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Il film “Rapito” di Marco Bellocchio ha suscitato molte polemiche, ancora in corso. Ha anche generato una valanga di articoli elogiativi, spesso scopertamente strumentali alla pressione esercitata dai giornali italiani perché “l’Italia” ottenesse un premio al Festival di Cannes, quasi che un film sia espressione dell’Italia intera. Questo genere di manifestazioni non possono che destare sorpresa e diffidenza in chi sia dotato di senso critico e il primo che se ne dovrebbe rammaricare è proprio Bellocchio, autore di “Sbatti il mostro in prima pagina”, un’opera in cui veniva denunciata senza mezzi termini la manipolazione delle verità, scorretta e violenta, da parte dei mezzi di comunicazione di massa.  A dire il vero una simile gazzarra è un triste dejà vu: anche se non viene ricordato quasi da nessuno lo scandalo di oggi è una replica (un “remake”?) dello stesso scandalo sugli stessi, identici argomenti avvenuto tra 1997 e 2000.  Allora, in occasione della conclusione del processo di beatificazione di Pio IX (per la cronaca, avviato da tempo immemorabile), Giovanni Paolo II fu attaccato da una parte della stampa internazionale e da molti commentatori, più o meno qualificati a prendere la parola, perché promuoveva al rango di beato un uomo che si era macchiato del “crimine” rappresentato dal “caso Mortara”. Le reazioni critiche partivano da un libro di David Kretzer, The Kidnapping of Edgardo Mortara, New York Knopf, 1997. Le polemiche sono continuate nel tempo ed hanno generato altri libri, come l’edizione di una sorta di “memoriale” scritto da Mortara stesso in spagnolo, pubblicato da Vittorio Messori nel 2005 (Io, il bambino ebreo rapito da Pio IX, Milano, Mondadori, 2005), per dimostrare che la vittima del “rapimento”, divenuto poi sacerdote, non si considerava affatto “rapito” ed  era felice della sua conversione. 

A me pare che tutto questo clamore non favorisca la riflessione ed anzi sia piuttosto mistificante. Non entrerò dunque in questa ridda infernale e mi concentrerò  sull’unica cosa che i critici (ma anche gli spettatori), avrebbero dovuto fare fin dal principio: valutare il film dal punto di vista estetico.  Solo dopo aver esposto quello che penso mi permetterò di dire qualcosa  dal punto di vista storico, perché è funzionale a una migliore comprensione del film stesso.

“Rapito” è una  delusione. Mi dispiace molto doverlo dire perché sono un grande ammiratore di Bellocchio e ho scritto più di un articolo su di lui, elogiandolo apertamente e addirittura difendendolo da forzature e critiche sbagliate. In questo caso però devo arrendermi all’evidenza. Il film sembra una docu-fiction televisiva, girata senza convinzione, piatta, meccanica, prevedibile dalla prima all’ultima scena, tradizionale nelle inquadrature e nel montaggio, senza nessuna ellissi narrativa e senza un guizzo di regia sperimentale. Il che è tutto dire per un regista che ha girato opere veramente fantasiose e spiazzanti come Sorelle mai, che fa pensare alla furia di  Benvenuto Cellini  che per realizzare il Perseo fonde le posate e i piatti di casa preso da un empito selvaggio e sovrumano. Qui invece tutto è calma piatta. E meno male, perché quando qualche sussulto autoriale fa capolino è proprio proprio un disastro, come quando le caricature del papa diventano cartoni animati e pare la “Sirenetta” o quando Cristo  scende dalla croce, come nell’Anno che verrà di Lucio Dalla. Non parliamo poi di scene arraffazzonate  come quella dei funerali di Pio IX o quella dell’incubo horror del papa; o delle lacrime a fiumi di tutti, ogni scena che Dio comanda, comprese quelle che stillano come rugiada dagli occhi del cattivone Pio IX, buone solo per ammiratori attardati di De Amicis. Quanto alla colonna sonora, inqualificabile, per cui non c’è un volo di mosca senza un fortissimo dell’orchestra a palla, Dio mio, è un incubo da cui fatico ancora adesso a liberarmi.  Sorvolo sulla fotografia  tardo-Caravaggesca tutta luci e ombre, che va tanto di moda negli ultimi decenni e inganna lo spettatore facendogli credere che i “secoli bui” non fossero il Medioevo, ma tutto il passato avvolto dalle tenebre fino a che le “Magnifiche sorti e progressive” del Mondo Moderno  non  scoprirono finalmente la Luce, accomunando Illuminismo ed energia elettrica. Ma insomma, direte voi, non c’è proprio nulla di buono in questo film? Qualcosa di buono c’è e giustifica l’illusione ottica di tanti  spericolati critici: la parte “buona” è rappresentata dagli attori e, naturalmente, dalla grande professionalità  di Bellocchio nel dirigerli.  Fausto Ruso Alesi, nei panni di Salomone Mortara, è stupendo; altrettanto brava  è  Barbara Ronchi,  nei panni della madre del piccolo ebreo; e veramente bravi sono Enea Sala,  il bambino  che recita nel ruolo difficilissimo di Edgardo Mortara e Paolo Pierobon  nel ruolo altrettanto difficile di Pio IX. Convincentissimi, ovviamente, i mostri sacri  Fabrizio Gifuni e Filippo Timi, ma anche Antonio  Piovanelli,  un attore straordinario che mi ha fatto tanto piacere rivedere sullo schermo. Tutti gli altri sono sicuramente appropriati, misurati ed efficaci. Il che vuol dire che il casting è stato di primo ordine e di prim’ordine è stata la direzione di Bellocchio, che tiene in pugno tutta la sua piccola tribù senza sbagliare mai. Bene, direte voi.  Bella e accurata anche la scenografia di  Andrea Castorina. Allora vale la pena vedere il film? Certo che vale la pena. Come vale la pena vedere in tv tante  docufiction fatte bene. Ma nessuno ha mai pensato di presentare a Cannes questo tipo di opere e neppure di dire che  se non vincono premi, allora vuol dire che gli stranieri snobbano “l’Italia”  e non sanno che l’Italia s’è desta!

E a proposito dell’Italia s’è desta. Sul piano propriamente storico il film è un’altra delusione.  Per carità, non intendo fare il professorino,  impedire agli artisti di prendersi tutte le libertà e le licenze  che vogliono o scoprire “errori” da segnare con la matita rossa e blu. Dico solo che il film  si basa su una  storia vera e il suo significato scaturisce proprio da questo. Se si fosse trattato della vicenda di due sconosciuti, persi nel gran mare della storia, nessuno avrebbe avuto niente da dire. Ma se invece si parla di personaggi storici, allora  si  invita  lo spettatore a ricordarsi della storia, non a dimenticarla.  E invece la storia vera, la Storia dell’Ottocento  è solo un fondale di teatro. Faccio un esempio. Nel film si vede Pio IX alla vigila della Breccia di Porta Pia che si consulta coi suoi sottoposti, tra i quali un alto ufficiale che propone di combattere. Il papa sconsolato dice, rivolgendosi al cardinal Antonelli (l’ottimo Filippo Timi): “I francesi ci hanno abbandonato…”. Questa battuta è delirante: non è una licenza poetica, o un volo pindarico. E’ delirante e basta. Perché? Ma perché la Breccia di Porta Pia, come ricorda la didascalia del film stesso, avvenne il 20 settembre 1870, quando la Francia che avrebbe potuto proteggere il papa ormai non esisteva più. I francesi avevano  perso la battaglia di Sedan e Napoleone III aveva firmato la resa il 2 settembre 1870; il 3 settembre Parigi era insorta e il 4 settembre la Francia era divenuta una repubblica. A Parigi  sarebbe stata proclamata la Comune con tutte le conseguenze del caso. Pio IX non lo sapeva che cosa era successo? 

Voglio dire allora che il film presenta inaccuratezze? Ma non me ne può importare di meno! Il punto non è la possibile svista, che capita a tutti, a me per primo. Il punto è che nel film la storia ci sta per modo di dire. Si pensi alla figura di Pio IX. Per tutto il film è presentato come un uomo solo e indipendente, oltre che prepotente e umorale. Eppure quest’immagine è estremamente superficiale. In un libro recente uno storico estremamente autorevole come Roberto Rusconi ha giustamente definito Pio IX: «prigioniero del Vaticano»(1). Di tutto questo nel film non c’è traccia. Il contesto curiale e politico, l’insieme dei personaggi che circondavano il papa e lo condizionavano pesantemente non è minimamente ricordato. L’unico che compare è  il cardinal Antonelli (che per la cronaca non era un sacerdote, ma un laico, anche se aveva il titolo di cardinale): ma a vederlo nel film sembra un piccolo prete completamente soggetto al papa, mentre semmai era il contrario o almeno il contrario per molti aspetti che nessuno ricorda. Certo se l’unica cosa che importa è sottolineare lo “scandalo” del Papa-Re e l’arbitrarietà del suo potere di tiranno è superfluo ricordare che non era un uomo solo e che era addirittura un ostaggio nelle mani di altri. Ed anche che non è stato sempre lo stesso uomo nel corso del tempo e che è cambiato radicalmente con gli anni, cambiando parere su tutto, in particolare proprio sugli ebrei, a causa  di una serie di choc e dell’azione nefasta di certi personaggi. Tra questi ce n’era uno che nel film non viene minimamente ricordato e che invece avrebbe meritato più attenzione. Mi riferisco al Padre Antonio Bresciani, un autore che deve la sua triste fama a Francesco de Sanctis e soprattutto ad Antonio Gramsci. Perché questo gesuita,  ancora vivo tra 1858 e 1862,  gli anni in cui si svolge la prima parte del  film, avrebbe dovuto figurare in qualche modo nella pellicola? Non solo perché era un leader del partito conservatore, ma soprattutto perché aveva scritto un testo che ebbe un successo immenso L’ebreo di Verona, pubblicato a puntate nel 1850-51, ma ripubblicato in forma di libro nel 1861. Questo esempio straordinario  di feuilletton cattolico-conservatore  narrava la storia di un giovane ebreo che partecipa alle congiure dei cospiratori mazziniani, l’ultima manifestazione della diabolica setta dei seguaci della Rivoluzione Francese che adorano il diavolo con messe nere e sacrifici notturni. Il ragazzo, in piena buona fede, crede di lottare per un mondo migliore e vuole, naturalmente, che sia abbattuto il potere del papa, partecipando alle vicende che portano alla proclamazione della Repubblica Romana  dopo la fuga a Gaeta di Pio IX. Alla fine tuttavia, dopo un’odissea che lo porta in giro per l’Europa, si accorge della violenza disumana dei cospiratori e si converte al cristianesimo, abbandonando la sua  vita dissoluta. Per punizione i suoi ex compagni lo fanno uccidere da due sicari, un gesto tipico della loro crudeltà demoniaca.  

Il romanzo, rivisto in alcune parti personalmente da Pio IX, ebbe una popolarità incredibile ed ispirò pensieri e scritti di cattolici conservatori in tutta Europa. In esso si potevano leggere pagine rivoltanti sugli ebrei: «gente sozza, ignorante, taccagna, vigliacca che…purché  la risurrezione d’Europa  ricrocifigga e riseppellisca il Nazzareno,  ci darebbono insino alla pelle»(2);  ma anche e soprattutto pagine commoventi sulla redenzione dell’ebreo, che si convertiva e finalmente era un essere umano, anche a costo di perdere la vita.

Questo eroe della carta stampata  divenne un modello da seguire. E abbagliò tutti coloro che si riunivano intorno a Pio IX, dopo la caduta della Repubblica Romana (nella quale parecchi ebrei si erano distinti combattendo con onore (3)), in  anni  in cui si moltiplicarono in Italia saggi ed articoli nei quali si discuteva appassionatamente il problema dell’emancipazione degli ebrei. Il mito dell’ebreo buono che si converte e abbandona le idee mazziniane e la vita precedente era necessario per riconciliarsi con un  passato chiuso bruscamente e voltare pagina rispetto a pericolose tentazioni. Pio IX non era stato sempre il reazionario che divenne dopo il 1849. Nel breve periodo che passò tra la sua elezione il 16 giugno 1846 e la sua fuga a Gaeta il 24 novembre 1848 era stato per tutti esattamente l’opposto.  Dopo mesi di trionfi popolari e di decisioni inaudite come la concessione di  uno Statuto costituzionale  Pio IX abolì le mura del ghetto di Roma il 17 aprile 1848. 

Non fu una cosa facile. Tutti, a cominciare dagli ebrei, rimasero sconcertati e l’iniziativa  fu possibile solo grazie all’intervento deciso di personaggi come Ciceruacchio, il leader del popolo e degli innovatori, chiamato il  “re di Roma”. Ciceruacchio andò di persona al ghetto e cominciò a spicconare i muri per abbattere cancelli e sbarre, seguito dal popolo festante che sommerse, letteralmente, una folla ostile che avrebbe voluto invece attaccare gli ebrei. Ma la partita non era ancora chiusa. A pochi  mesi di distanza, il 24 ottobre, fu organizzata una sommossa contro gli ebrei che sarebbe sicuramente sfociata in un pogrom. Aizzati dal partito dei conservatori e corrotti da massicci  finanziamenti dell’Austria e della Francia, un gruppo di provocatori e di assassini si riunì intorno al ghetto, approfittando di un incidente (preordinato da chi?) nel quale un ebreo, Angelo Moscati, aveva ferito un cristiano, Sante Poccetti e una guardia civica. Cominciarono i primi tumulti e solo l’intervento  della Guardia Civica e dei Carabinieri fermò per un momento gli assalitori. Ma il giorno dopo tutto stava per precipitare. Sul giornale clericale “Cassandrino” apparve un articolo spaventoso che diceva che gli ebrei: «sgrassano i poveri cristiani come agnelli…Non si lamentino dunque se hanno di tanto in tanto questa sorta di nespole (= queste botte)…Non sieno i nemici degli uomini o gli uomini non li tratteranno sempre da cani barboni e mastini e daranno loro di cotali serviziali da fargli andare netta, netta l’anima…La fune e il sapone costano poco. Domani il resto.(4)».  Ma il papa non si fece intimidire. Il motivo era semplice aveva appena eletto come primo ministro un  uomo con un carattere di ferro: Pellegrino Rossi, che secondo Cavour era «una delle più belle figure del Risorgimento». Anche se moderato e fedele al Papa, Rossi era fermamente deciso a stroncare la mafia dei conservatori e dei reazionari.  Scrisse un  articolo nobilissimo sulla Gazzetta di Roma esortando i romani ad essere degni del loro nome e a considerare gli ebrei cittadini con uguali diritti a quelli degli altri, Poi prese di petto i facinorosi che volevano fare a pezzi gli ebrei: mandò valanghe di carabinieri a lui fedeli e di legionari della guardia civica di provata  fiducia e fece arrestare  tutti quelli che bisognava arrestare anche quando minacciavano ritorsioni ed erano garantiti dall’omertà prezzolata di clericali, austriaci, bavaresi e francesi.  I più prestigiosi giornali romani, come “L’Epoca”, la “Pallade”, “Il contemporaneo” esultarono e scrissero molti articoli a favore degli ebrei.  Il direttore del “Cassandrino” fu condannato a un  mese di prigione. Con  la stessa energia furono repressi altri tumulti della stessa matrice ad Ancona, a Ravenna e nel carcere di  Civitavecchia.   I reazionari e i servizi segreti austriaci, bavaresi e francesi reagirono come belve ferite. Si scatenarono, aprendo solchi nelle file degli innovatori e riuscendo ad assicurarsi i servizi di uomini che pure avevano appoggiato Rossi.  Dissero che il primo ministro era un dittatore, che avrebbe sconfitto i nemici del progresso e spinsero  contro di lui i rivoluzionari. Sparsero anche la voce che Rossi voleva la pace con l’Austria ed era ostile ai Savoia, il che era parzialmente vero, anche se non nei termini in cui veniva falsamente detto. Alla fine Rossi fu ucciso, dieci giorni dopo il suo articolo a favore della sicurezza degli ebrei, il 15 novembre 1848. La colpa fu data  ai rivoluzionari, che possono anche avere materialmente compiuto il delitto, ma non furono certo soli, né si mossero da soli, in uno stato in cui la polizia conosceva tutti uno per uno e  sorvegliava ogni giorno tutti con una miriade di spie e di informatori.  La cosa non sfuggì agli osservatori più intelligenti come ad esempio il diplomatico francese Ernest Burdel che  scrisse: «il clero conosce molto meglio dei repubblicani gli autori [dell’assassinio],… si è troppo dimenticato che il signor Rossi, di cui il partito reazionario temeva il talento, aveva colpito i beni ecclesiastici di un’ipoteca di 4.000.000 di scudi e perseguiva con perseveranza lo stabilimento, odioso a quel partito, di un governo costituzionale.(5)».

Pio IX ebbe uno choc tremendo in seguito alla morte di un uomo che gli era amico e passava il tempo con lui, giocando a biliardo e chiacchierando di politica. Coloro che avevano preparato l’attentato, gli stessi che avevano ordito la congiura contro di lui e che avrebbero voluto fare a pezzi gli ebrei, gente della risma di Bresciani, del cardinal  Antonelli, dell’ambasciatore bavarese e dell’ambasciatore della neonata repubblica francese, smaniosa di rubare il posto all’Austria sulla scena europea, accorsero immediatamente accanto al papa. Sfruttando lo choc del pontefice, mentre a Roma si scatenavano i tumulti e il popolo veniva respinto a fucilate dal palazzo papale, i reazionari lo convinsero a fuggire a Gaeta, a mettersi sotto la protezione del sanguinario Ferdinando di Borbone, a rinnegare tutto quello che aveva fatto. E Pio IX che non era certo il carattere adatto a reggere questa situazione, fu travolto e rimase alla fine intrappolato da sé stesso. Gli anni successivi furono gli anni della restaurazione e della riaffermazione non solo del potere del papa, ma anche del suo ruolo spirituale contro tutte le dottrine moderne che ne relativizzavano l’autorità e contro tutte le confessioni religiose considerate nemiche del cristianesimo, a cominciare da quella ebraica. Non è un caso, del resto,  se l’Ebreo di Verona fu ripubblicato nel 1861, quando il caso Mortara era scoppiato da tempo. Pio IX  aveva cambiato bruscamente opinione a proposito degli ebrei. Con l’enciclica Nostis et nobiscum del 1849  accettò drasticamente le opinioni dei più intransigenti, come Bresciani o Ferdinand Jabalot. Ha scritto a questo proposito De Cesaris: «Vi sarebbe stata una macchinazione contro la Chiesa cattolica, ordita da forze oscure, tra le quali  “l’ebreo” assunse presto un ruolo dominante…Gli ebrei furono allora rappresentati come pericolosi, perché responsabili dei processi di scristianizzazione dell’Europa.(6)».

Imboccata questa strada la Chiesa non tornò indietro. Nel 1864 Pio IX pubblicò il Sillabo, cioè  L’elenco  dei principali errori del nostro tempo, nel quale erano condannate le principali teorie rivoluzionarie e liberali moderne, in particolare: quelle che volevano la fine del dominio temporale dei papi (proposizione XXVI); l’ipotesi che l’uomo possa scegliersi la «religione che, col lume della ragione, reputi vera» (proposizione XV);  l’opinione che tutte le  confessioni religiose  siano uguali di fronte allo Stato (proposizione LXXVII).

Il caso Mortara va inquadrato in questo clima e in questo atteggiamento spirituale e politico: non si tratta solo della discutibile affermazione del valore del battesimo in base al diritto canonico e della protezione da accordare a un’anima ormai cristiana. Si tratta di qualcosa di più profondo e vasto: la  difesa ad oltranza di un cristianesimo conservatore, che considera anticristiano e immorale vivere al di fuori della Chiesa di allora, in senso spirituale e materiale. Contro la crociata internazionale  da parte di ebrei, massoni, rivoluzionari, socialisti, comunisti e atei la Chiesa deve proclamare la sua incrollabilità granitica. All’interno di questa mentalità,  chi avesse voluto sottrarre alla Chiesa un bambino che era stato salvato dalla dannazione attraverso il battesimo  era un nemico della Chiesa stessa. 

Se tutto questo è vero non ci si può limitare a presentare  il caso Mortara limitandosi al solo caso Mortara, alla sua drammaticità paradossale, alla vicenda tristissima dei coniugi Mortara, all’enigma del rifiuto della vittima di tornare indietro,  facendo riferimento alla storia in modo occasionale e distratto. La vicenda va collocata nel suo tempo, distinguendo nettamente le posizioni dei conservatori  da quelle di altri cattolici, a cominciare da quella dei sacerdoti che appoggiarono Garibaldi a rischio della vita come Don Giovanni Verità o  don Stefano Ramorino, fucilato insieme a Ciceruacchio dagli austriaci, lo stesso destino di Don Pietro Pappagallo fucilato dai nazisti  nel 1944 e reso immortale da Roma città aperta. Per finire con quella dei teorici di una visione meno integralista ed ottusa dei valori evangelici, di cui è ricchissima la letteratura teologica dell’Ottocento e di cui sarà ancor più ricco il Novecento. Sono queste correnti che hanno portato a un grande cambiamento dottrinale nel Concilio Vaticano II, proponendo nuove linee di pensiero, molto più importanti  di certe  plateali, demagogiche e incongrue richieste di “perdono” da parte di chi non ha commesso alcun crimine e non può addossarsi crimini non suoi. Crimini che in ogni caso  non appartengono all’essenza del cristianesimo e neppure alla Chiesa di oggi, ma solo a quella che il padre Marie-Domique Chenu chiamava “la chiesa costantiniana”, con tutte le sue follie, dalle crociate ai roghi dell’Inquisizione.

In conclusione: la docufiction di Bellocchio non ci sembra riuscita, né come fiction, né come documentario.  In ogni caso, però, è un film d’autore, che ritorna su temi e problemi che egli ha affrontato più volte nel corso della sua carriera. In questo senso, come “errore d’autore” è pur sempre un’opera che vale la pena conoscere, liberandoci dell’acrimonia  e delle polemiche.

  1. La santità del papa da san Pietro a Giovanni Paolo II, Roma 2010.
  2. Bresciani, L’ebreo di Verona, Napoli 1861, p. 59.
  3. Piattelli, Gli ebrei e la Repubblica Romana del 1849, in La rassegna mensile di Israele, 53(1987), pp. 229-233.
  4. Il ghetto ha dolor di corpo, in Il Cassandrino, I,  n. 49, 24 ottobre 1848, citato in R. Giovagnoli, Pellegrino Rossi e la rivoluzione romana, I, Roma 1898, p. 383.
  5. Burdel, Les prisons de Rome en 1851, in La presse, 3 settembre 1851 (citato in  S. Tomassini, Storia avventurosa della rivoluzione romana, Milano 2011, p. 468.
  6. De Cesaris, I cattolici, gli ebrei e “l’Ebreo”. Note su filogiudaismo e antigiudaismo in Italia, in  Ebrei, minoranze e Risorgimento. Storia, cultura, letteratura, a cura di M. Beer- A. Foa, Roma 2013 pp. 163-176, in particolare p. 171

 

 

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