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    Era in piedi, le spalle alla parete, al riparo. Guardò oltre la finestra: lo scirocco soffiava sulla campagna, i muretti a secco, le masserie, i filari di vite; tutto si confondeva in un’aurea da miraggio. Al centro del cortile vide una macchina ferma sotto l’ombra del grande ulivo e si confortò: ormai un cordone di sicurezza circondava l’agriturismo: non erano più in pericolo.

     «Mi stordisce questo posto, comandante Lupo» lei disse «dopo quello che abbiamo passato».

    Alle spalle di Lupo il condizionatore combatteva monocorde la battaglia contro la calura. Nella stanza un tavolo, due sedie, un fornello su cui gorgogliava una moka, due tazze di porcellana; anche se la fuga era finita i suoi sensi, però, rimanevano vigili: avvertì espandersi l’odore del caffè e sul filo di quell’aroma, i ricordi del loro recente passato si ripresentarono non invitati.

    E fu di nuovo a Tel Aviv, al tavolino di un bar, ad aspettare.

    Il suo mestiere era fatto d’attese e paura: dell’attesa di un segnale che confermasse la riuscita di un’operazione; della paura per la propria vita, per quella degli altri; per la missione sempre sul punto di abortire. Ma poi eccola arrivare; sedere, senza guardarlo, a un altro tavolo, giocare con gli occhiali da sole, ordinare un caffè e scacciare, con la sua presenza, ansia e tensione. 

    In Lupo la certezza di portare avanti l’operazione e il sollievo di rivederla si sovrapponevano. Perché, anche se disciplina e mestiere gli impedivano di ammetterlo, lei era diventata importante quanto la riuscita della missione. E adesso era lì, a tre metri; al collo i grani di una collana di corallo. Un codice: confermava l’invio, nell’ufficio import-export usato dal Servizio come base operativa, di un pony express. Chi nota un fattorino nell’atrio di un grattacielo commerciale? Avrebbe consegnato una busta con dentro un foglio fitto di numeri e conti bancari. Un altro tassello al tradimento di lei.

    Lupo avrebbe voluto parlarle, rassicurarla e rassicurarsi, ma erano in pubblico, costretti dalla copertura. Per tutti lui era un organizzatore culturale e lei la frequentatrice, poco assidua, di conferenze e mostre: tra loro doveva apparire soltanto una cordialità distaccata e formale. Lei, perfetta nella parte, gli dedicò un sorriso accennato e un saluto col capo. Poi si alzò passandogli vicino. Lo sguardo di Lupo la seguì fino alla Mercedes, guidata da un arabo robusto, con cui andò via.

    Come sempre si scoprì turbato da lei e desiderò smettesse il doppio gioco, sempre più pericoloso, e si salvasse. Era stata per Lupo, fino ad un anno prima, soltanto una figura sullo sfondo della caccia a Saled Katami, il padre/padrone di un’organizzazione travestita da austera finanziaria internazionale, ma sempre pronta a sostenere con uomini e mezzi il terrorismo internazionale. Un’appariscente bellezza dai capelli ramati e dal corpo florido; arrivava alle mostre, con l’aria barocca delle donne mediorientali laiche e abbienti quando indossano abiti occidentali, scortata a distanza dall’autista arabo. Tutti la accoglievano e la corteggiavano, perché era il giocattolo personale di Katami. 

     A Lupo appariva lontana dal quel mondo e mai avrebbe pensato potesse rivelarsi l’anello debole della catena. Invece un giorno era arrivata in Istituto, col pretesto di iscriversi a un corso di cucina e gli aveva consegnato un foglietto.   

     «Ho copiato questi numeri dal pc di Saled. Non so. Forse possono esserti utili» gli aveva detto; a Lupo erano bastati pochi secondi per rendersi conto: quel foglietto manoscritto con numeri satellitari, e-mail e nomi di società, era la prima crepa alle difese di Katami. Aspettava quel momento da anni, ma non aveva avvertito nessun senso di trionfo, si era sorpreso, anzi, a fare i conti con la paura per il coinvolgimento di lei. Per arginare la deriva dei pensieri si era rifugiato nell’ortodossia del mestiere. Brusco aveva intascato il biglietto, sforzandosi di non pensare. Si era limitato a guardare le rughe d’espressione ai lati degli occhi di lei e a pensare che mai si sarebbe perdonato, se le fosse capitato qualcosa.

     Lei ne aveva retto lo sguardo e indicato un poster promozionale.

     «Ho imparato la lingua dalle suore. Sono cresciuta in istituto, sai. Ora voglio vederlo di persona il tuo paese» aveva detto, Facendo tintinnare i braccialetti al polso.

    «Ci andrai, quando sarà finita. È un impegno».

    Per mesi le sue informazioni avevano dato lavoro agli analisti e guidato l’azione del Servizio. Almeno fino a quando Lupo non l’aveva vista, sulla terrazza di un locale sul Mediterraneo, pallida in viso, portare a tracolla una borsa gialla. Un segnale concordato di pericolo. Mi sospettano e ho paura, diceva quel codice. Lupo aveva avvertito lo stomaco accartocciarsi e compreso: l’unica soluzione era la fuga. Via da Tel Aviv. Verso casa.

    In poche ore – secoli al suo senso d’urgenza – la finestra di fuga venne ristudiata, ricontrollata, attivata.

     La mattina dopo Lupo fu di fronte una palazzina grigia, pregando perché quel giorno lei rispettasse il consueto appuntamento dal parrucchiere. Quando l’aveva vista scendere dalla Mercedes seguita dall’autista e da un altro giannizzero aveva dato il via agli uomini, con rabbia e sollievo. Nel ricordo l’azione gli sembrava essersi svolta come al rallentatore, sovrastata dal battito anomalo del suo cuore; per entrare nel negozio occorreva attraversare un atrio: avevano agito lì e sorpreso i due mastini. Lui stesso aveva colpito, con un calzino pieno di monete, l’autista alla nuca, sferrandogli poi un calcio ai testicoli.

    Era salita sulla loro macchina muta, pallida e stupita. Lui le si era seduto accanto.

    «Hai paura?» le aveva chiesto, mentre le palme del lungomare scorrevano dal finestrino. Lei aveva intrecciato le dita delle mani, s’era addossata allo schienale, socchiuso gli occhi e ispirato forte, senza rispondergli.

        Insieme l’agente e la sua fonte, nascosti nella stiva di una petroliera Eni, avevano raggiunto Malta. Da lì, con un catamarano di linea, Pozzallo, mischiati alla torma dei frequentatori del casinò.

A Ibla, di fronte al duomo di San Giorgio, come due escursionisti qualunque tra gente qualunque. Seguendo una procedura mandata a memoria da sempre, Lupo era entrato nell’ufficio turistico della piazza e chiesto informazioni su un particolare arredo del castello di Donnafugata. Gli avevano consegnarono una busta; all’interno vi aveva trovato il cartoncino pubblicitario di un agriturismo, la casa sicura scelta per loro, e le chiavi di una macchina. Doveva portarla là e ricominciare ad attendere, come sempre aveva fatto in tutta la sua vita di spia. Succube di un riflesso pavloviano aveva percorso il basolato al braccio di lei e raggiunto un’utilitaria posteggiata appena oltre la zona pedonale.

    In macchina, assecondando i tornanti della collina, tra camion e station wagon di gitanti, non avevano parlato; assorbiti ciascuno dal sollievo che sembrava spingere avanti la vecchia Uno.

 Lo sfrigolio della moka allontanò quei ricordi. Il caffè era pronto. Lo versò nelle tazze. Lei era in piedi e lo guardava intensa.

    «Perché stai così lontano da me?» chiese.

    «Per non spaventarti».

    «Sei sempre così premuroso?»

    «È una regola: mai turbare una fonte».

    Lei prese la tazza, vi soffiò sopra. Lupo rivisse nella memoria tutte le volte in cui, durante gli appostamenti, l’aveva vista compiere quel gesto: nei night o seduta ai tavolini di un caffè. Con lo sguardo di chi non vuole essere carina lei bevve un lungo sorso e lui non poté trattenersi dal guardarle le labbra: una stilla di caffè si distribuiva a delta tra i solchi che le percorrevano quando assumeva quell’espressione dura.

    S’era cambiata d’abito e Lupo scoprì di avere di nuovo di fronte la donna di sempre e non più, come durante la fuga, il suo clone infagottato. 

     La fissò come fosse la prima volta: la giacca del tailleur le conteneva con difficoltà le forme, affondò lo sguardo nel solco dei suoi seni e avvertì un desiderio d’intimità e tenerezza, ma era in azione e non poteva permettersi fantasie. Arginò la carica del testosterone e si costrinse a guardare altrove.

    «Sono abituata a questi sguardi e a quello che viene dopo» lei disse.

     Lo sguardo di Lupo si posò sulla forma delle labbra di lei stampate dal rossetto sul bordo della tazzina. ‘Non sei più quella che ho sorvegliato per tante notti’ pensò ‘non è indelebile il tuo rossetto. Non avresti usato cosmetici di cattiva qualità prima’.

    «Perché hai scelto noi per tradire Katami?» le chiese d’istinto. Teneva la tazza di caffè tra le mani e il tepore lo confortava.

     «Sei stato tu» lei rispose sparandogli addosso gli occhi nero vino «vivevo con Saled e non m’importava da dove venisse il suo denaro. Poi sei arrivato tu e ho cominciato a chiedermi se fosse giusto continuare a non vedere. Ho seguito te».

    «Hai tradito Katami perché avevi già deciso a farlo» Lupo rispose d’impulso, maledicendo ancora una volta se stesso: mai disilludere una fonte. Ma con lei in quella stanza, scopriva di non essere più in grado di difendersi.

    «Mi confondi, comandante Lupo» lei riprese, come se comprendesse i pensieri di lui «mi parli e m’innamoro di te. Poi segui i tuoi pensieri e diventi un’altra persona e anche di questa m’innamoro. Ma tu non smetti e cambi di nuovo. Sei così con tutte le tue donne?»

    «Tu non sei una delle mie donne, signorina Schiraz».

    «Perché mi hai portata qui allora, perché mi hai salvato la vita?»

    «Perché i Servizi di mezzo mondo vogliono usare le tue informazioni contro Kaled, perché Forza 17 vuole ucciderti, il Mossad interrogarti prima che questo accada e  anche noi vogliamo la nostra parte e perché questo non è un gioco tra gentiluomini. Vuoi altri perché?»

    Lupo finì il caffè. Ne avvertì il gusto amaro precipitargli in gola e per un attimo s’illuse di avere ristabilito i ruoli: lui il controllore, lei la fonte da proteggere e sfruttare. Solo questo, niente di più. 

    «Cosa c’entra questo con noi due» Schiraz gli rispose, scrollò le spalle, proseguì:

«Ho avuto paura quando Saled mi ha scoperta e quando mi avete portato via. Ma adesso è finita. Sono stata povera. Non sai le violenze ho sopportate per uscirne. Non erano gentiluomini neanche quelli con cui andavo a letto. Ho sopportato e sono sopravvissuta. Ci riuscirò anche questa volta» disse con decisione.

    Lupo guardò dentro la tazza: alcune linee marrone, simili a lacrime, convergevano verso il fondo mischiandosi tra loro.

     ‘Come nella vita’ pensò ‘ciascuno per la sua strada ma tutti attratti da uno stesso centro di gravità’. E forse quella stanza era il loro.

    Fu sul punto di chiederglielo, ma Schiraz lo prevenne: «La mia vita è cambiata e da adesso voglio essere io a scegliere».

   Poi gli s’avvicinò e Lupo scoprì di volere attraversare la distanza tra loro, qualunque fosse. Si abbracciarono e in quel gesto, transitò tutta la loro vita passata, le paure, le ansie e i sentimenti che li avevano condotti tra quelle mura. Ma nessuno dei due, per quanto lo desiderasse, riuscì a liberarsi della soma trascinata fin lì.

    «È stata una cosa da fidanzati» le disse nella penombra.

    «È stata solo la passione tra due adulti. Non ha senso una storia tra noi» Shiraz disse.

    L’agente dentro di lui non poté darle torto. Non aveva parole. Quanto accaduto tra loro era soltanto un altro conto pagato alla vita: l’intersecarsi di due esistenze subito allontanate. La guardò negli occhi in silenzio.

     Poi gli squilli del telefono interno, annunciarono l’arrivo degli inquisitori.

        Erano in tre, guidati da una donna: giovane e sottile, non un filo di trucco. Indossava un pantalone minimal chic, da kapò; parlò per tutti: da quel momento, sottolineò, la testimone – così chiamo Schiraz – era sotto la loro tutela. Lupo comprese di essere  superfluo: l’operazione passava ai ‘regolari’. Gli era sempre stato difficile sopportarli, ma anche loro non sbavavano per gli ‘amici’. Interessi di bottega nel naturale ordine delle cose. Non dissimulò un ghigno di disgusto.

    Schiraz li guardava tutti come se nulla potesse più importale.

    «Sarai sola da adesso. Bada a te» Lupo le disse

    «Saprò guardarmi» lei gli sorrise.

    «Ne sono certo, signorina Schiraz» Lupo rispose e uscì; continenti interi ormai li separavano.

    Guidò nell’afa verso le luci di Modica.

     Doveva ancora officiare l’ultima liturgia della missione: il rapporto a Ulisse.  

    Camminò a piedi lungo la strada principale, a metà del viale giunse al portone di un edificio appena restaurato, all’altezza del suo sguardo la targa d’ottone di un ristorante; all’interno non più di sei tavoli imbanditi, su ciascuno una candela accesa.

    Ulisse era a un tavolo d’angolo. Gli sedette di fronte.

    «Ho ordinato per due» disse a Lupo e poi, come a concludere un discorso pensato tra sé: «È stato un buon lavoro».  

     Servirono una mousse decorata da chicchi caffè tostati, a Lupo ricordarono i capezzoli di Schiraz.

    «Voglio continuare ad occuparmene» disse, mentre Ulisse penetrava la gelatina col cucchiaio.

    Ulisse strinse le labbra, le arricciò, scosse il capo.

    «Sei troppo coinvolto» disse.

    «Lascerò il Servizio, altrimenti».

    «Puoi farlo, ma non la riavrai per questo. Incastrerà Katami e noi la nasconderemo. Sono le regole. Dovrai accettarle».

    «Andrò via lo stesso. Sono troppo stanco».

    «Hai solo bisogno di tempo».

    La parte razionale di lui, condivideva le ragioni di Ulisse: se avesse lasciato, col tempo avrebbe cominciato a odiare Schiraz: il loro era stato soltanto l’incontro casuale di due parallele.

    Lupo avrebbe voluto urlare, rovesciare il tavolo in terra, ma: «Non sarà una cosa breve, lo capisci» si limitò a dire.

    «Abbiamo tutto il tempo del mondo» Ulisse gli rispose, pagò il conto, andò via.

    Lupo si preparò a passare la notte in città. Il Servizio gli aveva prenotato un albergo affacciato sui vicoli.  Dette al portiere documenti falsi e un nome d’arte. Una prassi di sicurezza ripetuta da sempre in automatico, ma questa volta nel farlo avvertì una solitudine indicibile.

     Una volta in camera, uscì sul balcone a fumare. La brace della sigaretta tremava davanti ai suoi occhi. Non riuscì a resistere e fu di nuovo sulla strada.

    Camminò a testa bassa per il corso, attratto dall’insegna luminosa dell’unico bar ancora aperto. All’interno pochi avventori silenziosi. Nessuno si meravigliò del suo ingresso, né lo guardò con curiosità: l’ora tarda e l’aria pesta facevano di lui un membro d’elezione del club. Un giovane biondo reggeva in mano un bicchiere con all’interno un liquore rubino. Scuoteva la testa, sussurrava a se stesso. Lupo, senza capire perché, gli si sentì sodale.

‘Non c’è età per perdere la partita della vita’ pensò. Accese una sigaretta, ne seguì con lo sguardo il consumarsi. Tutto era immobile. Acquistò il giornale locale da un extracomunitario. Lo spiegò sul tavolo: la crisi economica avanzava, ma il governo annunciava provvedimenti; una nuova sopraelevata avrebbe decongestionato il traffico in città. La banalità di quelle informazioni lo sconvolse e comprese come il mondo andasse avanti lo stesso, indifferente alle disperazioni di ognuno. Vide su una pagina interna del giornale, di spalla a molte colonne, la foto in bianco e nero di una donna. Non ebbe bisogno della didascalia per riconoscere la donna a cui aveva consegnato Schiraz. A lei, magistrato in trincea si dovevano, raccontava l’articolo, gli arresti di alcuni esponenti mafiosi. Da domani sfruttando le informazioni di Schiraz, sarebbe diventata un eroe, pensò. Ma tutto questo aveva una vita autonoma, ormai. Non serviva combattere: le cose andavano avanti lo stesso.

    Guardò il ragazzo biondo a pochi passi da lui: aveva le lacrime agli occhi e lui, in quelle lacrime, misurò tutta la propria impotenza. Avrebbe voluto andargli vicino, consolarlo per la sua pena, qualunque fosse. Ma ormai sapeva: non ci sarebbe riuscito. Tutto sarebbe andato come doveva e quel dolore era inutile.

    Rimase seduto e ordinò un espresso, lo condì con molto zucchero: l’unica dolcezza che poteva permettersi ormai.