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Il signor Nakamura si svegliò di soprassalto; aveva sentito piovere. Era sicuro di aver sentito il rumore delle gocce d’acqua sulla tettoia di lamiera.

Scese dalla cuccetta e si avviò per il corridoio seguendo la pista luminosa sul pavimento.

Si fermò di colpo: “nello spazio non può piovere, non possono esserci nuvole”, si disse ad alta voce Nakamura, ascoltando il ronzio sommesso delle pompe.

Nella Stazione Orbitante Multinazionale, vanto della tecnologia europea (ed anche dei tangentisti che avevano spartito le mazzette), era un momento di sospensione delle attività scientifiche: gli ultimi specialisti erano stati rispediti a terra da un paio di settimane, ed i nuovi ricercatori stavano terminando il training, in attesa della navetta che li avrebbe condotti ai loro esperimenti in assenza di gravità.

Nakamura si occupava, in questi momenti di relativa tranquillità, di rimettere in ordine i materiali, di togliere le incrostazioni, di ripulire il disordine che i giovani esuberanti ricercatori delle migliori università erano soliti causare.

Ma l’operosa attività di Nakamura era, negli ultimi giorni, disturbata da problemi onirici che lo turbavano non poco.

La sensazione della pioggia era solo l’ultimo incubo che aveva dovuto subire, ed ora cominciava, leggermente, a preoccuparsi.

Undici anni di esperienza pressoché consecutivi sulle stazioni in orbita geostazionaria lo avevano reso insostituibile, infatti conosceva la funzione e l’utilità di ogni singolo componente, e sapeva risolvere i problemi diagnostici con capacità e competenza.

Mai avrebbe pensato di chiedere di essere sostituito per problemi medici, il minimo accenno a guasti psicologici lo avrebbe escluso definitivamente dalle missioni sulla stazione, che era la sua casa.

Un’altra notte cronologica, un altro turno di riposo, o almeno così sperava che fosse; per essere certo di dormire, Nakamura prese una compressa di un farmaco ipnoinducente a media durata d’azione, e si sistemò nella cuccetta.

Ma terminata la fase di sonno profondo, l’ingresso nella fase r.e.m. fu inaugurato dallo stormire di aceri giapponesi, nel pieno della foliazione, ed il rosso delle foglie era ben vivido negli occhi della mente: ciò che turbò Nakamura fu la sensazione, netta al risveglio, di avere sfiorato le foglie purpuree degli aceri e di averne sentito anche l’odore.

Sotto il cuscino antistatico, al mattino, Nakamura trovò un ciuffetto di foglioline rossastre, ancora fresche.

Stette ad osservare, sul tavolo del laboratorio di genetica, le foglie per alcune ore, dopodiché le introdusse nell’analizzatore molecolare.

Il responso fu una strisciata di valori illegibili, e la macchina concludeva l’analisi dichiarando di non aver trovato traccia di minerali conosciuti.

Nakamura tentò di chiamare il controllo a terra, ma una volta collegato si astenne dal segnalare il fatto: un pazzo in una stazione orbitale avrebbe passato il resto dei suoi giorni sotto le amichevoli cure degli psichiatri specializzati in smarrimenti spaziali, e questa prospettiva non lo attirava affatto.

Chiese l’invio con il prossimo cargo di una nuova fornitura per la farmacia di bordo, e dei materiali di routine che si erano consumati nel frattempo, e chiuse il collegamento con la base a terra.

Decise di restare sveglio, spostò due telecamere miniaturizzate sopra la cuccetta e si mise a riparare alcuni strumenti fuori uso da tempo, ma non per questo ancora inutilizzabili.

Restò sveglio per il corrispettivo di 48 ore terrestri, sempre tenendo d’occhio i monitor portatili collegati alle telecamere, ma non registrò alcuna attività al di fuori della norma.

Tutti gli strumenti indicavano ciò che era evidente, nessuna variazione nei parametri fisico-chimici misurabili.

Il sonno lo aggredì senza possibilità di resistenza, ed ebbe appena il tempo di arrivare fino alla cuccetta antigravitazionale, per sprofondare subito dopo nel torpore assoluto.

Dopo alcune ore di assenza di stimoli, si alzò per iniziare la routine dei controlli, passò al monitor di controllo, nessuna variazione apprezzabile negli standard di funzionamento della stazione orbitale, aprì il laboratorio con gli stabulari, ispezionando i topolini, i conigli, i ratti bianchi mutanti destinati ad ammalarsi di tumore per poi essere curati con i farmaci sintetizzati in orbita, le cavie intente a rosicchiare i mangimi sintetici.

Passò nell’altra camera, dove dietro una ampia vetrata si poteva osservare la stanza di Sheila, il suo computer, la sua amaca, l’albero secco.

Ma Sheila non c’era; Nakamura si avvicinò ai monitor, poi sbloccò la porta a vetri della stanza illuminata: pavimento pulito, luci diffuse, tavolo e posate in ordine, lettino al suo posto, ma dello scimpanzé nessuna traccia.

Poteva ispezionare tutti i cavi sotto il pavimento, controllare con microcamere tutti i passaggi dei liquidi e dei gas nel ventre della stazione spaziale, poteva fare un check completo di tutti i cablaggi elettronici, e farsi una bella stampa del risultato.

Però si era perso la scimmia. O meglio, la scimmia non era più dove avrebbe dovuto essere.

Pensò con raccapriccio alla segnalazione da fare al controllo a terra, gli avrebbero mandato dopo qualche ora un cargo con superefficenti bruschissimi operai galattici e magari lo avrebbero dimissionato su due piedi per inefficienza totale.

Spense il monitor di controllo della camera di Sheila, mise in tasca il tester che aveva usato per provare gli strumenti, la porta a vetri si richiuse con un rumore pneumatico e si spostò attraverso il corridoio, senza fatica, a gravità zero.

Sconfezionò il pasto liofilizzato, tentando di immaginare, come ogni volta, l’odore ed il colore del contenuto se lo avesse consumato in un ristorante, sulla terra; quella roba assolutamente asettica lo nutriva e lo faceva sopravvivere, fornendo i metaboliti e gli enzimi necessari alle sue funzioni vitali, e garantendogli l’apporto vitaminico bilanciato, e basta. Niente emozioni.

Nakamura pensò con disagio ad una scimmia in fuga, a tutti i danni che potevano succedere in un laboratorio orbitale, al rischio di dover smontare paratie e portelli per poterne recuperare il cadavere; si appoggiò alla cuccetta, ebbe la sensazione di infilare la testa in un sacco di tela scuro, fu catturato dai fantasmi del sonno.

Una strada ampia di un quartiere popolare, riquadri di cemento perfettamente disegnati sui marciapiedi, alberi di ailanto piantati da poco in fori regolari, con alti tutori per tenerli dritti, ed in quella strada, Nakamura ne è certo anche se non vi è mai passato, abita la sua prima maestra, una maestra che ha amato esageratamente, tanto da rifiutarne le coccole per vergogna. Si avvicina al portoncino bianco con piccole vetrate colorate, il giardino è spoglio e trascurato, si aspetterebbe di trovare aperto, invece deve bussare ed aspetta che qualcuno venga ad aprire. Ma invece della ragazza alta e bruna con lunghi capelli nerissimi apre la porta una anziana stanca; è vestita di nero e Nakamura cerca di parlare. La vecchia gli mette una mano sulla bocca e comincia a piangere; probabilmente la maestra è morta e lui ha fatto una passeggiata inutile, e vorrebbe gridare ma la voce non gli esce, e sente nel petto esplodergli tutte le parole che non ha mai saputo dire alla sua giovane maestrina, poi si mette a correre a casaccio, inciampa e cade.

Si risveglia sudato e sbatte, nello scatto che fa per rialzarsi, la testa nella volta della cuccetta. Nel monitor che copre la sala controlli vede del trambusto: è Sheila che si è arrampicata su un alto baobab e tira oggetti a due leoni che tentano di arrampicarsi sull’albero. Nakamura adesso è sveglio, ma crede di continuare a sognare, afferra a casaccio una torcia ed un martello e si dirige rapidamente verso la sala controlli, ed intanto nel corridoio tende l’orecchio, e li sente, i leoni che ruggiscono ferocemente.

Si ferma, e non sapendo perché, dal telecomando multifunzione smorza le luci dei corridoi; adesso sono illuminate solo le lucette gialle d’emergenza, che tracciano una pista interrotta sul pavimento.

È arrivato alla sala controlli, e crede di sentire un odore che non conosce, che non può conoscere, perché non è mai stato in Africa; l’odore acre della savana, e la puzza forte dell’urina dei grossi carnivori, ed il fetore delle carcasse in decomposizione.

Apre la porta blindata della sala controlli: la luce è accesa, e dentro è tutto in perfetto ordine, niente baobab, niente leoni, niente savana.

Acciambellata sulla poltrona girevole Sheila giocherella con un joystick, muovendo i carrelli dell’archivio degli esperimenti.

Nakamura si avvicina calmo allo scimpanzé, che lo abbraccia e gli sale in braccio, e quindi la riporta nella sua luminosa gabbia.

Mentre resetta tutti i computer e lancia la routine della  trasmissione automatica dei dati a terra cerca di non chiedersi il perché della sparizione e ricomparsa del quadrumane, e spera che i sensori non ne abbiano segnalato il muoversi lungo le paratie della stazione orbitale.

Non vuole darsi spiegazioni e soprattutto non saprebbe dare spiegazioni plausibili agli ingegneri di missione, e magari lo invierebbero ad un periodo di riposo e controllo per finire poi inchiodato al suolo. A terra non vuole ancora scendere.

Non vuole tornare alla casa di Kyoto, vuota dopo che la moglie lo ha piantato per fuggire con un lottatore di kendo, non vuole affrontare il dolore dei ricordi tra quelle pareti mobili, non vuole più nutrire i carassi giganti nella vasca del giardinetto.

La casa è lontana, pensa, ma la mia vera casa è qui, lontano dalla confusione e dal disordine, lontana da metropolitane sovraffollate e da bande di motociclisti rissosi, lontana da terroristi al gas nervino e da estremisti di destra con megafoni e catene, lontana dalla corruzione e dal consumismo indispensabile, lontana da quel genere umano cui appartiene solo per colpa del D.N.A.

Nakamura sintonizza il ricevitore digitale su una stazione in broadcasting dall’Australia; il segnale riflesso dal satellite diffonde nella sala riparazioni grandi pezzi musica varia, in prevalenza rock’n’roll e surf, e mentre lavora intorno ad un pannello solare guasto, batte con il piede il ritmo, seguendo il rullante del batterista.

Alcune ore dopo è di nuovo in trance onirica, ed addormentandosi ha avuto la sensazione di vedere altri uomini in giro per la stazione, ma è impossibile, cerca di dirsi, senza il rispetto dei protocolli di aggancio guidati dalla sala controlli nessuna nave spaziale può attraccare al pontile flessibile della stazione orbitale.

Stavolta, per sicurezza, ha ingerito dopo il pasto una compressa di benzodiazepina a lunga durata d’azione, poiché teme di dovere affrontare ancora uno degli strani sogni che lo hanno assillato, ultimamente.

Nakamura è fuori della stazione orbitale, sta rimettendo a posto una fila di pannelli solari sul fianco destro, ed il cordone ombelicale che lo tiene collegato pulsa di ossigeno ed acqua: Nakamura perde il primo cacciavite, continua il lavoro con quello che si è portato di scorta, perde anche questo, e nel movimento scomposto senza gravità si allontana troppo dal portellone aperto, ed il cavo che lo collega alla stazione orbitale striscia sui supporti delle parabole, si sfrangia la copertura, si taglia e dopo un secondo si accorge di essere perduto nello spazio.

Alla deriva mentre l’aria sfugge veloce attraverso il tubo tranciato, il fantoccio in tuta spaziale gira come un disco finito di suonare sul piatto giradischi, e poi si perde confuso nel nero uniforme del buio spaziale.

Alla deriva guarda la stazione spaziale illuminata dai fari di servizio, pensa che adesso la sua casa è veramente lontana, poi scompare perso nello spazio.

Alcuni giorni dopo, i tecnici arrivati sulla stazione dopo la scomparsa inspiegabile di Nakamura osservarono i filmati delle telecamere di servizio, e videro che si alzava, come addormentato, sonnambulo, dalla cuccetta, la scimmia lo aiutava ad indossare la tuta spaziale, mentre le diceva di voler raggiungere un luogo sulla terra, (parole non chiare, microfono difettoso), poi raggiungeva in fretta il portellone per il corridoio esterno, lo apriva e si lanciava nel vuoto senza agganciarsi al cordone di sicurezza ed al tubo dei rifornimenti di aria e acqua.

La scimmia teneva tra le mani una foto di una casa di Kyoto con giardinetto e vasca per i pesci rossi, e sopra era scritto, con pennarello rosso: casa lontana.

 

 


Foto copertina © Antonio Musotto