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La psicoterapia è relazione (nello specifico una relazione di cura), e come tale può usufruire, per dispiegarsi e mantenersi, di diverse modalità di comunicazione.

La particolarità della relazione terapeutica è quella di avere uno “scheletro” ben definito, dato da una cornice teorica di riferimento precisa, e da linee guida tecniche da cui a volte è difficile prescindere. Accanto a questi elementi più o meno stabili vi è una variabile determinata dal canale comunicativo utilizzato che diventa peculiare e tratto distintivo di quel rapporto specifico e che, in un altro rapporto, può invece avere poco o nessun senso. Tutto ciò è reso possibile dal fatto che ogni persona ha un canale comunicativo prediletto (scelta formatasi a seguito delle esperienze nella prima infanzia) attraverso cui i significati vengono compresi e ricordati; il cliente ci mostra, nella relazione terapeutica, quel canale invitandoci ad utilizzarlo per entrare in sintonia, capire ed essere capiti. Personalizzare la comunicazione con ogni specifica persona vorrà dire renderla più efficace utilizzando taluni strumenti e simboli al posto di altri.

La bontà di un terapeuta risiede, tra le altre cose, nella sua continua ricerca e disponibilità a padroneggiare nuove forme comunicative che possano ad esempio agevolare percorsi terapeutici “difficoltosi” o che hanno bisogno di trovare un nuovo linguaggio per comunicare nuove difficoltà.

Una di queste forme di comunicazione è la fotografia, che può essere usata in qualità di facilitatore della comunicazione. La fotografia è memoria, simbolo, desiderio e necessità. Come oggetto transizionale essa porta con sé ricordi, emozioni, significati molte volte più complessi e completi di quanto le parole riescano ad esprimere. Attraverso la fotografia un luogo o momento congelato nel tempo prende vita, dando l’impressione a chi osserva di trovarsi di fronte ad una testimonianza oggettiva della realtà, dimenticando che essa non è altro che una sua costruzione simbolica avvalorata dall’esperienza soggettiva di chi la sceglie.

In terapia capita a volte (molto più spesso di quanto uno possa immaginare) che il linguaggio verbale possa non bastare più. Qualcosa si è rotto in un punto così profondo e così in là nel tempo, quando ancora la nostra capacità comunicativa non era basata su ciò che diciamo, ma era costituita sostanzialmente da ciò che viviamo e sentiamo (nel qui-ed-ora del momento), ciò che siamo nel corpo. Ecco che allora molti significati non trovano espressione nella parola ma in simboli pre – verbali nascosti ad esempio in una foto.

In questi momenti e in questi casi per me, in qualità di terapeuta, la fotografia rappresenta quasi una nuova relazione, per molti aspetti più intima e sicuramente diversa. Entrare in punta di piedi nella vita di una persona attraverso le parole si trasforma in un coinvolgimento totalizzante fatto di corpi, luci, ombre e sfocature, momenti congelati nel tempo, espressioni, emozioni e posture che risuonano sia nella persona che ce le mostra per un motivo specifico, squisitamente personale, sia dentro di noi, in ciò che magari di diverso possiamo osservare e che può diventare una chiave di lettura mai esplorata prima di questo momento.

L’esplorazione dell’inconscio attraverso immagini e fotografie crea un’esperienza emotivamente molto forte poiché la narrazione di una storia cede il passo alla drammaticità del momento con tutta la sua carica emotiva intatta che si rovescia nel qui-ed-ora. Momenti congelati nella persona stessa, non solo nelle foto amate / odiate; attraverso esse riusciamo a mettere nuovamente insieme i pezzi di qualcosa che si agita al di sotto della coscienza.

Nella mia esperienza come terapeuta l’uso delle fotografie è limitato (con diverse variabili) a poche situazioni, in cui ad esempio si è reso necessario dare voce a qualcosa che non conosceva parole. Ancora adesso, nel ripensare ad alcuni di quei momenti mi commuovo nell’entrare in contatto con l’impatto di quelle emozioni autentiche così vivide e travolgenti.

Non credo sia necessario sottolineare il fatto che in terapia ciò che viene analizzato di una foto, o di una immagine generica, non è l’aspetto stilistico e artistico quanto ciò che rappresenta per la persona stessa e i legami che essa stabilisce con il subconscio di questa; paradossalmente una foto “brutta” può essere scelta e acquisire significato proprio per questo motivo.

Concludendo, lavorare con le fotografie ha per me una duplice valenza: superare il velo delicato e sottile della narrazione, entrare in contatto diretto con la vita inconscia della persona e portare il legame terapeutico ad una intimità maggiore (o forse questa ne è la causa più che una conseguenza);costruire una tolleranza emotiva maggiore del solito (da parte del terapeuta), in quanto il contatto immediato con certi tipi di contenuti non schermati dalla narrazione necessita di una capacità di stare con se stessi, le proprie e le altrui emozioni più forte e reattiva del solito. Questo è il motivo per cui è uno strumento molto utile e al contempo molto delicato da utilizzare e padroneggiare.