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Caro Pier Paolo,

oggi è una domenica di fine di ottobre, una di quelle giornate magnifiche dove l’ultimo caldo stiepidisce il sangue e l’aria frizzantina rasserena le gote. Nella campagne che riesco a vedere dalla finestra della mia stanza tutti sono concentrati nella raccolta delle olive. Tutti intenti a rincorrere il succo più prezioso della terra, quell’olio che ora più che mai odora di speranza.

Ho scritto le prime righe di questa lettera più volte nella tremenda paura di essere inappropriato e nella speranza di non far diventare queste timide parole soltanto un tremendo elogio a te. Mi sentirei fuori luogo.

Mi perdonerai innanzitutto se ho deciso di darti del tu, ma non è solo una decisione. È piuttosto l’unica maniera con la quale riuscirei a parlarti. Probabilmente se ci fossimo conosciuti un senso di riserbo misto a riverenza mi avrebbe portato a non riuscire a dire nulla di più sensato che un salve o un buongiorno. Ma quello che sto scrivendo oggi è un messaggio al fratello maggiore che non ho, ad un maestro sensibile, intransigente e gentile.

Sai, la stanza della casa dei nonni che tutt’ora mi attrae e nella quale ancora mi sento un bambinetto, è lo studio di mio nonno, un po’ per il pianoforte un po’ per la folta libreria che ne arricchisce il perimetro.

Passare ore là dentro a sfogliare vecchi libri e suonare il piano rimane tutt’oggi un divertimento puro. Ma questa è un’altra storia.

Ero poco più che ragazzino, avrò avuto più o meno una decina d’anni, e, di nascosto, perché mi era stato vietato, riuscii a trovare Ragazzi di vita in una libreria della riviera romagnola, uno di quei posti che senti tuo, che senti complice e che infatti, quando ne ho l’occasione, frequento ancora con tenera gioia. Uscito di lì, con il libro in mano, respirando profondamente l’aria dell’Adriatico e camminando tra lo sferragliare di biciclette e i rumori assordanti delle sale giochi, tutto per me era diventato un piccolo universo dinamicamente immobile. Mi sentivo di aver trasgredito ad una regola ma sapevo che era la cosa giusta. Mi sentivo felice e grande. Avevo una storia che parlava di ragazzi e inconsciamente mi sentivo uomo. I giorni successivi al misfatto me li ricordo come una continua scoperta: il bagno nel Tevere, la rondinella, il neofascismo, le parolacce, i frosci, i furti, i morti.

Sono passati ormai anni dal nostro primo incontro in quella libreria alla rotonda sul porto canale di Cesenatico. Ti ho frequentato tramite i tuoi scritti e i tuoi film e con loro sono cresciuto. Mi hai insegnato quanto sia importante e bello proteggere un feto indifeso e trattarlo come vita. Mi hai insegnato ad osservare tutti i particolari e le sfumature delle esistenze. Mi hai insegnato che non c’è mai fine all’interpretazione del mondo. Mi hai insegnato ad essere serio e a dare il giusto valore all’impegno. Mi hai insegnato a non aver paura di avere un cuore. Mi hai insegnato il valore più profondo del comunismo. Mi hai aiutato a capire da quale parte voglio stare. Mi hai insegnato che credere significa dopo tutto cercare. So che potrebbe non piacerti, ma conoscerti mi ha fatto sperare nell’uomo. Mi hai aiutato a capire perché la profondità si nasconde nella superficie. Mi hai spiegato, senza saperlo, quanto una somma data non porti necessariamente allo stesso risultato. E tutto questo è arrivato sottovoce ma rumorosissimo. Come il silenzio che separa la fine della Messa da Requiem di Verdi dall’applauso del pubblico, opprimente ma liberatorio.

A volte ti ho detestato perché non ti capivo, perché quello che volevi esprimere mi risultava incomprensibile, quasi vomitevole. Ma poi mi fermavo a rileggere e nel profondo delle tue parole si nascondeva limpido il sentimento d’amore di un cuore tradito, oltraggiato ed offeso.

Forse è tutta una mia fantasia. Forse il problema sono io. Lo ammetto. È quella parte di me che ogni giorno si riscopre bambina. È quel non cedere mai il sogno alla realtà senza per questo diventare illusi. È quel cercare la poesia nelle persone che mi circondano. È quel circondarmi di umili.

Odio vederti oggi idolatrato. Non sopporto di vederti trasformato in un santino. Chissà cosa stai pensando del tuo Ninetto che gareggia tra le stelle in piste da ballo deludenti. Mi piacerebbe vedere l’espressione di quel volto scavato e profondo come un paesaggio del carso interpretare il presente.

Spesso mi chiedo come avresti reagito ad un mondo che non lascia più spazio alla pietas. Quali sarebbero state le parole pronunciate in difesa di qualcuno o contro qualcosa. Spesso sento la necessità di sentirti parlare, da lontano, in un’assemblea, nel bel mezzo di una folla calda e attenta. Spesso nei momenti di rabbia avrei bisogno del tuo esempio di uomo mite ma energico mosso da desiderio e compassione dove, parafrasando Fabrizio De André, la pietà non lascia posto al rancore. Tu che riuscivi a parlare di politica invocando le lucciole. Che con eleganza di poeta ed agilità di calciatore hai combattuto dolcemente chi non ti capiva e, senza scrupoli, ti giudicava.

Questa mattina prima di iniziare a scrivere ho fatto una passeggiata ad Ostia in quel luogo che risuona ancora delle tue urla. Proprio davanti al monumento che il comune di Roma ha eretto in tua memoria ho provato un sentimento di ceca ed esausta rabbia.

Il cielo è limpido perché l’aria delle mattine soleggiate di ottobre accompagna lontano con gentilezza le nuvole autunnali concedendo spazio agli ultimi timidi istanti di una estate ormai passata.

Poi un brivido. Fulminea e potente come un lampo la sensazione dell’aria salina nelle narici come quel giorno di tanti anni fa sul mare della Romagna. Ho i brividi della commozione e dentro me corrono impazziti sentimenti roboanti ed eterogenei. In un istante magico e secolare si materializza in me ancora una volta quell’infinito immutabile e reattivo. Ora come allora trovo un luogo complice. Ora come allora cammino consapevole. Ora come allora insieme a te. Ora, in questo preciso istante, percepisco il valore dell’esistenza di me ragazzo, vicino all’essere uomo che non riesce a perdere gli occhi del bambino che è stato.