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Da tempo il ruolo dell’architettura si è andato man mano restringendo verso direzioni considerate poco credibili se non, addirittura, superflue. Schiacciata dalla continua pressione economica, la categoria professionale degli architetti sta soffrendo un depauperamento del proprio ruolo in un contesto così ampio che va dal design di interni alla progettazione urbana a grande scala.

Perché sia accaduto questo non è chiaro. Si potrebbe pensare alla continua e silenziosa perdita di idee in chiave progettuale o anche all’estrema velocità del tempo di trasmissione dei dati che fa sì che un prodotto diventi obsoleto dopo soli due anni e che si vadano sempre ricercando isolati fenomeni spettacolari a discapito di un’architettura intesa come organizzazione umana, come capacità di fruizione da parte del cittadino, come dialogo, come supporto alle condizioni di vita e di lavoro dei singoli.

Il tema dell’ultima Biennale di Architettura 2018 è stato Freespace e, dalla visita dei Padiglioni, è emerso chiaramente che la tendenza dell’architettura oggi sia quella di concentrare l’attenzione sulla qualità dello spazio generato da opere costruite o non costruite, materiali o immateriali, tutte, comunque, rivolte a riconsiderare l’Oggetto costruito non più come una scatola chiusa bensì come uno sfondo che regola ed agisce sulla dimensione urbana in cui si inserisce. Basti pensare a City Life a Milano in cui gli “Oggetti” vanno al di là del progetto stesso che li ha generati e fanno da sfondo alla partecipazione attiva della comunità promuovendo l’incontro e definendo la forma del luogo in cui sono inseriti. Penso alle parole dell’architetto Gio Ponti che, nel suo libro Amate l’Architettura, parla dei grattacieli di Mies van der Rohe a Chicaco (che lui chiama “blocchi”) come dei “meravigliosi cristalli ad elementi ripetuti che possono essere sublime ingegneria. L’architettura è nella loro composizione che determina una figura finita, immodificabile”

Sembra fuori contesto in questo momento storico parlare di Freespace, di luoghi di incontro, di invito alla socializzazione, di immodificabilità della forma, di promozione dell’interconnessione tra le persone. In una certa misura lo è, e lo è in quella in cui forse è arrivato il momento di capire che noi professionisti dobbiamo rientrare nell’Oggetto e dobbiamo rioccuparci dell’Architettura con un approccio che “aderisca alla legge del mutamento e privilegi gli spazi interni” come ci insegna Bruno Zevi, dove un approccio inorganico e classicista che parte da schemi e volumetrie prefissate, lasci il posto a una visione dell’Architettura che “rispettando e potenziando l’individuo, stimoli il pluralismo”.

Perché, se da una parte è insindacabile che l’architettura si occupi di dare forma ai luoghi in cui viviamo, è altrettanto certo che sia essa stessa uno strumento sociale, un mezzo che si interpone tra l’agire privato e le relative conseguenze pubbliche e lo fa a cominciare dall’Oggetto stesso che, per primo, deve rispondere alle necessità del singolo e della collettività.  

RITROVARE IL PROPRIO RUOLO

Gli architetti, ma non solo, tutti i professionisti che hanno a che fare con la progettazione sono chiamati in questo momento storico di emergenza pandemica a ritrovare il proprio ruolo e a riflettere su quello che sta accadendo. Se c’è un aspetto fondamentale, in questa situazione di emergenza e di isolamento in cui il mondo intero versa in questi mesi, è quello di saper cogliere quanto ci si debba mettere in discussione e quanto si possa fare per dare al progetto la capacità di affrontare in maniera seria i problemi logistici a cui ci siamo trovati di fronte. In questo senso il ruolo dell’architettura ha modo di riacquistare il valore che ha sempre avuto e cioè quello di delineare e regolare il complesso rapporto tra l’idea e l’etica, tra la bellezza e la funzionalità, tra la forma e lo spazio, tra la struttura e la funzione. Leggo molti articoli riguardanti il lavoro dell’architetto ai tempi della quarantena ma, al di là di tutto, ricordiamoci che siamo inseriti in un mondo in cui la digitalizzazione ha mosso i suoi passi ormai più di venti anni fa e nel quale ci siamo piegati prima, e adattati dopo, nello sfruttamento massimo dei sistemi di aggiornamento. Io direi di cominciare a parlare di quello che sarà il lavoro dell’architetto post Covid-19, di quanto cambieranno le abitudini delle persone e di quanto sarà necessario leggere, in prospettiva, le odierne attuazioni che non solo tarderanno a scomparire, ma regoleranno le future interconnessioni sociali.  

Quello di cui parlo è ripensare alle diverse forma di socialità e di controllo della stessa, al rapporto che cambierà tra il pubblico e il privato, alla scoperta, ri-scoperta e ri-adattabilità degli spazi. Le dinamiche degli spazi comuni cambiano quando il contatto tra le persone è negato e la realtà a cui siamo sottoposti richiederà un ripensamento della rigenerazione dei luoghi sia sotto il profilo urbano sia sotto quello di fruizione dell’Oggetto. Partendo dalla condizione di isolamento, la prima casa, il luogo che per molti di noi ha avuto un ruolo di appoggio quasi fugace dopo intere giornate passate fuori al lavoro, in linea con questi anni di accelerazione ed estrema mobilità, assumerà una nuova attenzione in termini di vivibilità degli spazi che per molti diventeranno multiuso grazie allo sviluppo dello smart working. I servizi scolastici necessiteranno di nuovi investimenti per le infrastrutture digitali in modo da rendere possibile un adattamento in accessibilità. Molte delle strutture monofunzionali dovranno essere ripensate e riutilizzate in vista di un approccio alla funzione che sia mutevole e mutante. Le strutture ristorative, quali bar, ristoranti e tutte quelle di aggregazione sociale, lì dove la “shut-in-economy” (ossia l’economia al chiuso) non sarà sufficiente a garantire un volume di affari proporzionato ai costi di gestione del locale e del personale, vedranno una riprogettazione dello spazio pubblico pensato per un numero limitato di persone   e saranno regolate da norme igienico-sanitarie più restrittive che dovranno tenere conto di zone filtro tra quelle di servizio e quelle dei clienti. Il fermo della mobilità ci ha posto di fronte alla riappropriazione da parte della natura di luoghi che le erano stati negati dall’uomo; di contro, sta dimostrando che non è influente sul tasso di inquinamento che ancora si sta registrando nelle principali città, come Roma e Milano, e che a fare la differenza sono le temperature ancora basse che richiedono l’utilizzo degli impianti di riscaldamento. Non solo, consideriamo che gli stessi edifici rappresentano un potenziale elevatissimo nel raggiungimento degli obiettivi di contrasto al cambiamento climatico, è bene che una volta per tutte sia chiaro che l’architettura ha una grande responsabilità in merito e che è arrivato il momento che gli investimenti siano rivolti all’utilizzo di materiali e tecnologie adeguate al raggiungimento dell’abbattimento delle emissioni di CO2 .

L’architettura dovrà far fronte a tutte queste necessità, dovrà rivedere le priorità e ripensare alle soluzioni.

IL TEMA DELLA CITTÀ. UNA NUOVA GESTIONE DEI PROGETTI TERRITORIALI

Se da una parte è vero che viviamo in ambienti più ricchi di “dati aperti”, i cosiddetti data urban, frutto di una tendenza all’urbanizzazione sempre più diffusa nel mondo, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, come l’Africa e l’Asia, è altrettanto vero che “la città che dopo mezzo secolo di accuse e critiche era stata rivalutata come luogo primario della nostra evoluzione, sembra non essere più il contenitore adatto per la gestione strategica di progetti territoriali complessi” – dice Giacomo Biraghi, esperto internazionale di strategie urbane. La città andrà ripensata non solo sulla base delle visualizzazioni interattive, che rivelano come le metropoli si comportano e come le persone interagiscono con l’ambiente urbano in cui vivono, o del concetto di “Smart City”, incentrato sull’efficienza e le prestazioni ottimali legate ad essa, perché le azioni umane non sempre sono quantificabili e prevedibili; senza alcuna demonizzazione in merito, ritengo che nessuna tecnologia intelligente sia in grado di valutare gli effetti sociali della cultura e della politica, né valutare l’importanza dell’impegno civico ed etico delle persone, tantomeno in questo momento, in cui l’effetto sociale della pandemia cambierà in maniera importante il modo del vivere comune. Quello che si dovrà progettare nel potenziamento, invece, sono le aree esterne alle città, di cui molte, ad oggi, non dispongono neanche di una connessione Wi-Fi stabile.

La gestione dei progetti territoriali dovrà interessare soprattutto la mobilità, il monitoraggio e il ripristino di tutte le infrastrutture a supporto della stessa, magari studiata per appoggiarsi maggiormente alle fonti rinnovabili”- dice Stefano Boeri.
Le statistiche degli ultimi giorni dicono che nell’immediato post coronavirus, quando la quarantena sarà finita, non ci sarà una repentina ripresa delle attività legate al tempo libero e, dal punto di vista economico, questo sarà un problema per le imprese. Solo il 3% degli intervistati ritiene plausibile l’idea di viaggiare all’Estero a breve termine, se non costretti dal lavoro, e questo in prospettiva potrà essere letto come una possibilità di potenziamento della rete di collegamento tra le varie Regioni d’Italia, delle loro strutture ricettive, degli interventi integrati per la crescita e l’interconnessione tra esse. Dedichiamoci a ricostruire i territori, ripartiamo da lì.

LA PROGETTAZIONE DEGLI EDIFICI

Gli edifici sono responsabili del 36% di tutte le emissioni, del 40% di energia, del 50% di estrazione di materie prime nelle Ue, del 21% del consumo di acqua”, dichiara la GBC Green Building Council Italia nel cui Manifesto pone in evidenza il peso che il settore delle costruzioni ha nelle emissioni di CO2 . Dal momento che l’Europa è impegnata concretamente a rendere l’impatto ambientale pari a zero, è bene che il New Green Deal, il nuovo patto verde, sia il punto di partenza per fare in modo che gli obiettivi energetico-ambientali si integrino con quelli economici-sociali. In Italia abbiamo bisogno di monitorare le prestazioni degli edifici e di adottare un protocollo energetico ambientale che detti delle regole e che sia assolutamente alla base delle nuove progettazioni e del riutilizzo delle esistenti. L’architettura ha bisogno di potenziare la cultura dell’efficienza, della sostenibilità, della gestione circolare dei materiali, dei componenti, del cambiamento e delle trasformazioni climatiche.
L’architettura ha un ruolo sociale e sociologico e quando l’architettura crea l’Oggetto, disegna il luogo, dà un contributo all’ambiente e fa contemporaneamente qualcosa per le persone, allora l’architettura ha trovato la propria essenza, l’espressione evoluta per cui è nata, il proprio ruolo.

Racconta David Chipperfield, nuovo Guest Editor di Domus per l’anno 2020, dopo aver incontrato Renzo Piano nel suo studio a Parigi: “L’interesse per le prestazioni, la tecnologia e la costruzione non è fine a se stesso. Piano ha sempre considerato il ruolo sociale dell’architettura come sua ragione d’essere”.

Fare architettura significa costruire edifici che respirano, che non consumano troppa energia, anzi, che vivono in simbiosi con l’ambiente. Siamo di fronte ad una nuova frontiera espressiva del progetto. Fatta di leggerezza, trasparenza e sensibilità” – dice lo stesso Renzo Piano in un’intervista al Corriere della Sera.

RIENTRARE NELL’OGGETTO

Tanti sono gli edifici di cui si potrebbe parlare, ma visto il momento che stiamo vivendo, parto dal tema della sanità e nello specifico dal tema degli ospedali. In questi giorni sono state tante le persone a cui ho sentito dire che il problema più grande dell’emergenza sanitaria è costituita dagli enormi tagli alla sanità che il Governo ha fatto negli ultimi venti anni. È innegabile che sia così ma non credo che sia questo il problema del collasso delle strutture sanitarie. Nessuno poteva prevedere una pandemia del genere e nessun Paese sarà in grado di gestire dei numeri così alti con le sole forze che hanno regolato, fino ad oggi, le dinamiche quotidiane in fase di “normalità”. Quello che può cambiare, invece, in assenza di un numero elevato di terapie intensive, è la riorganizzazione interna dello spazio ospedaliero in cui le sale possano assurgere a diversi tipi di trattamento in base alle necessità.

Converto in idee progettuali un’interessante intervista che Mario Cucinella ha rilasciato al Sole 24ore: gli spazi delle sale operatorie devono rispondere al cambiamento di utilizzo così da essere agevolmente spostate, così come gli spazi delle sale delle degenze, in modo da potersi adattare facilmente alla necessità del cambiamento delle cure in fase di emergenza; la flessibilità nella riconversione dei reparti è fondamentale per la gestione da parte del personale sanitario e di conseguenza per la gestione ottimale del paziente; quando un Pronto Soccorso si sviluppa tutto su un piano, al piano terra, chi entra è accolto in base alla gravità della situazione e trova subito cura perché l’intero piano è dotato delle svariate specialità di emergenza, si rende il lavoro di gestione più fluido e si fa un dono del “tempo” al paziente, che a volte si traduce in secondi e non in minuti o ore; le entrate e le uscite devono avere percorsi separati in modo da non far entrare in contatto le persone malate con quelle sane, questo riduce di gran lunga le possibilità di contagio.

Questi sono solo alcuni degli aspetti che un progettista deve prendere in considerazione e forse rientrano anche in quelli più banali ma quello a cui voglio arrivare è che, ancora una volta, ci troviamo di fronte al concetto che quando l’architettura crea l’Oggetto o ne ridisegna il contenuto agendo  contemporaneamente anche sulla fruizione da parte delle persone, allora l’architettura ha trovato la propria essenza, l’espressione evoluta per cui è nata, il proprio ruolo.

Una buona progettazione può favorire la gestione delle grandi emergenze? La risposta è sì.
La flessibilità è una questione morale, non un solo un fatto tecnico”. R.P.


In Copertina Visiera protettiva ©Aaron Hargreaves / Foster + Partners
Anche il mondo dell’architettura e del design si mobilita per fronteggiare la pandemia da coronavirus.
Numerosi studi di progettazione si sono infatti improvvisamente trasformati in centri di produzione per la realizzazione di visiere protettive e mascherine dimostrando che l’arma vincente in questa situazione di emergenza che non vede confini geografici, è il potere della collaborazione e della condivisione per cui talvolta il sapere e la tecnica di un singolo diventano strumento di ulteriore approfondimento per molti. È il caso di due big dell’architettura come lo studio BIG di Bjarke Ingelse lo studio Foster+Partners fondato da Sir. Norman Foster, che hanno studiato dei prototipi di visiere protettive per poi decidere di divulgare schemi e modelli sul web per chiunque, da ogni parte del mondo, avesse mezzi o creatività per reiterarli partecipando a questa grande realizzazione collettiva

Fonte: Archiportale articolo del 10/04/2020


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