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Da un caso di cronaca. Accendo la tele poco prima del notiziario delle tredici, mentre sta per terminare una trasmissione della mattina, di carattere nazionalpopolare. Si narra la tragica vicenda di una giovane povera donna madre di cinque figli, che muore a causa di un trattamento estetico.
Il conduttore racconta che Samanta si era sottoposta a un intervento di rimodellamento del seno, eseguito da una praticona, “un’estetista transgender” ed è morta tra le braccia del compagno durante la maldestra inoculazione di silicone liquido; il silicone entrato in circolo l’ha uccisa. Lacrime in TV.
E qui sta il punto, anche più di uno. Passo ad elencare: prima di tutto l’uso del silicone liquido è vietato da anni per la sua pericolosità; punto secondo: con discreta evidenza Samanta non poteva permettersi di pagare un intervento in ambiente ospedaliero protetto, possiamo supporre, e si fidava dell’estetista; punto terzo: il conduttore della trasmissione fa presente, durante l’intervista al compagno della donna, che l’estetista è transgender, come se essere tale fosse un’aggravante o un’informazione significativa ai fini di come sono degenerate le cose.
Ho tenuto questo punto per ultimo, subdolamente introdotto dal conduttore, per sottolineare il sottotesto, culturalmente deteriore, nel penalizzare l’appartenenza di genere come responsabile, in qualche misura, di un accadimento così grave.
Un’osservazione sorge d’impulso: l’accettazione del proprio corpo da parte delle donne è ancora materia di dolorosa riflessione. Si sa che dopo più di una maternità e, forse, relativo allattamento, il seno delle donne non è più garrulo e gagliardo come a vent’anni e zero figli.
Non sono bastati decenni di femminismo, psicologi, psicoanalisti e studiosi delle cose umane, a
rassicurarci sulla nostra integrità, sul nostro non sentirci disgregate e poco ben volute per lo più da mariti e compagni e dalla società dei modelli di quell’estetica che fa del corpo oggetto di consumo e preda – compiacente – del maschio di turno. No non sono bastati, le donne continuano a pagare il prezzo imposto dalla cultura dominante. Poi, se vogliamo raccontarci la storiella che ci facciamo belle per noi stesse, indoriamo la bugia e poi o la va o la spacca.
In questo caso una giovane donna muore, cinque figli perdono la mamma e un uomo la donna amata. Dire bilancio negativo è un eufemismo.
Inoltre l’ambiguo sottolineare l’essere estetista transgender equivale a penalizzare la presunta diversità di chi, nel proprio corpo, non si sente a proprio agio e sceglie, nella sofferenza, di vivere una vita travagliata fino alla fine, o sottoporsi a interventi e trattamenti per nulla semplici per poter rientrare nella propria vera pelle.
Un caso eclatante quello di Samanta e dell’estetista rea di abuso della professione medica. Due vittime
allo stesso tempo, una specularità che lascia sbigottiti.
Eviterò in questa sede di ipotizzare quanto l’essere transgender possa diventare un piatto succulento per certa nostra politica in moto retrogrado rispetto a diritti e valori.
Vedremo.