image_pdfimage_print

      “Ich bin ein berliner” «Sono berlinese» così JFKennedy gli aveva gridato contro da un palco a ridosso del muro, la porta di Brandeburgo sullo sfondo; Jacqueline accanto a lui, aggrappata al manico della Dior. Con questa foto in bianco e nero fissata a calce nella memoria, per tutte le volte in cui l’avevo guardata sui libri, percorrevo, giovane promessa del management pubblico nazionale, il corridoio verso il volo. Berlino ovest, esclave dell’Occidente, non eccitava i colleghi, che avevano attivato tutte le raccomandazioni possibili per ottenere destinazioni migliori; per questo ci mandavano me, orgoglio di una madre sarta e di un padre commesso.  

     Nel 1980 verso Berlino volavano soltanto le compagnie aeree dei vincitori la seconda guerra. Lasciatomi alle spalle i sorrisi delle hostess Alitalia, fettucciate Trussardi – eravamo il quinto paese industriale del mondo e così dovevamo presentarci – mi ritrovai prigioniero del trattamento spartano della neo privatizzata British Airways e di due addette cloni della Thacher. Ma non m’importava: volavo sull’unico corridoio aereo d’avvicinamento all’Est. Lo stesso del ponte aereo del ’49. Ero dentro la Storia. Oltre il finestrino scorreva la cortina di ferro: un’oscurità percorsa da luci giallastre.

     A Tegel, appena sbarcato, si materializzò una valchiria bionda, interessata a sapere se il viaggio di herr Doktor era stato piacevole. E, accidenti, ero io herr Doktor. Si, lo era stato e herr Doktor al momento era in overdose da testosterone e lei ne era la causa. Ai controlli di frontiera, Shengen era ancora sul grembo di Giove, il fremito orgoglioso dei glutei della fraulein mi introdusse nel miracolo della mia nuova vita: il passaporto diplomatico mi esentava da dogane e burocrazia. Superai al volo i mortali in coda per ritrovarmi poco dopo in una bolla di privilegi, per me inimmaginabili soltanto poco tempo prima quando, sorretto dagli zabaioni di mammà, deperivo sulla tesi di diritto internazionale. In un mondo di stipendi in dollari, di uffici direzionali, di stilografiche per siglare documenti e di segretarie che pensavano a tutto. Anche al ritiro delle camicie in lavanderia, guardandoti come un semidio. Quell’Eldorado stava al 185 di Kunfusterdamm: l’Istituto Italiano del Commercio Estero. Tra una konditorei, con in vetrina enormi fette di torta, e Kaiser William Churche, detta da me, neoberlinese, la “chiesa vecchia”.

     Il mio arrivo confortò il Direttore: poteva, affidandomeli, affrancarsi dai lavori marginali e concentrarsi sugli inciuci per essere trasferito. Io scrivevo tabelle e relazioni o facevo la ruota a signore, infagottate in tailleur rosso Valentino e in pelliccioni di volpe, al seguito dei politici nostrani in visita pontificale. Tutte volevano fossi io a guidarle perché giovane, educato e sempre in grado di indicare, durante lo shopping, dove far pipì. Questo però, soltanto dopo aver prenotato per i consorti un tavolo al “Bel Amì” o al “Cupido”.

     Erano anni formidabili. Vendevamo di tutto: dalle scarpe fuori moda, ai corpetti elasticizzati per donna, li chiamavano “body” cambiano significato a una parola inglese e sbigottendo gli anglosassoni.  Eravamo i cinesi d’Europa.

     Io ero entusiasta e super eccitato per tutto questo. Credevo potesse continuare sempre così.

    All’incrocio tra Ku’damm e ZooBahnof, su un’altana, un agente della Statd Polizei dirigeva il traffico. Come nei libri di Le Carrè.

     Nonostante il personale miracolo economico avevo preso casa in una zona periferica popolata da immigrati, lontana dalle luci e dai negozi del centro: TurkenStrasse, vicino check point Charlie e Postdammer Platz sfregiata dal Muro. Potevo vederlo il Muro dalle mie finestre: una landa popolata da cavalli di frisia, camminamenti, torrette e dall’uggiolare dei cani, delimitata da due barriere di cemento. Lo attraversavo spesso, orgoglioso del passaporto blue della Repubblica. Sorridevo al marine di turno a Charlie e ascoltavo il gutturale accento dei “vopos” e una volta oltrepassata la terra di nessuno, le postazioni militari e il filo spinato, precipitavo in luoghi più sorprendenti di quelli che lasciavo: facciate diroccate mi venivamo incontro ammorbate dall’odore ubiquo di cavoli bolliti e margarina cubana; ancora persistente nel ricordo. Anche il faccione di Lenin, nel giardino dell’ambasciata sovietica, ne sembrava disgustato.

     Da “loro” il privilegio mi veniva dal denaro, dai vestiti, dalle scarpe italiane, dalle sigarette di marca. Al Praha caffe, ad Alexander Platz, cercavo con l’immaginazione, agenti segreti a tramare tra i tavolini di formica incontravo però soltanto ragazze, felici di venire a cena con me per consolarmi poi dalla solitudine. Davanti gli “intershop”, i negozi speciali con merci di importazione, dove avevo accesso grazie al passaporto diplomatico della cara Repubblica, alcuni passanti mi chiedevano spesso di acquistare per loro prodotti occidentali. Io guardavo le desolate vetrine del socialismo reale ed entravo. Ne uscivo con in mano il Graal: confezioni industriali di shampoo o saponi, da consegnare agli interessati dentro androni scuri. Tutto questo mi piaceva. Una volta, per due pacchetti di MS, ho potuto visitare da solo il Pergamon Museum: sono salito sull’altare di Pergamo e ho toccato la porta di Babilonia. Chi era, mi chiedevo, tra i miei amici, anche tra quelli iscritti fin dalla nascita all’ordine notarile a poterselo permettere?

    Sotto gli alberi di Unter den Linten, verso Alexander Platz, non camminavo: lievitavo. Mi sentivo felice e invincibile. Sarebbe stato bello se tutto fosse durato all’infinito.

    A metà di un Aprile ogni giorno più tiepido il direttore entrò nel mio ufficio, accennò l’inizio un discorso, cercò tra le tasche qualcosa che non aveva, piantò lì, avvolse l’aria con l’indice come a rimandare, uscì; poi, durante una pausa pranzo a base di curry wrust sulla piazza del Ka.De.We. mi confidò il proprio dramma in tutti i suoi aspetti umani: l’Istituto era stato delegato ad assistere tre suore, studentesse dall’Università pontificia, durante la loro permanenza in città,  in arrivo proprio negli stessi giorni in cui herr Direktor aveva un appuntamento irrinunciabile a Roma col proprio “politico raccomandante” a cui chiedere la sede di Londra e, per quanto ci avesse provato, non era riuscito a rinviare l’arrivo delle monache perché la Direzione generale non voleva scontentare il Vaticano.

     «Posso seguirle io. Ho imparato da lei» dissi con sicurezza.

     «Credevo non te la saresti sentita» rispose.

     «Ho portato in giro così tanta gente su e giù per Ku-damm, perché dovrei preoccuparmi per delle monache?» risposi. Non c’erano limiti alle mie capacità, pensavo.

     Il Direttore assenti, sorrise quasi paterno, pagò in contanti senza addebitare il costo all’ufficio.

     Partì di lì a poco, ventiquattrore in resta, lasciandomi signore incontrastato dell’Eden: controllavo il lavoro degli altri, concedevo le ferie agli impiegati, eccitato dal potere. Mi sentivo invincibile e invulnerabile. Non dimenticavo le monache, però. Mi sarei impegnato allo spasimo con loro per dimostrare a tutti di cosa ero capace.

    Il giorno del loro avvento le attesi in aeroporto; azzimato e profumato come credevo dovesse presentarsi un dirigente del mio livello. Le vidi arrivare lungo il corridoio degli arrivi: tre coni neri dal passo sostenuto, con le gonne ampie e le tese laterali delle cuffie fluttuanti come ali bianche d’uccelli. Un naif vivente, sullo sfondo della pianura prussiana appena oltre le vetrate.

     Ordinaria amministrazione, avevo pensato e, senza dubbi né timori, avviai la liturgia: tra monumenti, chiese e visite ad associazioni di ricamatrici emigrate, tutto si procedeva al meglio. Le venerande ospiti si comportavano come in gita premio e assimilavano soddisfatte. Io, ogni giorno di più, avevo la certezza di riuscire a dominare tutto. Tra loro non c’era una leader, solo una più curiosa delle altre: un giorno, mentre indicavo le macerie del Reichstag appena oltre la porta di Brandeburgo, in una botta di trasgressione, mi chiese di andare di là. A vedere.

     Non c’erano limiti alle mie capacità, né al trattamento a cinque stelle che le suore dovevano ricevere, perché testimoniassero al mondo le mie capacità. Potevo tutto e le avrei accontentate.

     Vaticano e “l’altra parte”, si parlavano soltanto tramite la struttura diplomatica svizzera e non era facile per noi, paese Nato, ottenere visti temporanei per l’ingresso a est. Ma per me non era un problema: esibendo la mia migliore aria da bravo ragazzo corteggiai la moglie del console elvetico: come avrebbe potuto negarmi di intercedere sul marito perché ottenessi i visti?  Herr Seitz, il marito, era contrario, ma non resistette all’assedio coniugale. Le suore ebbero i pass.

Io non sarei andato con loro avevo già perso troppo tempo dietro quei gonnelloni, pensavo. Avevo tutto sotto controllo.

      Per un insondabile mistero della diplomazia soltanto le persone di nazionalità turca potevano transitare liberamente tra i due mondi e il mestiere più praticato tra i turchi di Berlino era quello del taxista; erano anche i meno cari e io stavo nel budget. Mi rivolsi allora a Mohammed, un baffuto immigrato, di cui a volte ci servivamo per incarichi di fiducia e insieme andammo a prendere le suore al loro albergo. Il taxista guidando silenzioso assorbì il tono autoritario delle mie istruzioni sul percorso da seguire dall’altra parte. Le suore aspettavano nella hall, in completi pantalone grigi che anticipavano di anni il “minimal” chic di Armani. Consegnai a una di loro un piccolo registratore a cassette – allora il meglio della tecnologia, oggi soltanto un oggetto di modernariato –  bastava, arrivate dall’altra parte, pressare il pulsante di avvio e una voce attoriale avrebbe descritto i singoli monumenti. Andai con loro in macchina fino a Charlie e restai sul marciapiedi anche dopo che il taxi attraversò la frontiera.

     A casa mi assopii in un sonno di compiaciuto nirvana. Poi lo squillo del telefono riempì la stanza, graffiandomi l’udito. Risposi, i sensi avvolti dal torpore. Era herr Seitz. Parlava un tedesco gutturale senza pause che, per quanti sforzi facessi proprio non capivo, lo sentivo senza ascoltarlo, mentre nella nebbia della mia mente si facevano strada le parole Mohammed, taxi, suore e io pian piano recuperai le coordinate di me stesso; fu un risveglio violento; come se il cielo mi fosse caduto sulla testa. Il tassista una volta dall’altra parte aveva perso l’orientamento ritrovandosi lui, le monache e il taxi al centro delle prove della parata del 1° Maggio, la Volkspolizai li aveva fermati, avevano sequestrato il registratore a cassetta, convinti fosse una prova dell’attività spionistica delle suore.

     Il console parlava e nel mio cervello i pensieri si scontravano tra loro restituendomi panico.

     Presi un taxi al volo e gridai all’autista di fare di correre e correre. Ku’damm scorreva veloce dal finestrino: non era più la strada principale del paese delle meraviglie, ma solo un buio pieno di puttane.

    Nello studio di herr Seitz era accesa soltanto la lampada da tavolo, la luce si rifletteva sul ripiano di vetro della scrivania; non riuscivo a guardarlo negli occhi. Lo ascoltavo parlare al telefono, ora autoritario, ora rispettoso e non capivo il suo tedesco. Stavo in piedi di fronte a lui aspettando e quell’attesa non era misurabile col tempo, ma con la stretta d’ansia che provavo allo stomaco. Poi da dietro le sue spalle il bip di un fax in arrivo. Il console poggiò le mani sull’orlo della scrivania, con una spinta all’indietro avvicinò la poltrona alla macchina, ne strappò un foglio, lo lesse. Si alzò guardandomi con occhi grigi. Andava oltre il muro a prenderle, mi comunicò.

Feci per seguirlo, ma herr Seitz mi congedò. E fu come leggere i suoi pensieri: “Kaine. Kaine. Non è affare per ragazzini.”

     Passai la notte in attesa, fumando. Ero affranto; e deluso per il mio fallimento; e terrorizzato per le conseguenze del mio pressapochismo: come da protocollo avrei dovuto essere con loro su quel taxi, invece di abbandonarle al caso. E, di colpo, seppi di non essere mai stato un semidio dell’Olimpo, ma soltanto un ragazzino così assorbito da se stesso da non sapere distinguere tra fantasie e realtà; solo e perso dentro una città sconosciuta e ostile  

     Rividi le suore l’indomani in ufficio, in buona forma ed eccitate per quanto accaduto. Avevano avuto paura, certamente, ma a ripensarci adesso, che tutto era finito, si erano divertite; adesso avevano anche argomenti, avendola vissuta, per testimoniare la barbarie di “quegli altri”. Erano lì per salutarmi, il console aveva programmato il loro ritorno per quello stesso giorno, via Zurigo. Nonostante il sollievo, ero infastidito dalla loro presenza: prove viventi, come erano, della mia sconfitta. Con la forza del pensiero le spinsi fuori dall’Istituto.

   Herr Seitz, quando chiamai per ringraziarlo, fu paterno ma brusco: aveva altro da fare, quella storia per lui, era finita.

 Evitando gli sguardi dei colleghi, aspettai, barricato in ufficio, il ritorno del Direttore e le reazione della Direzione Generale.

     I giorni passarono pieni della solita burocrazia e quando, il Direttore tornò era allegro e disteso; come se le suore non fossero mai esistite e nulla fosse accaduto. Ma non era così per me: avevo il cuore sulle montagne russe, evitavo di guardarlo negli occhi.

     «Sei troppo agitato» mi chiese «cosa ti succede?»

     Sforzandomi di non balbettare affrontai l’argomento, scusandomi e scusandomi.

    Alle mie parole la sua allegria si moltiplicò, facendomi sentire ridicolo. Mi poggiò una mano sulla spalla, rise ancora.

     «Non hai di preoccuparti; le monache non ci riguardano più: se ne occupano gli Esteri, come avrebbero dovuto fare dall’inizio. Scrivi una relazione e dimentica. E in Direzione sono soddisfatti per come hai affrontato l’emergenza e attivato gli svizzeri»

  Tirò su col naso, passò una mano tra i capelli e, con aria complice, mi confidò di essere in partenza per Londra. Al Ministero gli aveva garantito il trasferimento. E questo, in parte, era anche merito mio che lo avevo sostituito. La smettessi di pensare alle monache e gli dicessi, invece, in che modo poteva ricambiare il favore.

     «Mi conceda un mese di ferie. Voglio tornare da mia madre» risposi.