regioni ed esperienze – parlamentari, artiste, donne delle Nazioni Unite, sindache e attiviste sociali –  per dialogare e rafforzare il loro movimento globale. Con l’obiettivo di riscrivere e definire una nuova tabella di marcia per tutto il mondo indigeno. Dalla metà di agosto ai primi di settembre un calendario fitto di dibattiti e workshop con un orizzonte comune: “Niente di noi, senza di noi”, per ottenere visibilità e scrivere una agenda politica globale. Dalle maori della Nuova Zelanda alle ambientaliste delle Filippine, dalle comunità del Burundi e dalle donne Twa del bacino del Congo alle nepalesi e alle donne Sami della Norvegia, alle donne Quechua, le Maya, le Mapuche, le Yucateco e le Otom delle tante realtà indigene dell’America latina.

Venticinque anni dopo la Dichiarazione e la Piattaforma d’azione di Pechino, considerata un punto di svolta per l’agenda mondiale sulla parità di genere, donne e ragazze indigene, seguite da poche osservatrici esterne, si sono date appuntamento per dire quello che vogliono, con l’idea di rafforzare l’organizzazione per il riconoscimento dei loro diritti, perché ancora si ritrovano a dover combattere la violenza strutturale e la discriminazione e l’emarginazione che le colpisce, spesso costrette da sole a contrastare l’espropriazione delle terre che abitano, la violenza ambientale, il cambiamento climatico e l’imposizione di progetti di sviluppo decisi per loro da altri. Con i loro sistemi di vita e cultura sempre sotto assedio e delegittimati dagli stati egemoni, provenienti da quei sistemi coloniali economicamente dipendenti dal saccheggio delle risorse naturali e oggi politicamente organizzati dal neoliberismo e dalla politica di mercato. Così come si legge nelle conclusioni dello “Studio globale sulla situazione delle donne e delle ragazze indigene”, allegato al kit di lancio della conferenza.

Secondo le informazioni raccolte dalle organizzazioni partecipanti, le popolazioni indigene rappresentano il 6,2% della popolazione mondiale, ma costituiscono il 15% delle persone più povere del mondo. Inoltre, mentre c’è stato un miglioramento nell’accesso all’istruzione per le donne e le ragazze in tutto il mondo, le donne indigene si trovano ancora a dover lottare per l’accesso all’istruzione di base in particolare in Africa e nella regione Asia-Pacifico, così come all’istruzione secondaria e terziaria in tutte le altre regioni dove vivono, una difficoltà legata alle gravidanze infantili, ai matrimoni forzati, all’imposizione di svolgere un lavoro anche se minorenni o spesso una discriminazione vera e propria, legata al razzismo.

In più per tutte le donne indigene, indipendentemente dalla loro posizione geografica o dalla situazione socio-politica, gli indicatori di salute assumono valori costantemente più bassi rispetto a quelli delle popolazioni non indigene, con una aspettativa di vita più bassa e tassi più alti per la morbilità e mortalità materna.

La pandemia ha esacerbato disuguaglianze già esistenti: i vaccini non raggiungono queste comunità e, nei pochi territori dove arrivano, l’importanza della vaccinazione non viene spiegata nella lingua nativa e l’uso del monolinguismo dei servizi pubblici non permette un accesso equo all’assistenza sanitaria. Anche nella sfera economica le donne indigene sono state particolarmente colpite, perché la maggior parte di loro è coinvolta in attività produttive del settore informale. In molti paesi per il coronavirus gli imprenditori hanno avuto sussidi dai governi per poter sostenere la propria economia, ma nel caso delle donne indigene e delle loro imprese locali, non c’è stato alcun sostegno. Aumentando un divario sempre più difficile da superare.

Aprendo la conferenza Tarcila Rivera Zea, ex-membro del Forum Permanente per le Questioni Indigene dell’ONU e fondatrice di Chirapaq, l’associazione formata da donne andine e amazzoniche, ha detto: “Sappiamo che ogni sorella, ogni donna indigena, in ogni angolo del mondo, in ogni comunità, lotta, si sforza e affronta situazioni perché i nostri popoli e le nostre culture sopravvivano, e molte volte non siamo visibili. Contribuiamo, collaboriamo, resistiamo attivamente, ma siamo spesso invisibili”.

Tutto quello che ha detto Tarcila Rivera Zea nasce dalla sua storia. Da lei bambina di dieci anni che ha iniziato a lavorare come collaboratrice domestica, a lei giovane donna che ha dovuto imparare lo spagnolo per sopravvivere in Perù. La ribellione che sostiene è iniziata con lei, con la sua vita materiale, e lo stesso si può dire per la tante altre donne che hanno raccontato le proprie storie e le troppe violenze subite. Violenze dovute alla militarizzazione dei territori, violenze fisiche, psicologiche, economiche e lavorative che si ripetono sia all’interno che all’esterno delle comunità indigene.

Incontrarsi e dare voce alle tante realtà rappresentate è stato utile per analizzare la continuità dei progetti politici globali, per capire come rafforzarsi e quali buone pratiche hanno dato sostenibilità finora, per capire come andare avanti. Come stabilire nuove alleanze tra le loro comunità, il loro movimento, e altri settori. Come avviare un dialogo con le autorità invitate per dare eco agli accordi e alle risoluzioni che sono emerse come spazio di advocacy e per dare risonanza alle tante che chiedono di sradicare il razzismo e la discriminazione che si esprime nell’esclusione, nella negazione dei diritti e nell’invisibilità.

“Non siamo esotiche, non siamo folklore, siamo popoli con vita”. Essere indigene è una ricchezza per tutte loro, ma sembra che per il sistema formale sia ancora una fonte di vergogna. O comunque di disinteresse.

Questo articolo è stato già pubblicato sulla rivista Left