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La visione de Il Sol dell’Avvenire di Nanni Moretti mi ha confermato la correttezza intellettuale della mia linea di ottusa impermeabilità alle opinioni altrui. È un bel film intanto proprio come film. Che significa fotografia, scenografie, sceneggiatura, attori che recitano bene. Il che fa già una bella differenza con tutta la mondezza in circolazione. Ci sono alcune scene da antologia, incredibilmente mai citate, a proposito di ottusità non dichiarate, a differenza della mia, in nessuna delle furiose recensioni tutte incentrate sulla personalità di Moretti e non sul film, che parlano di cinema e costituiscono una delle critiche più sensate mai viste e sentite al mercato delle immagini che ci circonda. A parte quella sul mondo di Netflix, che scavalca a sinistra la satira di Boris sull’algoritmo e il pubblico, la riflessione sulla rappresentazione della violenza tramite il tentato sabotaggio del film che sta producendo la moglie cinematografica di Moretti, Margherita Buy, meriterebbe da sola di essere sviluppata in un altro film o in un corso d’arte drammatica con Tarantino, che pure amo, e tanti suoi emuli, Sollima compreso, sul banco degli imputati.
C’è poi la politica. Poca, secondo me. Il 1956 non è soltanto l’anno della rivolta d’Ungheria, che avviene sul finire dell’anno, ma quello del rapporto sui crimini di Stalin al XX congresso del Pcus con cui a febbraio i comunisti devono fare i conti. Quello è il momento in cui sarebbe stato possibile che la storia del movimento comunista, a noi interessa quello italiano, prendesse un altro corso. Così non è stato. Solo la finzione cinematografica può riscrivere la storia, esattamente come fa Tarantino in C’era una volta Hollywood, paradossalmente il riferimento è quello. Gli invasori, i sopraffattori, i prepotenti, gli imperialisti di sinistra o “socialimperialisti” (come, ricordava ieri su fb Chicco Galmozzi, i comunisti di sinistra e libertari definirono la politica dei carri armati di Mosca) hanno sempre torto. Non capirlo, non stare dalla parte degli oppressi, allora come oggi, segna una differenza esistenziale che va molto oltre la politica. Semmai il rimpianto, che traspare nel film, è per un’epoca di coinvolgimento civile fortissimo delle persone nella vita pubblica, ormai perduto per sempre. Il finale circense e il riferimento a Fellini è a mio avviso un auto presa in giro del regista, con tutti gli attori di tutti i suoi film che sfilano. Forse per l’addio di Moretti al cinema, forse per semplice gioco di una leggerezza ritrovata, voglia di stare insieme a quelli con cui stiamo bene. La sconfitta politica e umana, dentro o fuori al Pci, ci riguarda tutti. Tutti quelli che comunisti si sono definiti o si definiscono, chi è rimasto fedele nei secoli alla linea del partito come chi ha creduto, con varie declinazioni, da quelle elettorali a quelle lottarmatiste passando per quelle movimentiste, che un altro comunismo non autoritario fosse possibile, è stato sconfitto dalla storia. Ma ci ha provato, ha messo al centro soprattutto la propria convinzione che con l’impegno personale fosse possibile cambiare il mondo. Ed è stato giusto provarci. È questo che manca oggi, è questa l’elegia, il rimpianto che esprime Il Sol dell’avvenire, il rifugio dalla sconfitta politica nella mediocrità di vite borghesi in cui nemmeno ti accorgi delle esigenze e dell’insoddisfazione della compagna che ti sta accanto da decenni, rendendola oggetto delle tue nevrosi. Ci sono un paio di scene, mai citate da nessuno nemmeno queste, in cui viene riproposta l’omofobia del Pci. A testimonianza di un fortissimo limite umano oltre che politico, l’insopportabile bigottismo e perbenismo piccolo borghese che ha caratterizzato la visione della vita di quell’organizzazione. Insomma, c’è davvero tanta roba di cui discutere nel film di Moretti. Spostare il dibattito sulla persona Moretti, perché queste sono le recensioni prevalenti del film in giro, dimostra da quanta povertà siamo circondati, esattamente la tesi di Moretti. Ovvero che abbiamo perso molto, quasi tutto, della nostra capacità di partecipare della Storia nelle parti principali, relegandoci nel ruolo secondario, da caratterista, dell’amico pettegolo, criticone e insopportabile, che appena lo vedi da lontano cambi strada per non incontrarlo.