Non un racconto di finzione, La casa della zia, di Lorenzo De Francesco, ma una storia vera, un breve mémoire dell’autore che ha vissuto da bambino, e poi da adulto, questo rapporto familiare tenero e compassionevole con la protagonista della storia, una prozia, le cui vicende appaiono tormentate: si sposò infatti con un uomo che non seppe renderla particolarmente felice, nella nostra visione di osservatori, ma al quale lei era devota. La vicenda si chiude con la scomparsa della zia, alla fine degli anni Novanta.
Un racconto che sottolinea le criticità della cultura patriarcale responsabile della sottomissione della donna, da parte del marito tiranno, qui rappresentato impersonalmente come “lui”, emblema e stereotipo del maschio padrone e prevaricatore, con il contributo della parentela che agisce in un coro di insensibilità ed egoismo, lontana da qualsiasi umana considerazione per una donna provata dalla solitudine e dalla malattia. Un’alleanza spietata, un racconto paradigmatico.
Una storia d’altri tempi si direbbe, ma ne siamo proprio sicuri ?
Monja Zoppi
Il lavandino era così da qualche anno, le vecchie pentole di sempre, ammucchiate e unte; ormai la zia aveva solo la forza per respirare; il marito defunto da dieci anni le aveva lasciato unicamente la casa, fino alla morte, e a quella casa lei era visceralmente attaccata: non tollerava che nessuno ponesse mano al suo degrado, quasi dovesse accompagnarla con la sua fatiscenza nella tomba.
I parenti erano lontani, in un’altra città, altro da fare; di tanto in tanto andavano a trovarla e una volta dentro già cominciavano a guardare l’orologio e a dire che non si sarebbero potuti fermare tanto: la strada, la nebbia, la partita, e lei tornava sola.
Nella casa le tracce di qualche scampolo di felicità passata, qualche oggetto comprato nelle rare passeggiate col marito, una foto risalente agli anni Trenta, loro due con il gelato. La felicità agli inizi sembrava a portata di mano ma poi niente figli, sembra lui non li volesse. Lei veniva da una relazione tormentata, sgradita alla famiglia, terminata con un aborto riparatore; questo intuii da discorsi frammentari di sua sorella, mia nonna.
La ritirata prematura in quella casetta ai bordi della campagna mantovana, torrida d’estate, gelida d’inverno, tra gente lontana dalla sua sensibilità e sempre affaccendata nei campi, negli allevamenti, in giro a curare i propri interessi.
Anni di trascuratezza e solitudine: lui si alzava al mattino verso le nove, faceva il bagno seguito dalla colazione, l’abito stirato con cura da lei. Lui usciva a fare quattro passi in centro a prendere il caffè e il giornale, lei in casa a preparare il pranzo; lui sedeva a tavola, leggeva, un sonnellino fino alle quattro, si rivestiva e andava al circolo a giocare a bocce o a carte fino a sera; rientrava: cena, televisione fino alle undici e via.
Nessuna particolare attenzione per lei; d’altronde la donna era considerata poco, non decideva niente, nemmeno di potersi comprare i vestiti; le contava persino i soldi per fare la spesa.
Anche nel moderno Nord esistono storie di arretratezza. Mi raccontava mia madre che era andata col babbo a trovarli in occasione del loro matrimonio – breve viaggio di nozze a Desenzano – e mia madre, che indossava i pantaloni, dovette cambiarsi perché nel paese degli zii, le sussurrarono, le donne in pantaloni davano scandalo.
Eppure racconta il curato che lei fino all’ultimo risparmiava i soldi delle messe in suffragio per l’anima del marito, e che soffriva perché non era sicura che da morta sarebbe stata inumata accanto alla sua salma.
Centellinava il gas per cucinare, l’acqua per lavare, allo scopo di risparmiare dai soldi della misera pensione, quello che serviva per i lumini, i fiori e le messe in memoria del defunto.
Ora è morta. Se n’è andata in due mesi per un male inesorabile che covava da anni ma che la sua condizione di vita solitaria ha impedito fosse diagnosticato in tempo.
Dava anche un po’ fastidio ai parenti: occupava da sola la casa, unico bene che il marito le aveva lasciato in usufrutto. Una villetta che sarebbe servita ai parenti di lui, perché dovevano metterci il figlio in procinto di sposarsi e che non aveva casa.
L’unico momento di panico tra i parenti si verificò quando la zia fu ricoverata in un ospedale che non la voleva, perché incurabile; telefonate concitate e cariche di aggressività per cercare di scaricarsi la responsabilità a vicenda; fortunatamente morta quasi subito, togliendo il disturbo.
Tutti concordi in questo caso nell’individuare l’intervento della Provvidenza, che per altre morti improvvise e meno desiderate, appare invece inspiegabile.
Partecipai al funerale: erano tutti sollevati. Nella bara il corpo sfigurato dal tempo e dal male. L’ho vista da ragazza in una foto nell’album di famiglia, era splendida.
Tempo qualche giorno, sarebbero iniziati i lavori di ristrutturazione della casa: i martelli e le spatole, nelle mani dei muratori, asporteranno i pochi ricordi rimasti.
Ho portato via qualcosa: qualche fotografia e una grande amarezza; una miniera di emozioni e di considerazioni rivedendo quella casa ove da bambino pranzavo sempre in occasione del 20 agosto, quando cadeva il compleanno di lui e la zia preparava un pranzo pantagruelico per i parenti.
Ora il tempo inesorabile ha chiuso la sua storia, altri ricominceranno in quella casa.
Mi resta una domanda nel cuore, una domanda triste e un rimorso: anch’io avrei potuto fare qualcosa di più per lei e non l’ho fatto, anch’io trascinato nel turbine della vita i tutti i giorni non mi sono fermato, non sono stato prossimo per lei.
A cosa servono il progresso, la tecnologia, le automobili e le autostrade che annullano le distanze? Non servono a migliorare l’uomo e il mondo se manca l’amore, se questo non scaturisce dal nostro cuore e non prende il sopravvento sull’effimero.
Senza l’amore, anche se sei vicinissimo a una persona, sei lontanissimo dal suo cuore e nessuna tecnologia potrà colmare questa distanza.
Non serve la nostra fede se resta una componente isolata, come tante altre della nostra vita e non permea tutte le azioni e non diventa la luce che ci fa scorgere il prossimo che soffre, che ha bisogno di noi. Il vuoto di amore che avremo lasciato, sarà per sempre.
Immagine di copertina: “La zia” foto di proprietà di Lorenzo De Francesco
Lorenzo De Francesco è laureato in ingegneria informatica e ha affiancato da sempre al lavoro tecnico/manageriale uno spazio dedicato alla narrazione, per raccontare storie vissute o sentimenti forti sia con la scrittura che con gli audiovisivi. Dalla nascita risiede in un quartiere storico di Milano, vivendone le trasformazioni. Dopo gli studi ha lavorato in una multinazionale leader del settore informatico e dal 2010 ha potuto occuparsi a tempo pieno dell’attività audiovisiva amatoriale, come autore, organizzatore e docente in ambito nazionale e internazionale, intessendo una vasta rete di relazioni che gli consentono di avere una visione allargata su diverse culture.