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Ritorno.

Ero un comandante di missione, uno poco abituato a restare a lungo nello stesso luogo, cosicché non appena la mia presenza non fu più utile riprogrammai la nave per ritornare sulla terra.
Gli androidi di assistenza al viaggio, perfettamente ricaricati di gentilezza e resistenza allo stress con nuovi software, mi aiutarono a rientrare nella capsula di sospensione vitale, i motori traslazionali si riavviarono con un leggero ronzio, la mente ridusse il livello energetico al minimo, ero pronto per viaggiare nello Spazio Cosmico e tra i miei pensieri.

Sognai i volti degli umani che avevamo trasportato sulla nave spaziale e lasciato su HR2550, sognai oceani immensi che avevo attraversato in barca a vela con mio padre, sognai di essere con lui.

Il viaggio traslazionale mi ricondusse sulla terra.
Alla base spaziale regnava una pace innaturale, sembrava non esserci traccia di presenza umana o androide. La procedura di sbarco era automatizzata, mi ritrovai a seguire i percorsi verso le uscite guidato dalle piste luminose che mi accompagnavano, con unico sottofondo il rumore dei miei passi e dei due androidi che erano scesi con me a terra.
Si aprirono automaticamente porte di ascensori, si misero in moto scale mobili e nastri trasportatori, tutto funzionava perfettamente alimentato dai generatori solari che assicuravano l’energia necessaria alla base spaziale.
Poi gli androidi si separarono da me, imboccarono un corridoio che portava alla zona dei laboratori e non li vidi più, mentre io passai attraverso i life detector, fui giudicato idoneo e mi ritrovai nell’unità delle abitazioni degli equipaggi.
Le piste luminose mi condussero all’appartamento che avevo abitato prima di partire, indossai abiti adatti alla vita sulla Terra, interrogai il personal assistant sulla disponibilità di un mezzo di trasporto terrestre nel parcheggio, presi dalla cambusa una scorta d’acqua e scesi nei garage sotterranei.
Non avevo ricevuto nessun bollettino di aggiornamento sulla situazione dell’epidemia, migliaia di domande mi ronzavano nella testa, alcune le ebbi indirettamente, non appena arrivai nel garage.
Era quasi completamente deserto, tranne qualche mezzo di trasporto visibilimente inadatto alla marcia, sentii le pulsazioni aumentare e azionai il comando di apertura dei box riservati agli ufficiali.
Dentro, sotto luci minime, alcuni mezzi erano collegati alle prese di ricarica. Ne scelsi uno di quelli che aveva la massima autonomia e che avrebbe potuto trarmi d’impaccio nel caso avessi incontrato strade in cattive condizioni.
L’idea era quella di partire alla volta della sperduta regione dove mio padre si era rinchiuso in un laboratorio. Il dubbio era che non ci fossero più le condizioni per raggiungere quella destinazione con mezzi di trasporto convenzionali.
Se la popolazione umana era stata dissipata interamente dal virus, come avrei potuto rifornire il mezzo di energia, quando se ne fosse presentata la necessità?

Presi posto al cockpit del mezzo di trasporto stradale, dettai al computer di bordo i miei desideri riguardo al viaggio, il motore prese vita, le ruote cominciarono a muoversi affrontando il pavimento del parcheggio e poi la rampa di uscita verso l’esterno. Non oscurai i finestrini, in modo da potermi rendere conto di cosa avrei incontrato una volta giunto sulla strada che collegava la base spaziale all’autostrada automatica e poi alla città più vicina.


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright. Foto copertina ©Antonio Musotto