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La mia Barona, di Lorenzo De Francesco, si radica nella temperie culturale degli anni del boom economico, quando il Paese si avviava alla trasformazione dettata dallo sviluppo industriale e la speculazione edilizia.
Lo scenario è il quartiere Barona, nella periferia sud-ovest di Milano, descritto con vivace affettività dal nostro autore, protagonista e osservatore del suo particolare microcosmo.
Lorenzo, bambino negli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso, annotava puntualmente i contorni della sua vicenda personale e familiare, nell’epicentro della  transizione urbanisticamente e socialmente significativa dal borgo rurale  alla  metropoli.
Coloriti i riferimenti ai personaggi che ravvivano il racconto, ancorati alla cultura popolare milanese di quegli anni.
Una testimonianza gradevole di sapore memorialista.

Rita Manganello


Preferisco prendere il tram, mi dà sempre una sensazione di libertà protetta, posso guardare a 360 gradi la città che scorre fino al tratto che attraversa il ponte di via Valenza,  infilando poi  Ripa di Porta Ticinese a ridosso del Naviglio Grande. Qui il tranviere si rasserena, è uscito dal traffico asfissiante da via Torino a Porta Genova e si lancia sul rettilineo in un’accelerazione liberatoria.

Amo sentire lo sferragliare e  il dondolio provocato dalla velocità. Attraverso i vetri, i luoghi ancora familiari, le mura dello scalo di porta Genova, il ponte di ferro delle Milizie, nome inquietante come la sua sagoma dura, lascito di una costruzione dell’era fascista. Man mano vedo avvicinarsi il profilo familiare e inconfondibile della chiesetta di S.Cristoforo, ora non più inghiottita dalle nebbie che la soffocavano quasi sempre d’inverno, quando ero piccolo.

Ci passavo molto tempo, nei pressi di S.Cristoforo: i miei avevano un’ officina in via Pestalozzi, una via stretta dove transitava il tram 12. 

Questa linea tranviaria terminava la corsa al capolinea di piazza Miani passando per via Biella; al 20 c’era la mia casa natale al quarto piano senza ascensore.

Una memoria del cuore il  tram 12: mi portava da casa a scuola, all’officina e poi in un quarto d’ora in piazza del Duomo, senza dover cambiare.

È su questo asse che si svolge la  memoria dei miei primi anni. Ogni tanto ripercorro i luoghi e trovo che qualche elemento della storia cittadina è scomparso: prima è sparito il 12, sostituito da autobus rumorosi, fumosi e poco spaziosi; sono rimaste mute per anni la linea aerea e le rotaie, giusto per aumentare il rimpianto. Poi hanno coperto anche quelle, togliendo le lastre di pietra e porfido, che erano l’alveo rassicurante delle rotaie, indistruttibile e distruttivo per le ruote e le sospensioni delle auto.

Sin dalle elementari, nella piccola officina di mio padre, è stato per me un crescendo di lavoretti fino a uscire in missione, da grande, insieme agli operai.

Il marciapiede di via Pestalozzi potevo percorrerlo con la mia piccola bici anche senza sorveglianza, da un passo carraio all’altro. Ci sono ancora gli stessi tombini, impressi come ricordo nella mia mente come nell’asfalto.

Dal piccolo mondo di S.Cristoforo, che esploravo quando ero in officina al piccolo mondo della Barona, quando ero a casa;  la prima esplorazione fu visiva dal grande terrazzo dal quale si dominava mezza città e mezzo cielo, visuale libera da case più alte, un grande prato davanti caratterizzato dal coro di rane e zanzare. Più tardi emerse il mondo nuovo dell’adiacente quartiere di S. Rita.

La Barona era ancora periferia ai margini della città, costellata da una corona di case popolari anteguerra. Tristi e serie. Subito dietro campi e cascine; la città finiva bruscamente liberando la campagna dall’intrusione del cemento. Alle case anteguerra si aggiunsero subito costruzioni più moderne, ancora più brutte e spartane, per accogliere gli immigrati del boom economico.

Salivo sul tram davanti a casa, tre fermate ed ero a scuola o in officina. Non ho mai capito perché non si potesse andare a piedi, scelta incomprensibile dei miei genitori.

Il 12 aveva una particolarità dovuta alla curva a gomito nella stretta via Pestalozzi: lì il binario diventava unico e c’era un semaforo per i tram d’ambo i lati. Era divertente vedere l’alternarsi delle vetture e cercare di capire come si azionava lo scambio che talvolta si inceppava, costringendo il tranviere a  scendere con la gügia [1], arnese che serviva anche da minacciosa arma impropria in caso di discussione con gli automobilisti spazientiti dall’intralcio.

Oppure quando la pertegheta scarrucolava e il bigliettaio (era compito suo non del conducente) doveva scendere dal tram e bestemmiando riposizionarla sulla linea elettrica con vari tentativi; risalire poi di corsa perché il conducente aveva fretta di ripartire per rispettare la tabella di marcia.

In un quartiere cittadino fortemente tipizzato, come era la Barona all’epoca, non potevano mancare i personaggi di culto che caratterizzano la comunità di abitanti della zona.

Sul Naviglio, il cartolaio che fumava sigarette al mentolo rilasciando quel delizioso profumo che impregnava tutto, il fotografo con le sue apparecchiature misteriose e sempre molto indaffarato, l’idraulico grasso e sudato con manone enormi e tuta con bretelle: un retrobottega che era una miniera di metalli vari e odori strani e che si apriva su di un cortile sconosciuto; il ferramenta gay che mi guardava con interesse, il verniciatore stravagante che posata la pistola a spruzzo, la sera impugnava tavolozza e pennelli e continuava a dipingere, l’elettricista enorme, zoppo, sinistro, dalla voce tonante che talvolta virava in un falsetto inatteso,  l’ex pugile sempre ubriaco, il lattoniere milanesissimo – una sputacchiera ambulante e  donnaiolo incallito – gli occhi sempre infiammati.

Nella lista dei personaggi tipo si distingueva l’ingegnere della fabbrica dei trasformatori industriali con un innato senso di superiorità verso i piccoli artigiani.

L’officina aveva come sede un’ex macelleria di ridotte dimensioni: c’erano ancora le piastrelle bianche e rosse e i ganci per appendere al muro i quarti di bue.

Era quanto rimasto della florida azienda metalmeccanica del nonno, che subì un rovescio di fortuna, il che costrinse mio padre a lasciare gli studi professionali e a trovarsi subito un lavoro, come soffiatore di vetro alla Pastelor, dove conobbe mia madre.

Grazie al boom,  l’officina è andata sempre ampliandosi, dalla superficie dei locali al volume d’affari, fino a quando mio padre lasciò l’attività a 70 anni nel 1994, cedendola al più intraprendente dei suoi operai.

La signora Ester era il nostro legame con S. Cristoforo; lei era una di quelle che al mattino lavavano i panni nel naviglio per sbarcare il lunario e nel pomeriggio tirava le punte [2] da noi. Con il marito gravemente malato, doveva tirare la carretta lei. Lavorava il vetro accompagnando il movimento delle mani con un dondolio incessante del corpo e della testa, una cosa ipnotizzante, i capelli bisunti fissati da un vecchio fermaglio.

A 15 anni il trasloco nella nuova casa:  la conclusione,  la fine del sogno. Quando trasportavo le vecchie cose nella nuova abitazione, sapevo di lasciare qualcosa, per sempre. Ritornavo ogni tanto in via Biella e vedevo frammenti del  passato densi di memoria scomparire inghiottiti o sostituiti da manufatti anonimi senza storia per me.

Nella nuova casa, con ascensore, doppi servizi, box, cortile,  mancava però quel mio grande polmone: il terrazzo sul cielo e sul verde.


[1]  Asta metallica che consente l’azionamento manuale di un deviatoio da parte del tranviere.

[2]  Prima fase della lavorazione del vetro in canne per la creazione di ulteriori manufatti: il tubo viene scaldato mentre è fatto continuamente ruotare con le dita e leggermente insufflato per evitare che si afflosci, tirandolo progressivamente fino a separarlo in due parti, ognuna delle    quali a “punta” perfettamente simmetrica una volta raffreddata.