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Molti nell’ambiente si chiedevano perché Lupo, ormai al vertice della carriera, accettasse di occuparsi della sicurezza di vertici internazionali in città di provincia o di sopraintendere alla scorta della portavoce Onu per i profughi. Marchette gratuite sussurravano per i corridoi.

     «Nostra Signora dei diseredati è più sexy di tutti loro» lui rispondeva piccato ai mestatori. E poi, nel mestiere, nulla è routine: bisogna essere sempre pronti a rimestare la cacca. A perderci l’abitudine si finisce per credere solo a intercettazioni e satelliti e a non capire più quanto accade intorno. Com’era capitato a certi soloni della spiocrazia rimasti in mutande dopo l’abbattimento delle le Twin Towers.

     In compagnia di questi pensieri, Lupo camminava nella notte palermitana, lungo l’itinerario che, il giorno dopo, le macchine blindate delle delegazioni avrebbero percorso a tutta velocità verso una passerella di buone intenzioni mascherata da meeting. Lasciando alle spalle il barocco di piazza Vigliena con le statue delle sante protettrici la città, si diresse in Questura attraverso un vicolo illuminato a chiazze dalla luce dei lampioni. L’edificio era semideserto, gli uffici silenziosi.

   Gli consegnarono un cifrato urgente. Inserì nel personal il codice di decodificazione e il testo in chiaro apparve sullo schermo. Tutto annullato: arrivo dei boiardi, conferenza, cene, shopping delle signore. Quell’estate era stata attraversata da avvenimenti così imprevedibili e sconvolgenti – la pandemia, l’Afghanistan – da far perdere la trebisonda ai Servizi di tutto il mondo: nessuno standard di sicurezza era più certo e, per allontanare i rischi, il convegno era sospeso.

   Non ebbe il tempo di accendere una sigaretta e già il questore lo chiamava sulla linea protetta.

     «È una decisione che dobbiamo accettare» esordì, ma Lupo capì quanto fosse sollevato: niente più preoccupazioni e nessuna responsabilità se qualcosa fosse andata storta.

     «Ho convocato una riunione con Carabinieri, Polizia e Finanza. Per fare il punto» proseguì. Lui non dipendeva dal questore e non era obbligato a presenziare allo scontro tra clan rivali, decisi a contendersi la carcassa dell’operazione. Sacrificandosi però al ‘moloch’ del coordinamento interforze grugnì un assenso infastidito e si rassegnò a partecipare.

     Uscì dal suo ufficio e raggiunse il cortile, ingombro d’auto e di uomini.

    ‘Un movimento inutile, cucinato per i telegiornali’ pensò: bisognava mostrare di essere sempre pronti e di saper reagire e il questore era un esperto in questi giochi di prestigio.

     Lanciò un’occhiata interrogativa a Candido, un funzionario delle volanti.

     «La vecchia fabbrica occupata dell’Arenella. Andiamo a vedere chi c’è dentro» quello rispose alla domanda muta e per Lupo il richiamo dell’azione fu più forte di tutto, decise in un bit: sarebbe andato con gli uomini e affanculo le gelosie d’apparato.

     La volante raggiunse una grande area in rovina. A Lupo ricordò, non fosse stato per lo sciabordio del mare oltre le facciate sbrecciate degli edifici, la desolazione di certi luoghi del suo apprendistato da spia in Medio Oriente.

   L’azione fu rapida e decisa: pochi ordini secchi, uno scalpiccio di anfibi, la luce improvvisa delle fotoelettriche e dalla guazza notturna si materializzò un’umanità sgomenta e intirizzita. Africani, slavi, arabi, da abbandonare alla voracità di giornali e televisioni. Osservando la scena Lupo si ritrovò in preda ad un disagio di cui non riusciva a capire l’origine; per distrarsene si rifugiò, attratto dal riflesso d’un vetro, dentro un magazzino. All’interno la sua attenzione fu calamitata da una sacca abbandonata vicina a un’intercapedine. Travolto da una preoccupazione inspiegabile, infilò a caso il braccio nello spazio buio tra il cartongesso, ravanò un paio di secondi fino ad afferrare qualcosa di solido e freddo e la tirò fuori con forza per ritrovarsi tra le mani l’ingombro scuro di un pc. Si chinò allora con la stessa frenesia con cui aveva afferrato il computer sulla sacca, l’aprì, ne disseppellì dal fondo una carta d’imbarco Air Malta. Il suo istinto accese segnali d’allarme: qualcuno, sorpreso dall’irruzione, era fuggito senza portar via nulla. Lo sbirro dentro di lui, protesto, scalciò, lo agitò, scatenò diffidenza e sospetto.

    «Qualcuno tra loro potrà spiegarci» Candido lo rassicurò ascoltandolo distratto e indicandogli il raccolto umano di quella sera, in attesa, con la pazienza degli sconfitti, di essere identificato.

     «La sezione telematica potrà aiutarti, ma vorranno essere autorizzati dal magistrato» concluse, mentre Lupo scopriva, nonostante la pena per quell’umanità disperata, di non riuscire ad affievolire la sordina dall’allarme dei pensieri.

     Candido aveva ragione: senza autorizzazioni avrebbe annaspato come uno scarafaggio nell’ovatta e allora afferrò il cellulare criptato, digitò un numero protetto. Urlò con tutti quelli con cui venne a contatto, fino a mettere il pepe in culo al funzionario di turno al soglio della papessa al vertice della Spiolandia nazionale: facessero pure tutti i loro ricatti, ma gli dessero i mandati necessari.  E i mandarini segreti, per una volta, non lo ignorarono: nello squillo del telefono che, nel silenzio aurorale dell’appartamento, svegliò il magistrato competente, c’era tutta la loro determinazione: la richiesta all’onorevole signor giudice era ineludibile. Nell’interesse nazionale. E dal suo studio, dentro un palazzo difeso da soldati armati, l’eccellentissimo dottore, coi succhi gastrici in tumulto per la colazione mancata, rilasciò i permessi, accrescendo il livore verso le conventicole occulte. Ma non sbagliassero un accento: Forte Boccea era lì ad aspettarli, tutti e lui poteva mandarceli.

   Lupo si predispose alla caccia, un solo pensiero nella mente: prendere quell’ombra al più presto.

   Il nominativo sulla carta d’imbarco non era sconosciuto al data base dell’amministrativa. La stessa persona che aveva volato su Malta aveva chiesto un permesso per uno spettacolo in un centro multietnico. Lupo disponeva di un indirizzo e un nome. Danesi Renata. Mentre rifletteva su questa traccia, labile come la scia di una cometa, Candido entrò soddisfatto nell’ufficio: uno dei fermati per evitare una gita fino al confine, ricordava tutto: la sacca era di Rahim, arabo, silenzioso, forastico, sempre al computer portatile. Piaceva alle donne e aveva molte fidanzate. Ascoltandolo Lupo intuì di essersi imbattuto in una di quelle sottilissime ragnatele che la vita di ognuno secerne nel suo scorrere.

   «Andiamo da questa dama di carità» disse al collega, mostrandogli il rapporto.

    La mezza luna di mare della Cala, incuneata nella città vecchia, rifletteva la luce incerta delle sei del mattino: l’ora delle irruzioni e degli interrogatori.

    Sulle scale, dalla volta a botte, la voglia di abbandonarsi al sonno lo avvolse improvvisa. Soltanto la disciplina lo spinse avanti. Si aggrappò al corrimano di ferro, proseguì. 

   Lei aprì, stordita dal sonno. Mora, languida e giunonica. Un pareo annodato al seno. Ispirava confidenza e intimità. Lupo, nel trovarsela di fronte, avvertì il rimpianto per la tenerezza che solo una donna innamorata può concedere a cui, da tempo, aveva rinunciato. Ma il cacciatore segreto non poteva cedere alle suggestioni e allora eccolo ad ammannirle la copertura: un controllo sull’attività dei centri di accoglienza.

   «Lei, signora, ha firmato quella richiesta ed è stata a Malta per conto della Caritas».

   «Ho lavorato con loro, è vero. Ma non sono mai stata a Malta». 

   «E il biglietto aereo, col suo nome, nella sacca di Rahim?»

   «Non so spiegarlo. È un parassita quello. Una delusione: sempre in casa a giocare con internet. Ma non è questo a rodermi, sono furiosa perché è andato via con una tossica che dicono mi somigli». E Lupo ad incalzarla, a chiederle delle carte di credito, della nuova donna di Rahim, del passaporto.

   «Perso mesi fa, ho la denuncia. La tossica abita in vicolo delle Giovenche, al 14. Le carte di credito? Nel settimanile. Non le porto con me. Mi addebitano le spese sul conto. Non controllo mai».

   Nella concitazione il nodo del pareo le si era allentato e Lupo fu rapito dall’ansare dei suoi seni. Desiderò tuffare il viso tra quei solchi, aspirare l’odore il suo odore e mandare al diavolo tutto. Ma era in battuta e non poteva permettersi fantasie. Arginò la carica del testosterone, si costrinse ad andar via.

   In macchina, sulla frequenza coperta, chiese un controllo su Renata. Perché va bene l’ormone, ma la regola aurea del mestiere è diffidare, diffidare sempre. Per sopravvivere. Candido lo guardò interrogativo.

«Ha avuto una storia con Rahim. Dice di non sapere perché il suo nome è su quel biglietto. Lui l’ha lasciata. Andiamo dall’altra, adesso».

   Anche lì scale ripide e strette, da poveracci però.

   Fu come avere di fronte Renata, solo più magra e male in arnese. Negli occhi venuzze rossastre. Anche lei stranita, non dall’indolenza eccitante dell’altra, ma dal tossivo dell’ultimo veleno assunto.    

    Dall’appartamento emergeva il tanfo di sigarette fumate la sera prima, di residui di cibo dimenticati in piatti non lavati.

   «Rita d’Andò mi chiamo. Rahim? Non lo vedo da tempo. Era cameriere in un pub dell’Olivella. Come trovo i soldi per vivere? Quando non ho la ‘scimmia’ faccio la cameriera ad ore. Altrimenti rubo».

   Lupo capì come Rita sapesse per esperienza di non potersi sottrarre alle sua domande: aveva imparato a riconoscerli gli sbirri. Da lei avrebbe potuto ricavare soltanto mezze verità. Per un attimo fu come se riuscisse a leggerle nei pensieri: ‘guarda la mia scheda in questura, stronzo. Rahim stava con me, perché era stufo di quella fichetta profumata. È uno spacciatore, e allora? Con lui è stato come vincere la lotteria. Non dovevo sbattermi per la roba: lui l’aveva sempre, tutta quella che volevo. E adesso arrivi tu, a rovinare tutto. Ma non ti dirò nulla, proprio no’. Nel negare, negare ogni cosa gesticolava e gesticolava. Lupo  fissò una rosa tatuata sul polso della ragazza e capì come quell’ostilità fosse il massimo che potesse, per il momento, ottenere.

   ‘Una sorveglianza h24 e poi aspettare un passo falso’ pensò dirigendosi verso la civetta. Era la condanna del suo lavoro: aspettare.

   «Quelli della telematica vogliono vederci» Candido quasi gli gridò quando Lupo fu dentro l’abitacolo «hanno novità, sembrano molto eccitati». Lupo rimuginava tra sé, mentre la macchina, penetrando a fatica vicoli diroccati, lo depositava in questura.

     Nel loculo asettico delle riunioni riservate lo schieramento era al completo. Un tecnocrate dei carabinieri, tirato a lucido almeno quanto gli alamari della sua divisa, dispensò la propria onniscienza. I tecnici dell’Arma erano risaliti ai server e mappato i siti frequentati dal pc rinvenuto. Il risultato era allarmante: siti uzbechi, iraniani, ceceni, tutti sulla manipolazione e l’uso del VX 7220.

     «È un veleno potentissimo. Sei ml ed è un’ecatombe» chiosò soddisfatto per la propria esibizione.

     Sul versante della segnalata Danesi, rinviava al video registrato al gate Air Malta, disse, mentre su uno schermo alla parete scorsero le immagini di un banco aeroportuale: in un’ampia sahariana, occhiali scuri e foulard con le cocche annodate, ecco Renata al check. Mostrare passaporto e biglietto, andare oltre. Le riprese zoommavano solo di fronte. Se, nel campo lungo, la sensazione di Lupo era quella di osservare Renata, nel dettaglio, avvertiva però un’allarmante distonia tra la figura proiettata e la memoria delle ultime ore. Mai minimizzare una sensazione: è spesso l’autobus per la verità. E allora a puttane la correttezza. «Vai indietro. Ferma il fotogramma» urlò col cuore così gonfio da impedirgli di parlare «ecco, adesso. Guardate. Posa il passaporto sul banco. Le mani. Non è Renata, non è lei. Guardate! Ha lo stesso tatuaggio di Rita».

     I partecipanti lo guardavano perplessi ma Lupo, in preda a un lungo flash intuitivo, era in lacrimae rerum: in pochi secondi i fili dentro di lui, con crescente stupore per l’enormità intravista, si annodarono.

   «Non è lei. La donna dell’aeroporto è tatuata. Rahim ha sfruttato la somiglianza tra le due» spiegò a Candido, dentro la volante lanciata in emergenza «ha usato il passaporto della Danesi. Ma ha mandato Rita a Malta e adesso ha il Vx».

     Questa volta le scale non gli pesarono, l’adrenalina dell’azione allontanava stanchezza e fame. Candido era con lui. Era diventata un’operazione di polizia, senza copertura. E erano ‘i regolari’ ad avere le mani in pasta con arresti e perquisizioni. Bussarono con forza alla porta di Rita.

   Quando lei aprì, col cervello nelle brume della dipendenza, Candido le afferrò i polsi e la trascinò dentro, costringendola su una poltrona. Rita lo guardò catatonica ricominciò con la litania dei non so. Con un sibilo la mano di Candido la colpì in volto; gridandole le domande cominciò a sbatterla contro lo schienale tenendola per i polsi. Lei si agitava cercando di sfuggire alla presa. Lupo aspettò cinicamente mentre Candido tempestava: il solito teatrino del buono e del cattivo. Quando nello sguardo nero vino di lei baluginò un’angoscia più fonda, la praticaccia gli assicurò che era il momento di intervenire. Allontanò Candido con un gesto imperioso del braccio e si accosciò di fronte a Rita; le spiegò paterno di come fosse ormai dentro una storia più pericolosa di quelle di droga a cui era abituata, ma di poterne ancora uscire. Bastava dicesse cosa aveva fatto per Rahim a Malta e dove potevano trovarlo. Negli occhi di Rita la paura si alternava all’ostinazione dei né so né voglio.

   «Perché dovrei aiutarvi? Se per quelli come voi sono sempre stata merda» lei rispose. Non c’era sfida nelle sue parole, piuttosto il desiderio di far capire quanto fosse stata dura la sua vita. Un singulto la scuoteva rimandando a Lupo un pozzo di prepotenze subite. Guidato dall’istinto le regalò, lieve, una carezza dal palmo pieno. Rita chinò il viso e la sua guancia aderì al concavo della mano e in quel momento Lupo capì che non avrebbe più opposto resistenza.

   Rita cominciò a parlare in un sussurro. I due uomini, immobili e silenziosi, si sforzarono di afferrare il senso di quel bisbiglio. Era andata per Rahim a Malta e nella toilette dell’aeroporto, un’orientale le aveva consegnato una fiala di un liquido trasparente, lei l’aveva nascosta dentro la sua vagina e al rientro gliela aveva consegnata. Per questo adesso lui le dava tutta la droga di cui aveva bisogno. Lo chiamava al cellulare: tre squilli e poi andava dal pusher a ritirare la dose.

   «E adesso smettete di tormentarmi, non so dove sia».   

   Era sincera. Lupo lo avvertiva a pelle, così come avvertiva di essere di nuovo alla ruota, a girare in tondo. Adesso sapeva, ma non gli serviva a nulla. Rahim aveva il Vx e fermarlo non sarebbe stato né facile né rapido. Ma l’istinto della caccia, affinato da anni di mestiere, non permise alla delusione di prendere il sopravvento. «Col numero del cellulare ed uno scanner potremmo intercettarlo» concordò con Candido.

   Ordini secchi con la radio alla volante e una scatoletta di plastica, infiocchettata dalla coda colorata dei collegamenti, si materializzò nella stanza.

Monocorde un bip elettronico emerse dagli amplificatori, una, due, tre volte; poi, filtrato dallo scanner, un dialogo tra voci robotiche si diffuse nella stanza. Un uomo e una donna. Lui parlava un italiano senza accenti. Non era la sua lingua madre.

«Oggi ho servito migliaia di cheeseburger» diceva l’uomo.

«Ti vedrò alla fine del turno?» la donna chiese.

Non ascoltarono la risposta perché la frequenza rotolò via tra sfrigolii elettronici. Lupo cercò lo sguardo di Rita. Un assenso muto. Era la voce di Rahim. La caccia era finita. Lo avevano stanato. «Da Mc Donald’s» Candido disse.

     Per anni aveva servito il loro benessere, nascondendo il rancore verso il loro vivere dimentico e le loro donne sfacciate e sole. Era ora che saldassero il conto. Al termine del turno avrebbe versato il veleno nel foro di sfiato della macchina delle bibite. A ogni bicchiere servito, il Vx si sarebbe nebulizzato con la stessa casualità che condannava chi nasceva dalla parte sbagliata del mondo, mentre lui, Rahim, dal terminal dei bus oltre la piazza, sarebbe partito verso una nuova clandestinità. Di nuovo in sonno, in attesa di tornare ad essere il loro virus nascosto. E inshallah a tutti.

     Sulla strada principale, Lupo piombò in una spirale di caos: l’ora di punta a Palermo. Dentro l’immoto serpentone del traffico e i clacson delle auto. Impossibile proseguire in macchina. Ed allora corri, vecchia spia, corri. Supera la facciata del Massimo, i chioschi liberty, guada la piena delle automobili bloccate ai semafori, attraversa il portico dell’Unicredit diventato ormai un souk stanziale. Col sangue a pulsarti nelle tempie, penetra la folla dello shopping, svolta sulla piazza, corri fino al negozio dall’insegna rossa e gialla. C’è Rahim dentro, a servire patatine e morte.

   Lupo lo riconobbe, con intuitiva preveggenza. Gli andò incontro. La preda, con sinantropica illuminazione, si voltò, vide il cacciatore, capì. Cercò rapido la fiala nella tasca della salopette, per frantumarla e respirare – lui con gli altri, non gli importava ormai – il veleno. Ma la caccia, conducendolo verso la sua personale ‘Armageddon’, aveva acuito i riflessi di Lupo. Senza esitare gli si lanciò contro, veloce e compatto. Quello s’inarcò all’indietro trascinandolo sul pavimento. Lupo gli fu addosso con tutto il suo peso. Rahim lo colpì con una ginocchiata ai testicoli, resa più devastante dalla rabbia. Lupo gemette per il dolore, il pensiero alla fiala. Nel suo cervello flash di luce bianca. Insopportabili. Per un attimo allentò la presa. Rahim riuscì a ruotare su un fianco e a liberarsi. Le mani di Lupo annasparono nel tentativo di trattenerlo, ricavando soltanto la frustrante sensazione tattile della tela dei pantaloni di lui sgusciare via.

   Dall’abisso nel quale precipitavano i suoi sensi, Lupo riuscì a recuperare, insieme alla paura di fallire, brandelli delle sue ultime forze e a catapultarsi, urlante, fuori dal locale. Lo sguardo sulla preda in fuga.

   Rahim corse attraverso i portici di cemento con Lupo a tre, quattro metri, travolse tavolini da caffè e botteghe di cartone dei vu cumprà. Poi con uno scarto oltre la barriera dei motorini posteggiati, zigzagò tra le macchine del viale gonfio di traffico.

   Da una via contigua al tempietto neoclassico una Smart argento bordeggiò la curva e s’incuneò nel flusso continuo del traffico. La figura messimpiegata alla guida, era interessata più alla conversazione al cellulare che alla strada. Per Marilena, proprietaria di quell’architettura tricotica, la telefonata era importante: risolveva la serata, se in discoteca o apericena, se gonna con spacco o mise casual chic. La vetturetta, gonfia di questi pensieri, si incastrò nel vuoto lasciato da due auto, frenando un attimo dopo che il parafango colpisse la rotula di Rahim, voltatosi a controllare il suo inseguitore. Rahim, ombra nera sul parabrezza, perse l’equilibrio e cadde riverso sulla schiena. Lupo gli fu addosso, lo colpì, col tacco della scarpa, al polso della mano in cui stringeva la fiala. Avvertì insieme l’urlo di dolore di lui e il rumore dell’osso che si spezzava.

   Si chinò sulla preda, s’impossessò della boccetta. Intatta.

   Il profilo di due piccoli seni urlanti fu l’ultima cosa che percepì, prima di correre via il più lontano possibile.

   Nascosto dietro una macchina, in posizione fetale, a proteggere col corpo il contenitore del VX, gli giunse, da distanze siderali, la voce di Candido. Si permise allora il lusso di svenire. Pensassero gli altri al residuale. La caccia, per lui, era finita.  

   XXXXXXI manipolatori digerirono i fatti, servendoli ai media come una banale lite tra bande nel salotto buono della città. Candido e il prefetto ebbero, anche se non tra squilli di tromba, il loro momento di gloria. In Lupo, un ovattato stato di grazia era subentrato all’ansia e alla tensione.

   Seduto su di un divano giallo, dalla spalliera di piume, si lasciava trasportare desideri finora sedati dall’emergenza e osservava divertito il disordine gioioso e irresponsabile dell’appartamento.

   Soltanto per rassicurarla, s’era detto telefonandole e mentendo a se stesso. Lei compiaciuta gli aveva regalato una risata di gola, confidenziale e profonda, che lo aveva confuso fin dentro il midollo. Con stupore, il navigato uomo d’ombra, s’era visto gigionare, fissare per la cena, arrivare in anticipo.

   «Dovrai aspettare. Devo cambiarmi» gli aveva detto lasciandolo solo, a fumare per una lunga insopportabile ora. Poi Renata, boccolegiante nella permanente dai toni ramati, rientrò nella stanza e lo stupito combattente segreto, riempì gli occhi e l’animo di compiacimento per il sorriso e il corpo florido di lei, senza domandarsi chi fosse, in quel momento, la preda.