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Nella nuova normalità generata dall’evento pandemia, si riscopre in una forma nuova e inattesa ciò che si è per molto tempo considerato immutabile.

Una mia banalissima visita al laboratorio di analisi per degli esami di routine ha mostrato qualcosa di inedito legato alla nuova condizione: dalla misurazione della temperatura con termoscanner svoltasi all’ingresso, da parte di una persona addetta all’accoglienza dei clienti, all’igienizzazione delle mani guantate, alla diversa disposizione delle sedie in sala d’attesa e altri segni denotativi del cambiamento imposto dalla pandemia ai nostri comportamenti.

Chi mi legge si deve abituare alle incursioni delle mie catene associative nel reale, che anche in questo caso non sono mancate; in questo strano periodo di adattamento a una vita ancor più protetta e controllata, in una transizione che il cervello deve elaborare, i ricordi scoppiettano nella mia mente come popcorn.

Mi sono proiettata nelle immagini di un portfolio realizzato da Stefano Barattini, relativo a una struttura abbandonata, situata a circa 70 km a sud-ovest di Berlino, cioè il complesso ospedaliero di Beelitz-Heilstätten. Di Barattini voglio qui ricordare anche gli ottimi lavori sul Bauhaus e il Brutalismo architettonico.

Una breve scheda sull’edificio oggetto di questo portfolio, dalle parole del suo autore:

Nel 1898 circa sorse a circa 70 km a sud-ovest di Berlino un imponente complesso sanatoriale, Beelitz-Heilstätten, distribuito su una superficie totale di circa 200 ettari. Più architetti presero parte al progetto, tra il 1898 e il 1930.

Si tratta di una città ospedale per la cura della tubercolosi, composta da una sessantina di edifici, completamente autosufficiente. Il complesso comprendeva, oltre agli spaziosi padiglioni per la degenza e le terapie del caso, anche una propria centrale elettrica, la stazione ferroviaria, campi coltivati e allevamenti.

Durante la Grande Guerra, Beelitz venne utilizzato come ospedale militare ed è qui che, verso la fine del 1916, fu ricoverato anche il diciassettenne Adolf Hitler ferito nella battaglia della Somme.

Caduto il Terzo Reich, il complesso venne inglobato nei territori della DDR diventando il principale ospedale militare sovietico,  fino alla caduta del muro di Berlino e la riunificazione delle due Germanie. L’esercito sovietico lasciò definitivamente Beelitz nel 1995.

Oggi questo comprensorio versa quasi totalmente in stato di abbandono, solo un paio di padiglioni sono ancora in attività mentre altri sono stati nel tempo oggetto di vandalismi e oggi sono vuoti e pericolanti. Però la sua storia e la particolare architettura richiama ogni anno decine di fotografi che lo esplorano alla ricerca delle emozioni di un passato memorabile.

Oggi più che mai, in tempo di pandemia e di necessità di reperimento di infrastrutture indispensabili, viene spontanea una riflessione sul tema del riuso di spazi anche vetusti, e non solo per la loro bellezza intaccata dalla mancanza di manutenzione, ma ancora visibile.

Non si può ignorare che la giustificazione sovente addotta al recupero di vecchi spazi abbandonati è l’elevato costo degli interventi di ristrutturazione; senza entrare nel merito delle questioni tecniche implicate da tale operazione, perché non è mia competenza, piacerebbe a molti di noi osservare maggiore entusiasmo, da parte degli investitori, dei destinatari, degli amministratori e dei soggetti politici, nell’intendere il  riuso come opportunità non velleitaria. Naturalmente il ragionamento che qui abbozzo e che meriterebbe una trattazione più approfondita, che vada oltre la semplice visionarietà, deve anche tenere conto degli aspetti legati alla sostenibilità e tutela dell’ambiente, ormai non più trascurabili. Il tutto inquadrato in una indispensabile prospettiva che non sia limitarsi a soluzioni più o meno improvvisate dettate dall’emergenza. Impariamo a guardare oltre.

Sappiamo che a Milano, per la cifra tutt’altro che modica di più o meno venti milioni di euro, i padiglioni della ex Fiera sono stati convertiti in un ospedale destinato ai malati di Covid-19,  struttura che ha ospitato in tutto una ventina di pazienti e poi chiusa.

Privati o pubblici che siano, sono molti soldi che si sarebbero potuti spendere in maniera più efficace.

Non potendo fare altro, per il momento, torno a sognare la vita e l’animazione dei luoghi in fotografia, immaginandone le vicende umane e l’impronta lasciata all’umanità erede di quella storia.


Stefano Barattini, classe 1958, ha iniziato a fotografare nel 1979 unendo dall’inizio la passione per la fotografia a quella per i viaggi. Ha collaborato per quattro anni con la rivista Mototurismo  raccontando con testi e foto i suoi viaggi in moto. Dopo una pausa di riflessione ha ripreso l’attività fotografica nel 2006, periodo in cui il digitale cominciava ad apparire sulle scene, accogliendo il cambiamento con l’adozione di reflex digitali. I viaggi sono sempre stati al centro del suo interesse, analizzando luoghi e popoli, cogliendone l’essenza attraverso la fotografia. A partire dal 2013 ha scoperto e approfondito il mondo dei luoghi abbandonati, con particolare interesse per gli insediamenti industriali, in Italia e all’estero. Questi luoghi rappresentano un mondo scomparso che fu, un tempo, portatore  di progresso economico, benessere e valore per l’essere umano. Insediamenti che oggi sono, purtroppo, soggetti a degrado, valori perduti a seguito di una mancata riqualificazione. Gli studi di Architettura lo hanno da sempre portato a rappresentare i contesti urbani e il loro rapporto con l’essere umano. A questo riguardo è d’obbligo soffermarsi su un tema importante, quello delle periferie che, più di altre realtà, inducono gli abitanti ad accettare, se non addirittura subire,  una sorta di convivenza con spazi non sempre a misura d’uomo. Grande appassionato del periodo modernista e razionalista, va alla ricerca degli elementi architettonici che rappresentano forse l’ultima vera corrente stilistica di quel contesto.