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Giovedì 19

La sveglia suona alle cinque e un quarto. Io odio il momento del risveglio, anche quando sono le otto e a richiamarmi è una carezza di Massimo. Oggi invece sono le cinque e un quarto del mattino, fuori è ancora buio, c’è l’aria fresca, e Massimo è già partito da un paio di giorni. Mi alzo e mi preparo, cercando di muovermi rapidamente, di essere veloce. Alla fine, arrivo in stazione, e arrivo in tempo: prendo il treno delle sei e zero sette. Il viaggio per Milano è lungo, non tanto per la distanza quanto per i due cambi di treno che mi aspettano lungo la strada. Mentre viaggio, guardo le persone che sono con me: studenti, o anche persone che per lavoro frequentano abitualmente proprio questi treni del mattino che io invece non prendo mai. Osservo anche il paesaggio: guardo la campagna settentrionale, a cui non mi sono ancora abituata, che si risveglia pian piano. Durante il tragitto, mi dedico anche alla lettura del quotidiano: seguo a distanza ciò che succede a Massimo, così come, da quando è partito, guardo in televisione ogni telegiornale, ogni speciale, ogni inchiesta. Lui è già a Genova, ma lì ancora tutto deve iniziare: i giornali riportano solo i dibattiti e le tensioni del pre-G8. A Milano arrivo verso le dieci e mezza del mattino: arrivo all’appuntamento con il dottor Minuto, dove i miei clienti, della Turismo&Viaggi di Roma, arrivano in netto ritardo, un’ora abbondante dopo di me. Mi sento ancora un po’ impacciata, in questi abiti da consulente. Oggi però va sicuramente meglio della settimana scorsa: mi sembra che il mio ruolo sia maggiormente riconosciuto, percepisco la stima del dott. Minuto, e poi ritrovo con i romani il clima di solidarietà quasi cameratesca che si era già creato in passato. Mi diverte sentirli parlare – io che a Roma ci ho vissuto per tanti anni senza esserci nata – mi diverte sentire l’accento della loro voce, ma anche il modo in cui si esprimono, così familiare alle mie orecchie. Pranzo con loro, poi pomeriggio ancora in riunione. Quando capisco che ormai il lavoro è finito, verso le cinque e mezzo, cerco di andar via più in fretta possibile: so che gli orari dei treni sono scomodissimi, e cerco di prendere il primo treno per Torino. Come le altre volte, invece, lo perdo: una breve attesa ancora in stazione a Milano, sapendo che questo vorrà dire passare un’ora intera a Torino ad aspettare la coincidenza e arrivare a casa alle undici di sera. Salgo sul treno un po’ demoralizzata, e provo a chiamare Roma dal cellulare. Il mio telefono è scarico, la linea cade continuamente. La voce di mamma è tesissima, brutta come poche altre volte. Cerco di capire come stiano andando davvero le cose, lì in ospedale, e mi sento impotente e stupida, a tormentarla con domande ingenue. La linea cade e la richiamo, più volte. Tra un’interruzione e l’altra, riesco a capire che oggi papà sta decisamente molto male, che la preoccupazione comincia a prevalere su tutto. Alla fine, il telefono si spegne definitivamente. Parto da Milano in lacrime, decidendo che andrò a Roma al più presto. Appena arrivo a Torino, compro una carta telefonica e mi attacco ad un telefono pubblico per richiamarla. Lei mi spiega meglio, e mi dice che le cose non vanno bene e che sì, forse posso andare a Roma, se voglio essere sicura di salutare papà. Mi dice anche che nell’incertezza che ha caratterizzato i medici sin dall’inizio del ricovero di papà, una delle mille ipotesi che si sono fatte è che si possa trattare di tubercolosi. Lo devo tener presente, mi dice mamma, se voglio andare a Roma. Devo informarmi e capire se rischio qualcosa, e soprattutto se può rischiare qualcosa il bimbo che cresce dentro di me. Dal telefono della stazione, cerco anche Massimo. Cerco di condividere con lui il peso d’angoscia che mi sento addosso, l’impotenza, l’incertezza – vado o non vado a Roma? Concordiamo un po’ di persone da sentire l’indomani per un consiglio. Non mi racconta molto, di Genova: lì c’è stato il primo corteo, tutto tranquillo, e le cose per lui procedono bene, in modo interessante.

Venerdì 20.

La mattina la passo a casa. Comincio a chiamare tutte le persone che ci sono venute in mente parlando con Massimo ieri sera. La metà non riesco a trovarla, in cambio il mio medico della mutua, uno dei pochi che riesco a contattare, esprime molte riserve sull’opportunità di andare. Mi sento sempre più confusa, persa tra il desiderio di andare e la paura di farlo. Accendo la televisione per il rituale appuntamento con il telegiornale: le immagini di Genova che si vedono parlano di scontri, di attacchi della polizia, di disordini. Un senso di paura irrazionale mi investe, e si somma istantaneamente all’incertezza, all’angoscia, all’ansia che già sentivo. Proprio in quel momento mi chiama Maria Luisa, mia suocera. Mi sfogo con lei, che mi tranquillizza; ci confortiamo a vicenda al pensiero di Massimo proprio nel centro della bufera. Riprendo i miei consulti telefonici: alla fine riesco a parlare con uno zio medico che mi rassicura, minimizzando i rischi di contagio per me e per il bimbo, ma che al tempo stesso mi incita a partire perché lui papà l’ha visto, e non crede che sia opportuno aspettare, se lo voglio vedere. Ho deciso: parto. Cerco di nuovo di sgomberare la mente da tutto e vado ad un appuntamento di lavoro. Mentre sono lì mi chiama Maria, dell’ufficio di Massimo: mentre era a Genova ha perso il cellulare, le comunicazioni da adesso diventano molto più difficoltose. Rientro a casa, accendo la televisione a caccia di un telegiornale pomeridiano. Il tiggì c’è, ma è un’edizione speciale. A Genova c’è stato un morto, il primo morto del movimento antiglobalizzazione. Guardo con uno sgomento assoluto le immagini di guerra che il telegiornale propone. Non sono una persona apprensiva, ma sento l’ansia mozzarmi il respiro. Accarezzo il bimbo, dentro la pancia da quattro mesi: cerco di tranquillizzare lui, per tranquillizzare me. Alla fine, esco. Vado a salutare Silvia in ospedale – è appena nata, ed è figlia di amici – poi passo nell’ufficio di Massimo a ritirare delle cose che devo portare a Roma per lui, e in stazione a farmi il biglietto. Partirò stasera. Mentre sono fuori mi chiama Massimo: mi racconta di essersi trovato a Piazza Manin, oggi pomeriggio, e di essere andato via subito prima che cominciasse la carica della polizia. Il cellulare l’ha perso mentre scappava da lì. La valigia la preparo in venti minuti, in uno stato di confusione che non credo di aver mai vissuto. Riesco infatti a lasciare a casa quasi tutte le cose indispensabili che si mettono di solito in un bagaglio. In cambio metto magliette e camicie rosse – nonostante tutto non sto pensando affatto a funerali. Il treno lo prendo per un pelo, e appena salita cerco il mio cellulare per una telefonata. Non c’è: l’ho lasciato a casa oppure l’ho perso per strada; in ogni caso, non è con me.

Sabato 21.

Arrivo a Roma con più di tre ore di ritardo: per il G8 hanno deviato le linee ferroviarie di tutto il centro nord, e il sistema è andato completamente in tilt. Vado a casa con i mezzi, in autobus mi leggo il giornale: si parla di Carlo Giuliani, il morto di Genova, e degli scontri del giorno precedente. A casa trovo Francesco e Valeria. Senza papà e mamma, questa casa è davvero troppo vuota. Ci abbiamo vissuto in sette, adesso Valeria e Francesco si muovono da soli in stanze immerse nel silenzio. Pranzo con loro, e poi con Francesco vado al Gemelli, a trovare papà e mamma. Papà è semi-incosciente. Dischiude appena gli occhi, sembra vedermi, e dice: Guarda chi c’è. Mia madre festeggia la frase e la sottolinea: Ti ha riconosciuto, hai visto?, ti ha salutato. Io penso che un mese fa non si festeggiava il fatto che riconoscesse e salutasse sua figlia, lo si dava per scontato, era normale. Le cose sono cambiate poco alla volta, ma velocemente. Penso che mi dovevano avvisare, che era in queste condizioni, poi mi dico che probabilmente c’è scivolato dentro senza che loro potessero rimarcare di giorno in giorno grandi cambiamenti, nulla da poter raccontare da lontano, per telefono. Lo saluto e mi siedo sul divano, mi tengo comunque a distanza, visti i dubbi che ci sono. Papà si rianima di nuovo, e alla mamma chiede: Ma non è qui per parlare di lavoro, vero? Io non ho mai lavorato con mio padre, e lui è in pensione da più di dieci anni. Non so più nemmeno se era vero, che mi aveva riconosciuto. Mi sforzo di mantenermi serena, parlo con mamma. Nonostante tutto, lei riesce anche a far festa alla mia pancia, appena visibile. Papà riapre ancora un po’ gli occhi: Dov’è Valentina? La mamma gli risponde: È qui, Paolo, non se ne è andata. Allora forse sa che ero io. Sento il bisogno di piangere, di sfogare l’angoscia che mi dà vederlo così. La mamma mi viene incontro, in bagno. Papà non c’è già più, le dico. È già andato via. In ospedale rimango tutto il pomeriggio, fino a sera. Prima con Francesco, poi con Valeria. Nel frattempo, non ho alcun modo per parlare con Massimo: io sono senza cellulare, e lui ha perso il suo a Genova e non sa che anche io non sono rintracciabile. Cerco tutti i modi per comunicare con lui: lascio messaggi destinati a lui a casa dei suoi, provo a chiamare a Genova nel posto in cui dorme, tento altri contatti indiretti, tutto senza risultato. In ospedale, mi affaccio alle otto nella sala comune: il TG1 mostra ancora scontri, teste insanguinate, macchine in fiamme, vandali incappucciati. Sono le prime immagini che vedo in tutta la giornata: dopo l’overdose di informazione, adesso sono in completo blackout. Di sera, riesco a parlare con la mamma di Massimo. Lei mi dice di avergli parlato, che sta bene, che è tutto a posto. Mi sento già meglio. Le chiedo anche di avvisarlo del fatto che sono senza cellulare, e di chiamare dai miei, per contattarmi.

Domenica 22.

Di mattina, vado a Messa in parrocchia. Valeria viene con me, a differenza del solito. Dopo, passo a salutare i nostri amici e inquilini Lucia e Paolo, e rimango a pranzo con loro: mi fa un po’ effetto vederli nella nostra casetta, ma al tempo stesso mi fa piacere che ci sia qualcuno dentro, e che non sia un estraneo. Mentre sono lì, chiama Massimo: la telefonata è rapidissima, ma intanto gli parlo, ed è da più di ventiquattro ore che non riuscivo a farlo. Mi chiede di papà, gli chiedo di Genova. Di pomeriggio, sono di nuovo in ospedale. Io vado con Valeria e Francesco e lì c’è anche Silvia; Maria Letizia nel frattempo è fuori Roma, chiama spesso, riconosco l’ansia di chi segue da lontano le cose. Papà sta decisamente peggio di ieri: si lamenta spesso, o almeno emette dei suoni che sembrano lamenti. Poi dice anche delle cose, che spesso non riusciamo a capire. Forse non sono farneticazioni, forse ci sta parlando, però non riesce ad articolare le parole, così come non riesce a deglutire, a ingoiare le medicine, a muoversi da solo nel letto. Il pensiero che lui stia cercando di parlarci mentre noi non riusciamo a capire ci fa sentire impotenti. La mamma è molto scoraggiata, medici e infermieri oggi si sono espressi in modo del tutto disperato. Restiamo lì tutto il pomeriggio, fino a sera. Vado via alle nove di sera, e saluto mamma che mi dice: Non pensavo che sarebbe arrivato fino a stasera. Percorrendo i corridoi dell’ospedale, verso l’uscita, sento dei dolori alla pancia. Mi tengo il bimbo, e gli dico: Non preoccuparti, stai tranquillo, andrà tutto bene. Per la serata, il programma è di andare con un po’ di amici a vedere Francesco che suona in concerto. Arriviamo in piazza Santa Maria in Trastevere in ritardo, e il colpo d’occhio è fenomenale: la piazza è piena, c’è tantissima gente, persone di tutti i tipi che cantano e ballano ascoltando Franz e i suoi amici. Non posso fare a meno di pensare alle sue prime esibizioni, con un pubblico ristrettissimo fatto di amici e fratelli e fidanzate. Penso anche a papà, a come ne era fiero, nonostante le perplessità iniziali, a come seguiva la sua attività, i suoi concerti. Papà ne sarebbe contento – penso allargando lo sguardo nella piazza. Mi commuove, stasera, questa folla. Non c’è dubbio, sono diventati bravi. La musica è bella e trascinante, e in tanti si sono messi a ballare. Per finire, suonano Everybody needs somebody to love. È una canzone che papà aveva ben presente: ne storpiava il titolo, per prenderci in giro. È il colpo finale: anziché alzarmi e mettermi a ballare anch’io, mi metto a piangere piano, cercando di nascondere le mie lacrime. Torno a casa tardi, e prima di andare a dormire sento rientrare anche Francesco. Gli vado incontro per dirgli quanto mi sia piaciuto il concerto. Restiamo a parlare a lungo, delle cose più disparate. Parliamo anche di papà, perché io gli faccio un po’ di domande. In ogni caso, è nel fondo di ogni discorso, ed è nel modo stesso in cui ci siamo fermati a parlare stanotte, nel modo in cui cerchiamo di tenerci vicini. È molto tardi, quando vado a letto. Ma non rinuncio alla lettura del giornale che ho preso e non ho ancora letto; scopro così, alle tre di notte, quello che è successo la notte prima a Genova: l’incursione notturna nella scuola-dormitorio, le botte, i feriti, le polemiche. Lunedì 23. Mi sveglia Valeria, alle sette e venti del mattino. Ha appena chiamato mamma, mi dice, papà non c’è più. Il mio primo pensiero è: Sono venuta a Roma in tempo, l’ho visto. Poi mi alzo, stordita. Andiamo a svegliare Francesco, poi chiamo Massimo, che nel frattempo da Genova è arrivato a Pisa. Come omaggio, faccio un giro per casa: la camera da letto di papà e mamma, il soggiorno, la sua poltrona, i suoi occhiali, i suoi cruciverba. La casa è piena di papà.

(21 ottobre 2001)