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La tata aveva il giorno di libertà e lei era stata costretta a sterilizzare i poppatoi. Avvertiva ancora l’odore acuto del disinfettante. Per distrarsene aveva deciso di smaltarsi le unghie dei piedi. Seduta sul divano, china sulle gambe stese sul tavolino, attingeva lo smalto da una boccetta a forma di lacrima. Stendeva quel rosso con metodo, dal basso verso l’alto, preoccupata di non formare grumi.

     L’appartamento, in un momento di tregua insperato, era silenzioso, come non accadeva da tempo. Poi un rumore di serratura: lui era tornato. Oltre la soglia, si era poggiato col gomito al pilastro della scala interna e l’aveva osservata in silenzio.

‘Stai calma,’ si era detta ‘stai calma’ e si era costretta a guardare la stanza intorno a lei: i libri, allineati in ordine decrescente d’altezza, nella libreria; la confezione di Seroxat, aperta sul mobile, accanto a un bicchiere vuoto; le cornici d’argento, disposte in modo da poter essere viste entrando, con le foto di loro due sorridenti. Era stato lui a imporre quelle scelte nell’arredamento; lei le aveva sempre subite.

     Non era riuscita a calmarsi, anzi sconforto e confusione, se possibile, erano cresciuti. Lo sguardo di lui, fisso sui suoi piedi nudi, la metteva in soggezione e le appannava il cervello. Con pudore li aveva seppelliti sotto un cuscino del divano, lo smalto, ancora fresco, l’aveva macchiato con uno sfregio rubino, simile a una ferita. 

«Non possiamo continuare così» lui aveva detto. 

«Sei tu che hai deciso di tradirmi».

Era stata in silenzio per tutto il giorno, da stupirsi del suono della propria voce.

«È la tua immaginazione».

«Se non è così perché sparisci e mi lasci sempre più sola?»

«Io lavoro».

«Non puoi lavorare venti ore al giorno. I sabati. Le domeniche».

«Se non lo facessi non avresti questa casa, la bambinaia, le carte di credito».

«Puoi riprenderti tutto e darlo a quelle che ti porti a letto».

«Non vado a letto con nessuna».

«Non mentire. Torna dalla tua segretaria o dalle sciampiste che ti fanno l’occhietto».

«È assurda questa gelosia».

«Quando è stata l’ultima volta che abbiamo fatto l’amore?»

«Non lo so. Sei sempre piena di astio. Da quando è nato Sergio, pensi solo a lui. Sei così sciatta».

«Sto tutta la giornata appresso al bambino. Non ho il tempo per fare la mantide. Inventa altre scuse per giustificare i tuoi tradimenti».

«Ottavia, non puoi essere convinta di questo. È solo la depressione post parto», lui aveva detto e le si era avvicinato.

Ottavia, gli occhi sgranati, si era alzata, gli aveva opposto in avanti le mani rabbrividendo per il contatto dei piedi nudi col parquet.

Erano rimasti a fronteggiarsi in silenzio, ciascuno ai confini dello spazio vitale dell’altro e lei aveva percepito l’odore della sua acqua di colonia: sapeva di fiori morti.

     Aveva passato una mano tra i capelli e gridato con astio a quell’effluvio: «Hai detto che eri a Milano per lavoro, l’altra settimana. Ma nella valigia ho trovato una ricevuta dell’Hotel delle Terme di Sciacca e, tra le tue mutande sporche, un capello biondo. Basta bugie. Torna dalle tue puttane».

«Avessi detto che andavo in una clinica del benessere per stare lontano dall’atmosfera di questa casa, avresti montato un casino dei tuoi. Non so di chi sia quel capello, se c’è veramente» lui aveva risposto, il viso di pallido, trasformato in una smorfia rugosa.

Poi, senza voltarle le spalle, aveva fatto due passi indietro, urtando lo spigolo del cassettone, quello di noce scuro comprato insieme in Umbria, perdendo quasi l’equilibrio. Si era mantenuto in piedi aggrappandosi con la sinistra al bordo del mobile, mentre afferrava con la destra, tra i sopramobili disposti sulla superficie lucida, un taglia carte d’avorio. L’aveva guardata, spostando lo sguardo, d’un azzurro avverso, da quell’oggetto acuminato a lei per uno, due, lunghissimi secondi, poi, tenendolo per le estremità, lo aveva spezzato e la casa si era riempita dell’eco di quel gesto.  Aveva gettato sul pavimento i pezzi d’osso e era uscito.

Il tonfo della porta richiusa si era fuso col pianto di un neonato.

Ottavia allora aveva portato le mani alle orecchie, scuotendo più volte, a destra e a sinistra, la testa.

‘Arrivo’ aveva pensato ‘mamma sta arrivando’.

     Su, in camera da letto, si era chinata sulla culla del figlio, lo aveva rigirato su un fianco e accennato una ninna finché non si fu riaddormentato. Ottavia, allora, gli aveva rimboccato le coperte, non serrandole ai lati: temeva sempre potesse soffocare.

     Era tornata in salotto, scendendo rapida le scale, tolto dalla parete un quadro, armeggiato con i pomelli della cassaforte. Il ticchettio dentato degli ingranaggi si confondeva con il tonfo accelerato del suo cuore. Aveva tuffato la mano nel buio, oltre lo sportello corazzato aperto ed estratto un balenare d’acciaio.

Si era precipitata al balcone, il pugno serrato intorno al calcio della pistola. Dall’alto aveva individuato la sagoma di lui, ferma a parlare con una donna. E era stato come se fosse di un’altra il braccio che, sollevandosi fino all’altezza dello sguardo, aveva puntato il naso metallico dell’arma sulla schiena di lui e sparato. Intorno alla figura del marito subito si era alzati sbuffi di bitume, neri come un’eruzione, lui si era voltato in direzione degli spari, l’aveva vista ritta dietro la ringhiera e con un grido si era nascosto, rotolando su se stesso, dietro un cassonetto, insieme all’altra donna. Ottavia aveva fissato inebetita la scena, poi senza un pensiero era rientrata in casa. Poggiandosi al corrimano aveva risalito turbata i gradini verso la zona notte, della casa, accompagnata dalla percezione crescente, di urla e sirene a graffiarle l’udito. Un baluginio di luce bianca e azzurra l’aveva avvolta roteando sui muri.

     Il piccolo non si era svegliato. Soltanto dopo che Ottavia si era chiusa con lui in bagno, Sergio aveva cominciato a lamentarsi con piccoli gorgoglii musicali. Ottavia avvertiva i battiti del cuore aumentare: da adesso tutto sarebbe cambiato.

Sergio si agitava e piangeva. Lei aveva poggiato le spalle alla parete e puntellandosi con i piedi cominciato a scivolare verso il pavimento, fino a trovarcisi seduta.

Nella mano destra stringeva la pistola, col braccio sinistro sorreggeva il peso del bambino. Le dita nude dei piedi inquadravano la parte inferiore del lavabo: una convessità oscena e paurosa.

Sergio continuava a piangere, lei lo cullava ondeggiando avanti e indietro col busto. Quando Sergio aveva smesso di piangere tutto era di nuovo in silenzio. Qualunque cosa potesse accaderle, non aveva più importanza. In quel momento le andava bene così: finalmente senza di lui.

Soltanto aveva freddo; molto. La mano destra, stretta sul calcio, le tremava e la canna della pistola picchiettava sul pavimento. Era come ipnotizzata da quel suono tondo e continuo.

A scuoterla, inaspettato, lo squillo del telefono.

‘Purché non svegli Sergio’ aveva pensato precipitandosi in corridoio e passato istintivamente la pistola sulla sinistra, cercando di tenerla lontana dal corpo del figlio. Questo gesto la portò a pensare che era inutile rispondere perché il bimbo era con lei, al sicuro. Ma era troppo tardi: stringeva già il portatile nella destra.

«Non riattacchi. Mi ascolti, per favore» una voce d’uomo diceva.     

«Ho già parlato con troppi dottori. No».

«Non sono medico. C’è il suo accanto a me. Se non vuole parlargli, possiamo farlo noi due. Il bambino è con lei? Mi dica almeno questo».

«Dorme. Chi sei e perché mi telefoni?»

«Mi chiamo Lupo, sono un ufficiale dei carabinieri, voglio aiutarla».   

A quelle parole, sbigottita, aveva rivisto se stessa sparare e il marito che si rivoltava sul selciato come una frittata.

Sergio si agitava nel sonno. Un rivolo di saliva gli scivolava dalla bocca, fino alla guancia. Ottavia aveva cercato di asciugarlo con il polso della camicetta e nel farlo aveva pressato un tasto del ricevitore e la comunicazione si era interrotta in un bit metallico. Era di nuovo sola. Non ebbe il tempo di arrendersi a una crisi di pianto, perché il telefono risquillò disperato.

«Capisco come ti senti» aveva ascoltato Lupo.

«Cosa ne sai. Stai mentendo; come lui».

«Sono stato malato anch’io, come te. A volte desideravo avere un tumore. Almeno sarebbe finita».

«Nessuno può capire come ci si sente» gli aveva risposto, poi continuò con veemenza: «E quelli che credi più vicini, quando trovi il coraggio di parlare, dopo un po’ non ti ascoltano più. Faceva così anche lui».

«Calmati, adesso calmati» la voce di Lupo la esortava dal ricevitore e per Ottavia fu come se ne avesse conosciuto il timbro da sempre.

«Gli facevo paura con la mia malattia, ma non aveva il coraggio di lasciarmi».

«Sei confusa e stanca. Fatti aiutare».

«Ho solo freddo» aveva risposto, mente avvertiva le ginocchia flettersi. Si era poggiata ancora una volta al muro e il freddo della parete si aggiunse a quello che provato e, ancora una volta, i pensieri e le immagini delle ultime ore l’avevano assalita. Il cuore a mille. Soltanto la voce di Lupo le impediva di sentirsi ancora più disperata e sola; la immaginava, quella voce, partire da un luogo lontano, trasformarsi in impulsi, imbucarsi dentro fasci di cavi e raggiungerla.

Sergio dormiva, ma Ottavia avvertiva il braccio su cui era steso intorpidirsi. Ebbe paura di non riuscire a reggerlo e lo strinse più forte; il piccolo aveva riaperto gli occhi azzurro liquido e cominciato a piangere.

‘Lupo non può non sentirlo’ aveva pensato.

«Penserete a lui?» Ottavia aveva chiesto alla voce.

«Stai sicura».

«Cosa vuoi che faccia».

«Sono dietro la porta, fammi entrare. Non devi avere paura».

‘No,no,no’ Ottavia pensava scendendo  verso il salone dentro una vertigine di confusione. Più di una volta ebbe la certezza di non farcela, ma ogni volta aveva trovato la forza di poggiare il piede nudo su uno scalino, poi su un altro e su un altro ancora.

«Ottavia, ci sei? Ci sei? Per piacere, ci sei?» la voce implorava dal ricevitore, mentre lei lottava con l’equilibrio, la fatica, i contorcimenti di Sergio e il peso della pistola.

Sull’ultimo gradino, prima del parquet del salone, si era fermata. Tutto intorno a lei tremolava. Gambe e occhi le dolevano per lo sforzo.

«Non ci riesco. Non ce la faccio a aprire la porta» aveva bisbigliato dentro il cordless.

«Stai calma: va benissimo così. Sei molto coraggiosa» Lupo disse «ho un passepartout. Entro io. Stai calma».

Poi aveva percepito un graffiare metallico intorno alla serratura e il ruotare dei cardini. La porta blindata si era scostata quel tanto da permettere a un uomo di entrare. E Ottavia lo aveva visto: appesantito e scuro di capelli. Infagottato dentro un giubbotto blu.

«Ottavia» l’aveva chiamata, come se anche lui la conoscesse da sempre, almeno il suo malessere, lei aveva pensato. E mentre Lupo le si avvicinava, con le braccia in avanti e le mani rivolte verso l’alto, non si era chiesta se quel gesto era un modo per non mostrarle ostilità o per offrirle un abbraccio: si era sforzata di recuperare le sue ultime forze e gli era andata incontro. Quando gli fu vicinissima aveva poggiato la fronte sulla sua spalla.

Lupo, senza gesti bruschi, le aveva sorretto il braccio su cui Sergio si agitava e soltanto allora Ottavia lasciò cadere la pistola sul pavimento; aveva affondato il viso nella tela del giubbotto di lui e pianto a dirotto.