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Il 24 febbraio 1956 fu proiettato per la prima volta in Italia il film Gioventù bruciata (in inglese Rebel Without a Cause), di Nicholas Ray. Violento, visionario, straniante, il film si imponeva immediatamente per la sua originalità formale, sottolineata da una recitazione volutamente sopra le righe e dall’uso del procedimento Vistavision, che permetteva di allargare l’inquadratura molto di più del normale e di disporre molti personaggi in orizzontale come soldati di un esercito o ballerini di un musical. Ma la novità non fu solo questa. Doloroso, struggente, angoscioso,  il film metteva in scena gli adolescenti sbandati e perduti degli anni ’50 che gli adulti non volevano guardare in faccia: i figli degeneri di una società presuntuosa, tronfia, malata, il cui simbolo straordinario era James Dean, un angelo capitato per caso all’inferno, maledetto come Caino, il figlio che pur essendo opposto a suo padre ripete il suo destino di colpa. L’anniversario andrebbe ricordato, ma in Italia oggi tutti hanno altro da pensare o da ricordare. Neppure Nicholas Ray viene ricordato con particolare entusiasmo. Sì, d’accordo, per carità è un classico, celebrato da tutti: il suo nome non si può passare sotto silenzio. Dopo di che, sistemato il Mito sul piedistallo, tutti gli voltano le spalle e pensano ad altro. Che cosa dovrebbero fare? Mah, cominciamo a mettere nel cassonetto tutta la paccottiglia presuntuosa, furba e deprimente che ci ha afflitto negli ultimi trent’anni. E cominciamo a mandare al diavolo anche la nostra aria da saccenti, che sanno tutto di tutto senza sapere niente di niente. Ritorniamo agli anni Cinquanta, duri, inesorabili. Ricominciamo a tremare.

Il film di Ray riprende il titolo da un celebre saggio, uscito una decina di anni prima, senza tuttavia riprenderne il contenuto. Nel 1944 lo psicoanalista Robert Lindner aveva scritto un saggio  su un detenuto in Pennsylvania intitolato Rebel Without a Cause.  Il libro puntava il dito su un individuo particolare: lo psicopatico, il personaggio sinistro,  imprevedibile e inquietante che era balzato con prepotenza sugli schermi all’epoca di Al Capone in film come Scarface di Howard Hawks,  provocando violente reazioni nel pubblico conservatore che aveva ostacolato in ogni modo il regista che aveva osato affrontare il problema. Nonostante ciò altri registi, caparbi e solitari, portarono alla ribalta, con vigore, il destino di eroi che non avevano nulla di eroico con il piede sempre sull’orlo di un abisso, come James  Cagney e Humphrey Bogart nella Furia umana, nei Ruggenti anni venti e in Una pallottola per Roy di Raoul Walsh.  Dieci anni dopo il proibizionismo, mentre la guerra infuriava e i primi reduci con la morte nel cuore cominciavano a popolare i bar di tutta l’America, si cominciò a parlare apertamente dei disadattati, perduti al mondo, pieni di odio per gli altri e per sé stessi. Lindner veniva dalla scuola di Erik Erikson, che aveva parlato per primo della “identità negativa” dei giovani, un atteggiamento di radicale insofferenza contro tutto e tutti, un grido di rivolta da parte di chi si sente una pecora nera, un rifiuto, un rottame. Lindner partiva da lì ed andava oltre l’età giovanile, considerando la “identità negativa” un  atteggiamento globale da parte di esseri ai margini della vita cosiddetta “civile”, il cui unico modo di affermarsi era distruggere. Nella sua prospettiva: «Lo psicopatico è un ribelle, un individuo con zelo quasi religioso, i codici e le norme sociali prevalenti, un ribelle senza una causa, un agitatore senza uno slogan, un rivoluzionario senza un programma. In altre parole, la sua ribellione vuole raggiungere scopi che soddisfano solo lui; è incapace di qualunque impegno che vada a vantaggio di altri. Tutti i suoi sforzi, quale che sia la loro forma, rappresentano investimenti finalizzati a soddisfare le sue voglie e i suoi desideri immediati».

Il libro di Lindner fece scalpore al punto che la Warner Bros ne comprò i diritti nel 1946. Le tesi dello psicoanalista suscitarono discussioni a catena e ispirarono intellettuali ed artisti, che svilupparono e rielaborarono le sue idee, fino a trasformarle del tutto e poi metterle da parte, come avvenne nel film di Ray, che non ha nulla a che vedere col libro se non il titolo. Tra il 1945 e il 1955 furono molti i film e i libri sui loosers: i perdenti, struggenti e disperati, magnificamente interpretati da attori come Humphrey Bogart o Robert Mitchum. A questa categoria appartiene senza dubbio il protagonista del primo film di Ray, La donna del bandito, un giovane con il cuore di un bambino e la mente di un criminale, che vorrebbe riscattarsi e non può farlo, perseguitato dal destino o da sé stesso. I film successivi del regista portarono sulla scena esseri dello stesso genere: fragili, smarriti, innocenti, violenti. Tutti padri spirituali dei ribelli senza una causa rappresentati da James Dean. 

Si avrebbe torto, però, se si privilegiasse, come molti critici fanno, solo questo filone interpretativo: senza dubbio i giovani di Nicolas Ray sono collegati strettamente agli antieroi a cui abbiamo accennato. Ma sono collegati anche ad altri personaggi, che di solito non vengono ricordati. Se è vero che Dean è il figlio legittimo dei gangsters col cuore spezzato di Scarface o la Furia umana,  è anche vero che è il figlio naturale di Tom Joad di Furore del 1939 e di tutti gli emarginati e i dannati della terra, portati sullo schermo dal grande cinema roosveltiano di John Ford. Dietro a questo tipo di film c’erano romanzi di successo, come quelli di Steinbeck e dei suoi contemporanei. Uno di questi, Un albero cresce a Brooklin di Betty Smith del 1943, descriveva la vita difficile e senza speranza di riscatto dei proletari e sottoproletari di New York e in particolare quella di John Nolan,  un uomo di grande talento ed umanità, costretto a trascinarsi in una vita di stenti e di alcolismo. Dal romanzo fu tratto un film nel 1945, il primo film di Elia Kazan, in cui Nicholas Ray fece il suo esordio nel mondo del cinema come aiuto regista. Un film bellissimo, con uno straordinario James Dunn, che vinse l’Oscar per la sua interpretazione di John Nolan. Quest’uomo, così pieno di difetti, questo perdente incapace di vivere, è il vero cuore pulsante della vita di tutti quelli che lo circondano. Il suo epitaffio, pronunciato senza enfasi dal suo datore di lavoro, che doveva sopportare le sue sbornie e le sue continue assenze, è questo: «Ti faceva sempre sentire bene. Ti faceva ridere. Era come una conchiglia che non si finisce mai di ascoltare, come non si finisce mai di dire che cosa canta. Dava sempre questo a tutti. Era un uomo meraviglioso».

Questo uomo unico, che sembra un pessimo padre è invece il vero padre che tutti vorrebbero avere. Come James Dean, che sembra un figlio bisognoso del padre e invece ha la stoffa del vero padre che ogni essere umano potrebbe desiderare. Lo dice con grande candore il suo amico Plato in Gioventù bruciata, prima della drammatica sfida sulle auto in corsa verso il burrone: «Sì, lui è il mio miglior amico…Non parla molto, ma quando lo fa allora capisci che quando dice una cosa parla sul serio. È veramente  sincero. Quest’estate forse mi porterà con sé a cacciare e a pescare. Voglio che mi insegni come farlo perché so che non si arrabbierà se sbaglio.».

Molti ammiratori del regista hanno visto in questo rovesciamento di ruoli una tendenza rivoluzionaria ed hanno enfatizzato la carica eversiva del suo cinema. Altri, al contrario, hanno sottolineato i limiti di quest’esaltazione giovanile che può sfociare nel giovanilismo e hanno invitato a cercare altrove l’aspetto rivoluzionario dei film di Ray. Ha scritto a riguardo Emiliano Morreale: «L’adesione di Ray alla generazione dei giovani del dopoguerra non ha la coscienza che avrà, nella fase successiva, quella di Arthur Penn per i ragazzi del Movement. Anche perché con i suoi giovani Ray non può vedere una vicinanza politica o ideale (tutto sommato, nonostante la sua militanza in gruppi artistici radicali, egli rimarrà sostanzialmente un apolitico), ma solo istintiva, vitale. E, in fondo, proiettiva.». In questo senso: «Gioventù bruciata è la storia di una paternità narcisistica e (dunque) fallimentare. Plato viene quasi tecnicamente ucciso da Jim, che lo disarma a sua insaputa e lo convince ad andare incontro alla polizia.». Ma se questo è vero perché mai il film è divenuto sin dal primo momento l’emblema dell’adolescenza? Il miracolo è avvenuto grazie allo stile del regista che attraverso le sue scelte anticonvenzionali riesce a incarnare visivamente il rifiuto delle convenzioni dei giovani di allora e di sempre. «Lo stile di Ray diventa, con la sua astrazione e il suo uso antirealistico ma vitalista dei segni filmici di un’epoca (il colore e lo schermo panoramico, la recitazione dell’Actors Studio e le cadenze da musical), una specie di resa filmica, visiva, delle inquietudini di una generazione. È per questo che, al di là delle sue incertezze ideologiche, il film ha una natura così dirompente, e diventa davvero simbolo di una generazione e perfino precursore di sensibilità di là da venire. È il mondo interiore di Jim che lo stile del regista riesce a ricreare, in un tesissimo equilibrio di punti di vista che offre una visualizzazione di quella entità nuova che prendeva il nome di ‘giovani’. » (E. Morreale, Ribelli senza causa, in Nicholas Ray, a cura di E. Martini, Milano-Torino 2009, pp. 76-79).