image_pdfimage_print

Salvador Allende e Pablo Neruda

Sembra che il presidente l’avesse detto più volte negli ultimi mesi: «Non mi faranno prendere l’aereo in pigiama e non chiederò asilo a un’ambasciata». L’avvertimento era serio. Salvador Allende – una vita coerente di militante e mille giorni al governo del Cile lo testimoniavano – doveva essere preso in parola: con lui non ci sarebbe stata la fuga precipitosa, magari in abbigliamento sommario, ma non senza un bagaglio di dollari e gioielli, che puntualmente concludeva la carriera dei dittatori sudamericani. E in un discorso del dicembre 1971 il presidente era stato ancora più netto: «Ve lo dico, compagni, con assoluta tranquillità: non ho stoffa di apostolo, né di messia. Non ho vocazione al martirio. Sono un combattente sociale che svolge il compito che il popolo gli ha dato. Ma lo intendano quelli che vorrebbero far tornare indietro la storia e tradire la volontà maggioritaria del Cile: senza avere vocazione di martire, non farò un passo indietro. Che questo sia ben chiaro. Lascerò il palazzo presidenziale quando avrò compiuto il mandato del popolo. Che lo sentano, che lo sappiano, che resti bene stampato in mente: difenderò questa rivoluzione cilena e difenderò il governo popolare perché questo è il mandato che il popolo mi ha affidato. Non ho alternative. Solo crivellandomi di pallottole potranno impedire la mia volontà di realizzare il programma del popolo».

L’avvertimento era molto serio. I comandanti golpisti delle forze armate, guidati dal generale Augusto Pinochet, lo sapevano e non lo avevano sottovalutato. Si sarebbero mossi durante l’assenza del presidente dal paese per un viaggio in Algeria programmato da tempo. L’azione sarebbe stata rapida e senza rischi. Le perquisizioni sistematiche nelle fabbriche avevano permesso di saggiare il grado della possibile reazione dei militanti di sinistra, di smantellare le loro modeste misure difensive e di constatare l’assenza di un’organizzazione che potesse opporre una risposta armata consistente.

Per quanto riguardava quest’ultimo aspetto, del resto, si era trattato solo di una conferma. Nella visione di Allende e degli uomini della coalizione di Unidad Popular (socialisti, comunisti, cattolici di sinistra e radicali), la via democratica era una scelta ideologica e strategica. Ma anche una necessità imposta dalla valutazione realistica dei rapporti di forza. Le elezioni per la presidenza della Repubblica del settembre 1970 erano state vinte con il 36,3 per cento dei voti e il candidato della destra era stato battuto soltanto di 39 mila schede. Dunque era stato necessario un ballottaggio nel Congresso e Allende lo aveva vinto, entrando in carica il 4 novembre, grazie al voto in suo favore della Democrazia cristiana, dopo un confronto aperto tra quel partito e le sinistre e un impegno al rispetto del quadro costituzionale. Insomma in Unidad Popular c’era la consapevolezza che, come avrebbe detto Allende, il popolo aveva «conquistato il governo, non il potere» e che solo nel quadro della legalità e della «via pacifica» la grande speranza cilena sarebbe rimasta aperta.

Tutta la scommessa si giocava sull’utilizzazione della legittimità del governo (e quindi sul suo mantenersi rigorosamente nell’ambito della legalità), facendo affidamento sulle componenti democratiche e leali delle forze armate, per contenere e reprimere la sovversione dei gruppi di estrema destra e neutralizzare le velleità golpiste, per impedire la saldatura tra militari e opposizione politica e sociale, per assicurarsi, in caso di inevitabilità dello scontro duro, l’allineamento di almeno una parte dei militari in difesa delle istituzioni. Non bisognava farsi illusioni: in assenza di un consistente settore rivoluzionario nell’esercito, ogni tentativo di forzare la situazione, scavalcando i limiti del quadro costituzionale, avrebbe visto le forze armate schierarsi compatte, senza defezioni, contro il governo. E in assenza di un’organizzazione armata, e ben strutturata, del proletariato – che non poteva essere creata senza ricorrere all’illegalità – l’esito di uno scontro frontale sarebbe stato tragico. Non c’erano, dunque, reali alternative insurrezionali: se la sinistra avesse cambiato tattica avrebbe messo immediatamente a repentaglio la propria esistenza.

Manovrata con abilità e determinazione da Allende, anche contro le incomprensioni di alcuni settori di Unidad Popular e qualche velleità di fuga in avanti, la strategia dell’uso rivoluzionario della legalità aveva funzionato per più di due anni. Anche se il «compagno presidente» era socialista e marxista, amico di Cuba e personalmente di Fidel Castro (accolto in Cile, nel novembre 1971, per una lunga visita), e anche se il suo programma non era quello tradizionale dei vecchi fronti popolari, ma puntava apertamente alla transizione al socialismo. «Il nostro», avrebbe detto Allende nel 1973, «è un processo rivoluzionario che avanzerà fino a trasformarsi naturalmente in una rivoluzione. Vogliamo ottenere questo risultato attraverso il pluralismo, la democrazia, la libertà». «A Salvador Allende, che per altre vie persegue la stessa cosa», aveva scritto Che Guevara su una copia del suo La guerra di guerriglia, dedicandola «con affetto» al socialista cileno.

Trame, complotti e attentati terroristici, incoraggiati e finanziati immediatamente, senza attendere di vedere all’opera il nuovo governo, anzi prima ancora che entrasse in carica, dalle centrali nordamericane di potenti multinazionali e certamente concordati e pianificati con la Cia e approvati dal Dipartimento di Stato e dal presidente Richard Nixon, non avevano impedito a quella strategia di garantire la tenuta del quadro di fondo. E dunque, pur tra difficoltà crescenti, era stato possibile, con un governo che non aveva la maggioranza nel paese e nel Congresso, utilizzando abilmente gli strumenti consentiti dalla Costituzione, avviare trasformazioni strutturali profonde e stimolare la crescita del movimento popolare e di classe, premesse concrete dell’avvio del programma della transizione. Nazionalizzazioni e altre forme di controllo statale: miniere di rame, strappate alla proprietà di grandi aziende americane, banche e assicurazioni, energia elettrica, trasporti e telecomunicazioni, industria siderurgica e altri settori strategici. Riforma agraria: espropriazione delle grandi proprietà e distribuzione dei terreni nazionalizzati ai contadini. E ancora: incrementi salariali e delle pensioni, rafforzamento delle tutele sindacali e delle forme di rappresentanza dei lavoratori nelle imprese, salario minimo, riduzione del costo degli affitti, calmiere dei prezzi dei generi essenziali, lavori pubblici, edilizia popolare, provvedimenti sull’istruzione e campagna di alfabetizzazione, gratuità della formazione universitaria, distribuzione giornaliera di latte ai bambini e di alimenti ai poveri.

Ma contemporaneamente l’opposizione si era fatta sempre più dura, mentre la complessa azione di destabilizzazione messa a punto a Washington si era sviluppata con continuità e su fronti diversi, puntando all’isolamento e allo strangolamento del Cile, spingendo il paese sull’orlo della guerra civile. Un governo che, per la prima volta nella storia, aveva l’obiettivo del socialismo per una via pacifica, senza passare per lo scontro armato, era una minaccia nella fase delicata che stava attraversando l’America Latina e un esempio pericoloso per i paesi con una forte presenza delle sinistre. Come la Francia e l’Italia: «Spaghetti in salsa cilena», avrebbe scritto in un titolo preoccupato il New York Times. L’offensiva sostenuta da Washington non escludeva il ricorso alla sedizione e prevedeva solidi legami con i quadri delle forze armate, in buona parte formati nei corsi di addestramento alla controrivoluzione gestiti dagli Stati Uniti, ma intanto aveva preferito puntare al tracollo spontaneo dell’esperienza allendista. A questo scopo aveva manovrato implacabilmente le leve disponibili nei mercati finanziari e nei centri nevralgici dell’economia mondiale, sbarrando al Cile l’accesso ai crediti, impedendo la ristrutturazione del pesante debito estero, gettando sul mercato le riserve strategiche di rame, per spingere al ribasso il prezzo di un minerale che rappresentava il 70 per cento delle esportazioni cilene.

Nel dicembre 1972, in un discorso alle Nazioni Unite, Allende aveva denunciato l’ostilità e l’aggressività dell’imperialismo, dei monopoli nordamericani e delle multinazionali e aveva assicurato di essere determinato a resistere e a impedire il ritorno al saccheggio delle risorse del paese. Ma nel 1973 la crisi era precipitata. Un’inflazione dell’uno per cento al giorno, la fuga dei capitali, il sabotaggio economico, il blocco di molte attività, le serrate e il mercato nero stavano gettando il paese, irrimediabilmente spaccato in due, nel caos. Il governo, assediato dall’ostruzionismo degli altri poteri dello Stato, era ormai alla paralisi, costretto alla difensiva. Con un apparato di sicurezza che scivolava dalla passività all’aperta insubordinazione, non aveva strumenti per reprimere efficacemente i movimenti insurrezionali e i segnali della sedizione. La classe operaia si era venuta a trovare in un progressivo isolamento. Il paese viveva secondo i ritmi imposti dalla destra, che nel caos si muoveva a suo agio, giocando tutte le sue carte. L’attacco padronale e delle potenti corporazioni del ceto medio era diventato un dato permanente e ormai assumeva i tratti di un’insurrezione della borghesia, alla quale facevano da sponda la guerriglia parlamentare condotta dalle opposizioni, la campagna dei mezzi di comunicazione, largamente controllati dalla destra, e l’azione del terrorismo, diffuso nelle città e nelle campagne, e delle squadracce stabilmente installate nelle piazze. In quel clima rischiavano di esplodere le tensioni nella coalizione di governo, sottoposta alla pressione esterna del Mir (Movimento della sinistra rivoluzionaria) e a quella interna di chi, nel Partito socialista e in organizzazioni minori, riteneva ormai inevitabile lo scontro e opponeva alla linea del presidente, dei comunisti e dei socialisti allendisti, la necessità di un’accelerazione decisa del processo rivoluzionario.

Ma, nonostante tutto, Allende teneva, pur riducendo sempre più la sua azione alla manovra tattica, tesa a guadagnare tempo, e continuava a cercare ostinatamente, ma senza cedimenti, le vie del dialogo. In marzo le elezioni non si erano tradotte nell’atteso plebiscito contro Unidad Popular, anzi avevano fatto registrare una forte avanzata dell’alleanza delle sinistre (arrivata a superare il 44 per cento dei voti) che aveva cancellato le ultime illusioni di rovesciare il governo con gli strumenti istituzionali. Ormai a destra non c’era più scelta. Tutte le soluzioni alternative si erano rivelate inadeguate. E non c’era più tempo: il prezzo del rame era in aumento, mentre diminuivano le capacità di manovra sulle quotazioni del minerale e stavano esaurendo le scorte speculative accumulate prima della nazionalizzazione delle miniere cilene. Il 1974 avrebbe potuto rappresentare per il Cile un anno di ripresa economica e, per Allende e il suo governo, un anno di rilancio.

Dunque il golpe, subito. Anche se non si poteva contare sull’assenza del presidente, costretto a rinunciare al viaggio in Algeria. Per neutralizzarne il prestigio e la popolarità bisognava allora prevedere un’azione esemplare, di annientamento, un intervento duro e massiccio, tale da diffondere il terrore e scoraggiare ogni velleità di resistenza: la manifestazione possente organizzata dal sindacato unitario il 4 settembre, per festeggiare l’anniversario della vittoria di Allende, aveva dato la misura della forza del movimento popolare.

Le premesse per agire, dunque, c’erano tutte e il piano sedizioso era ormai entrato nella fase operativa. In giugno si era svolta la prova generale, con un tentativo golpista represso dai militari lealisti. In agosto c’era stata la resa dei conti con questi ultimi, liquidati da una purga rapida e silenziosa all’interno delle forze armate. Completavano il quadro il terreno preparato dai terroristi (500 attentati tra luglio e agosto), la copertura politica (e il consenso all’azione) fornita dalla maggioranza parlamentare, che accusava il presidente di attentato alla Costituzione, i ceti medi in rivolta, la paralisi completa della vita pubblica, il malcontento diffuso per la mancanza di generi essenziali.

«No alla sedizione», manifesto di Unidad Popular (giugno 1973)

Il 9 settembre Allende annunciò ai collaboratori e ai vertici militari l’intenzione di indire un referendum, perché fosse il paese a dirimere il conflitto con il Parlamento e a decidere sui problemi economici su cui non era possibile raggiungere l’accordo, e di proporre elezioni generali per un’assemblea costituente, destinata ad adeguare alla nuova realtà il regime istituzionale. Lo avrebbe annunciato l’11, con un messaggio alla nazione. Era l’ultima carta da giocare per tentare di forzare la Democrazia cristiana a riaprire il dialogo: un pericolo che i golpisti non potevano correre. Quello stesso 9 settembre l’ambasciatore americano fece un viaggio lampo a Washington. Il 10, alla vigilia dell’azione, era nuovamente al suo posto a Santiago.

L’11 settembre, poco dopo le 6 del mattino, una telefonata informò il presidente che il golpe era in atto. La marina stava occupando Valparaíso, il principale porto del paese, distante poco più di cento chilometri dalla capitale. Al largo incrociavano quattro unità da guerra americane. Un’ora dopo Allende arrivò alla Moneda, il palazzo presidenziale. Due tentativi inutili di mettersi in contatto con i vertici militari gli avevano rivelato che questa volta i massimi livelli delle forze armate agivano compatti. Intorno alle 8 Allende parlò alla radio: «Mi rivolgo soprattutto ai lavoratori. Che raggiungano i loro posti di lavoro, che accorrano alle fabbriche, che mantengano calma e serenità […] In ogni caso io sono qui, nel palazzo del governo, e resterò qui, difendendo il governo che rappresento per volontà del popolo. Ciò che desidero, essenzialmente, è che i lavoratori stiano attenti, vigili e che evitino le provocazioni». Un quarto d’ora dopo il presidente tornò a parlare alla radio: «Abbiate la sicurezza che il presidente resterà nella Moneda, difendendo il governo dei lavoratori. Abbiate la certezza che farò rispettare la volontà del popolo che mi ha dato l’incarico di governare fino al 4 novembre 1976 […] Le forze leali rispettando il giuramento fatto alle autorità, insieme ai lavoratori organizzati, schiacceranno il golpe fascista che minaccia la patria».

Il generale Augusto Pinochet tra i membri della giunta golpista (settembre 1973)

Ma le forze leali non c’erano. Il primo comunicato dei golpisti fu trasmesso verso le 8,40: «Tenuto conto della gravissima crisi economica, sociale e morale che distrugge il paese, dell’incapacità del governo a prendere misure per mettere fine allo sviluppo del caos, della costante crescita di gruppi paramilitari organizzati e sostenuti da Unidad Popular, che conduce il Cile a un’inevitabile guerra civile, le forze armate e i carabinieri dichiarano che: 1) il presidente della Repubblica deve rimettere immediatamente la sua alta carica alle forze armate e ai carabinieri; 2) le forze armate e i carabinieri sono uniti per assumere la missione storica di combattere per la liberazione della patria dal giogo marxista e per il ristabilimento dell’ordine e della legge costituzionale». Radio, televisioni e stampa controllate dalla sinistra dovevano sospendere subito ogni attività, i cittadini di Santiago dovevano restare in casa. L’ultimatum fu intimato al presidente per telefono, da un ammiraglio: dimissioni immediate, in cambio dell’incolumità e del salvacondotto per la libera uscita dal paese, con un aereo già pronto al decollo. Ebbe una risposta sprezzante. Poco dopo Allende tornò a parlare «ai compagni che mi ascoltano»: «La situazione è critica. Siamo di fronte a un colpo di stato, al quale partecipa la maggioranza delle forze armate […] Se mi assassinerete, il popolo seguirà la sua rotta, continuerà il suo cammino […] Il processo sociale non sparirà perché è sparito un dirigente. Potrà rallentarsi, potrà prolungarsi, ma alla fine non potrà essere fermato […] Rimarrò qui alla Moneda anche a costo della mia vita».

Il reparto di carabinieri che presidiava il palazzo si ritirò: era il segnale dell’attacco imminente. Sparatorie nelle strade, applausi dalle finestre dei quartieri ricchi e borghesi. Poco dopo le 9, mentre i soldati e i carri armati prendevano posizione di fronte al palazzo, in collegamento con l’unica radio libera ancora in funzione, Allende rivolse l’ultimo saluto ai cileni. Non fu un appello alla mobilitazione e alla resistenza. Al contrario, espresse la preoccupazione di evitare inutili tragedie al proletariato, insieme alla lucida coscienza con la quale il presidente era pronto ad affrontare il sacrificio estremo: «È possibile che facciano tacere la radio, e allora vi saluto per sempre […] È possibile che ci distruggano. Ma sappiate che siamo qui per dimostrare che ci sono uomini che sanno mantenere gli impegni che hanno assunto […] Forse questa è l’ultima occasione in cui posso rivolgermi a voi […] Solo questo mi resta da dire ai lavoratori: non mi arrenderò. Trovandomi in questa tappa della storia, pagherò con la vita la lealtà verso il popolo […] Mi rivolgo agli uomini del Cile, all’operaio, al contadino, all’intellettuale, a quelli che saranno perseguitati, perché nel nostro paese il fascismo è presente da tempo, con gli attentati terroristici che hanno fatto saltare i ponti, interrotto le ferrovie, distrutto oleodotti e gasdotti, nel silenzio di chi aveva l’obbligo di intervenire. La storia li giudicherà. Radio Magallanes sarà certamente ridotta al silenzio e la mia voce tranquilla non vi giungerà più. Non importa. Continuerete a sentirla. Sarò sempre con voi. E almeno lascerò il ricordo di un uomo degno, leale di fronte alla lealtà dei lavoratori. Il popolo deve difendersi, ma non sacrificarsi. Il popolo non deve farsi schiacciare e annientare, ma non deve lasciarsi umiliare […] Queste sono le mie ultime parole, sono certo che il mio sacrificio non sarà inutile. Sono certo che almeno sarà una lezione morale contro la slealtà, la viltà e il tradimento».

Ormai il tempo era scaduto. Poco prima delle 10 l’ultimatum finale: «Il palazzo della Moneda dovrà essere evacuato entro le ore 11. In caso contrario sarà attaccato dalle forze aeree». I carri armati aprirono il fuoco e i soldati sferrarono l’attacco. I difensori del palazzo – qualche decina tra addetti alla sicurezza del presidente, funzionari, ministri e militanti, tutti scarsamente armati – risposero sparando dalle finestre. Anche Allende partecipò allo scontro con un mitra. Un’ora dopo gli spari cessarono. Carri e soldati si ritirarono dalla piazza. Era evidente che si preparava l’incursione dei cacciabombardieri che stavano già sfrecciando a bassa quota sui tetti di Santiago. Allende ne approfittò per costringere le donne e gli uomini disarmati ad abbandonare il palazzo.

A mezzogiorno gli aerei si lanciarono a volo radente sulla Moneda e la centrarono ripetutamente. A ogni colpo grida di esultanza, «come allo stadio quando viene segnato un goal», avrebbe raccontato un militante di Unidad Popular che aveva assistito, sgomento, all’attacco. I carri e i soldati avanzarono di nuovo e sfondarono l’ingresso principale del palazzo. Ci volle ancora più di un’ora perché le truppe riuscissero a occupare il pianterreno del palazzo in fiamme e erano le due del pomeriggio quando arrivarono al primo piano e irruppero nell’ufficio dove era asserragliato il presidente. Alcuni testimoni dicono che Allende fu ferito nella sparatoria, cadde e fu giustiziato da un generale con un colpo a bruciapelo. Secondo altre versioni si sarebbe suicidato. Il corpo fu portato via in fretta e sepolto senza funerale, in una tomba anonima, alla sola presenza della moglie.

Nelle prime ore del pomeriggio la giunta aveva in pugno il paese. Seduto a un tavolo tra i generali golpisti, gelido, Pinochet lesse una dichiarazione: «Le forze armate e i carabinieri hanno agito oggi al solo scopo patriottico di far uscire il paese dal caos in cui lo stava precipitando il governo marxista di Salvador Allende. La giunta manterrà il potere giudiziario […] Le Camere sono sospese fino a nuovo ordine». La sera la televisione trasmise programmi leggeri, comunicati militari e elenchi di ricercati. Ci sarebbe voluto ancora qualche giorno per stroncare le sacche della resistenza operaia nelle fabbriche e nelle borgate popolari e per travolgere i tentativi di difesa degli studenti e dei professori barricati nell’università. E intanto era iniziata la normalizzazione: esecuzioni sommarie e torture, perquisizioni e retate, rastrellamenti e campi di deportazione nel gelido estremo sud del paese. Per le strade roghi di libri. L’obitorio e le fosse comuni pieni di cadaveri. Gli stadi utilizzati come centri di detenzione. Nelle case della buona borghesia di Santiago si festeggiò e si brindò. Dalle finestre imbandierate si gettavano fiori sui reparti che presidiavano gli incroci.

Lo stadio di Santiago trasformato in centro di detenzione (settembre 1973)

Il 16 settembre nello stadio di Santiago, tra migliaia di rastrellati in attesa di conoscere la loro sorte, c’era anche Victor Jara, poeta e militante comunista, musicista di punta della Nueva Canción Chilena, fiorita negli anni di Allende, autore del testo di Venceremos, inno di Unidad Popular. Era stato preso, con altri compagni, nell’università. Gli fracassarono le mani, lo finirono a colpi di pistola e gettarono il suo cadavere in un corridoio. Poi ordinarono la distruzione delle matrici dei suoi dischi.

Nei giorni successivi al colpo di stato Pablo Neruda, duramente provato e in attesa di espatriare, dovette assistere alle irruzioni nella sua casa e alle perquisizioni delle squadracce militari. Le sue precarie condizioni di salute impedirono l’arresto. Il 22 settembre, ricoverato in una clinica di Santiago, scrisse i suoi ultimi versi, una violenta invettiva contro I Satrapi che avevano agito «fino a oggi. Fino a questo amaro / mese di settembre, / dell’anno 1973 […] iene voraci / della nostra storia, roditori / delle bandiere conquistate / con tanto sangue e tanto fuoco, / impantanati nei loro orticelli, / predatori infernali / satrapi mille volte venduti / e traditori eccitati / dai lupi di New York, / macchine affamate di sofferenze, / macchiate dal sacrificio / dei loro popoli martirizzati, / mercanti prostitute / del pane e dell’aria d’America, / fogne, boia, branco / di cacicchi di lupanare / senza altra legge che la tortura / e la fame frustrata del popolo». Il giorno dopo il poeta si spense. Era gravemente ammalato, ma non in fin di vita. C’è chi sostiene con certezza che sia stato ucciso con un’iniezione da un sicario, per ordine di Pinochet.

Sul Cile era calata di colpo la cappa pesante di una dittatura reazionaria, feroce e ottusa, una cappa destinata a essere stracciata soltanto nel 1988, con un referendum che avrebbe sancito il ritorno alla democrazia. E oggi di Allende resta la memoria di un’esperienza appassionata e spezzata. E resta il messaggio ostinato di speranza che aveva voluto lasciare nel suo addio: «Ho la certezza che il seme piantato nella coscienza di migliaia di cileni non potrà essere estirpato per sempre. Hanno la forza, possono ridurci in schiavitù, ma non è con il crimine e con la violenza che si fermano i processi sociali. La storia è nostra, è il popolo che la fa […] Altri uomini supereranno questo momento buio e amaro, in cui il tradimento pretende d’imporsi. Sappiate che presto o tardi si apriranno di nuovo grandi strade per le quali passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore».


Le immagini che illustrano questo articolo sono tratte dall’archivio fotografico di Alessandro Piccioni (https://www.immaginidellastoria.it/)