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«Molti degli operatori culturali attivi in strada a partire dai primi 2000 hanno modificato la percezione, l’occupazione e la condivisione di ciò che fino a quel momento veniva considerato lo spazio pubblico. La fisionomia della città, e alcune sue parti divenute “celebri” proprio per gli interventi di autori come Blu, si è modificata in virtù di quelle improvvise e impreviste presenze, spesso pittoriche, che hanno reso la città stessa per alcuni aspetti anche più “preziosa”» (Fabiola Naldi, Tracce di Blu, Postmedia books, 2020)

«Siamo stati denunciati mentre aiutavamo Blu a cancellare le sue opere. E con questa ci conquistiamo la denuncia più stravagante e imbecille dell’anno» (Laboratorio Crash, Bologna, marzo 2016).

«Da un lato volete sgomberarci, dall’altro volete rinchiuderci in una teca» (Centro sociale XM24, Bologna, luglio 2019)

Prendendo atto di come le periferie delle città si stiano da qualche tempo riempiendo di murales, Lorenzo Misuraca, in un suo scritto pubblicato su “Il lavoro culturale” nel 20151, si chiede se, al di là degli aspetti positivi, in tale proliferazione non vi sia anche qualcosa di negativo.

Rispetto ai graffiti comparsi sui muri delle città italiane negli anni Ottanta e Novanta, questa più recente ondata di murales, sostiene Misuraca, non pare rappresentare «l’autoaffermazione estetica» di una specifica «comunità underground». Inoltre, rispetto alle precedenti, le ultime produzioni sembrano incontrare un consenso più diffuso.

Che siano nati spontaneamente dal basso o commissionati a livello più o meno istituzionale, i murales delle periferie sembrano svolgere una funzione di riqualificazione urbanistica e culturale e, continua l’autore, il loro linguaggio di strada per la strada rappresenta un ottimo strumento per veicolare la rinascita di aree urbane periferiche e per rafforzare l’auto-percezione positiva che il quartiere ha di sé. Insomma, la «politica di ridisegno delle periferie» attuata dalle istituzioni, che in alcuni casi organizzano persino tour guidati alla scoperta delle “bellezze sui muri” delle periferie, sembra donare ai suoi abitanti l’orgoglio di un’unicità positiva.

A partire da tali premesse, Misuraca si interroga sulle possibili ricadute negative di questa “muralizzazione” delle periferie. Se da un lato il quartiere rischia di scambiare i suoi «bisogni strutturali, come i servizi di prossimità, i trasporti, il decoro urbano, gli spazi culturali e di socializzazione, con la colorazione artistica delle facciate», dall’altro, con il dilagare di tale fenomeno, la street art rischia di giocarsi la sua stessa anima che è quanto la contraddistingue dai manufatti destinati agli ambiti museali e chiusi che nel corso del tempo si sono talmente “addomesticati”, nel loro adeguarsi al gusto medio, da essere divenuti inoffensivi.

«L’arte di strada nasce per parlare ad altri, ai passanti nelle vie, ai nevrotizzati dai ritmi della città, alle famiglie di migranti. Lo fa stendendosi su un muro e lo fa, quando lo fa bene, creando un cortocircuito disturbante con la cultura dominante, che sia il capitalismo, il consumismo, l’autoritarismo, il fatalismo o il familismo clientelare». Converrà interrogarsi sul fatto che le opere di un artista come Banksy finiscono per piacere anche a quelli a cui non l’artista vorrebbe piacere. Attorno alle sue opere si è infatti creato un cortocircuito perverso per cui alcune delle stesse amministrazioni britanniche che un tempo bollavano tali interventi sui muri come atti vandalici, ora si adoperano per tutelare le sue opere da sconsiderati atti di vandalismo.

Non è una novità che un fenomeno di strada rischi di essere riassorbito da un sistema che non perde occasione per ricavare profitto anche da chi magari lo contesta e se qualche artista di strada si adegua, qualcun altro decide di resistere alle lusinghe. «Legittima l’aspirazione del muralista di vivere della sua arte», scrive Misuraca, «ma sorprende la scarsa consapevolezza di come i murales stiano cambiando la propria funzione all’interno della comunicazione pubblica. Da luogo di critica a luogo di ratifica del potere».

Di tale paradosso sicuramente si è accorto Blu, che non a caso «lavora in sinergia con le vertenze sociali e politiche dei territori in cui opera». A rendere evidente tale consapevolezza è la cancellazione, nel dicembre del 2014, operata dallo stesso artista di suoi lavori nel quartiere berlinese di Kreuzberg. «Il motivo è la gentrificazione, la trasformazione di quel quartiere multietnico e popolare in un luogo radical-chic e a vocazione commerciale, e dunque il decadimento della ragione stessa di quell’opera lì».

Nel 2016, in occasione della mostra bolognese “Street Art. Banksy & Co. – L’arte allo stato urbano”, che espone alcune opere letteralmente staccate dai muri della città, trasformandole così in pezzi da museo, con il pomposo obiettivo di «salvarle dalla demolizione e preservarle dall’ingiuria del tempo», l’artista Blu, aiutato dagli occupanti di alcuni centri sociali locali, risponde all’essere finito, suo malgrado, nel cartellone della mostra, cancellando le sue opere dipinte in città2.

Se da un alto la muralizzazione delle periferie può diventare una sorta di “trompe-l’oeil del cambiamento”, ossia «un’occasione importante di ricodificare tramite l’occhio dello straniero la percezione di se stessi, libera o quantomeno non delimitata da stigmi antichi», dall’altro, il crescente protagonismo istituzionale nel commissionare opere di street art può rappresentare «il germe di una politica comunitaria che sempre di più nasconde il segno sotto il tappeto del simbolo».

Detto che i murales, per quanto affascinanti, non cancellano il disagio sociale e l’isolamento a cui sono condannate le periferie, ciò che colpisce oggi «è invece la velocità con cui queste operazioni culturali vengono pensate, messe in atto, e digerite», scrive Misuraca, tornando sull’argomento sempre su “Il lavoro culturale” in uno scritto del dicembre 20203 che amplia la riflessione a come il capitalismo dei social incida, anestetizzandola, sull’esperienza creativa. Non appena un fatto tocca “corde comuni”, occorre metterlo a profitto istantaneamente, prima che l’interesse collettivo cali.

L’autodistruzione operata da Blu nei confronti delle sue opere è un atto estetico e politico radicale che ha il merito di riportare al centro della scena una riflessione tanto sulla scena urbana che su quella artistica. Non a Blu direttamente, ma attorno a lui sicuramente, è strutturato il libro di Fabiola Naldi, Tracce di Blu (Postmedia books, 2020) che raccoglie alcuni testi che, scrive l’autrice, «hanno vissuto di un momento empatico molto particolare, e hanno condiviso luoghi e contesti di destinazione speciali per la mia carriera e la mia esperienza personale. Ciascun testo che precede l’estratto ripubblicato agisce come un ipertesto, una sorta di scrittura aumentata di ciò che avevo già fatto al tempo».

In una scena artistica contraddistinta da una certa refrattarietà all’agire collettivo, in cui molti operano in solitaria senza un preciso codice espressivo, la cancellazione delle opere operata da Blu nel marzo 2016 rappresenta secondo Naldi «l’apice della parte libera e consapevole di un modo preciso di intendere lo spazio urbano. Certamente ci sono ancora autori che proseguono a lavorare in modo risoluto e a volte ancora antagonista, ma la deriva più decorativa, edonistica e restaurativa detiene il primato».

Riprendendo i ragionamenti di Miwon Know4 a proposito dell’arte pubblica, del site specific e del rapporto tra realizzazione e distruzione, Naldi evidenzia come tanto gli studiosi quanto gli spettatori casuali contemporanei debbano saper contestualizzare l’intervento estetico al suo contesto di riferimento. Pertanto, «la Street Art può esistere ed essere considerata tale solo se fruita come esperienza fenomenologica conseguente e adiacente allo stesso contesto, fatto per soddisfare il luogo in cui è stato realizzato e privo di valore se spostato, trasferito o modificato». È pertanto inevitabile che l’autore metta in conto, quando non la pianifichi direttamente, la distruzione dell’opera. È nelle regole non scritte della Drawing Art, illegale o meno, il suo essere effimera e instabile.

Scrive Blu poche ore dopo aver operato la cancellazione delle proprie opere: «A Bologna non c’è più Blu e non ci sarà finché i magnati mangeranno. Per ringraziamenti o lamentele sapete a chi rivolgervi». Come a dire che non è nel gesto in sé della cancellazione operata dall’artista che deve essere ricercato l’atto violento; questo deve piuttosto essere individuato nella logica di chi ha davvero distrutto la sua opera murale, «strappandola dalla sua unica e possibile collocazione in nome di una logica di preservazione, fondamentale in altri contesti pittorici ma opposto al lavoro di Blu».

Scrive Naldi che con modalità da attivista politico, «Blu considera buona parte degli interventi che realizza in lotta o in contrapposizione ai vari sistemi locali (diritto alla casa, lotta di autogestione, libero utilizzo delle piattaforme tecnologiche). Solo in quei casi, e solo con l’aiuto di un supporto economico per i materiali pittorici da utilizzare, Blu sceglie di sottoscrivere la battaglia di un singolo gruppo legato a un singolo territorio, consapevole he la notorietà e il rispetto acquisito nel corso degli anni possano ridisegnare le sorti di una precisa attività anche in nome delle sua presenza. Non si parla mai di riqualificazione urbana, non vi è partecipazione o collaborazione con le istituzioni, ma solo ‘urgenza di “accentuare” una situazione di emergenza sempre più comune a molte città». Ecco allora che in una data particolare per Bologna, l’anniversario dell’uccisione per mano poliziesca di Francesco Lorusso (11 marzo 1977), con l’aiuto di attivisti dei centri sociali Crash e XM24, Blu decide di ricoprire con il colore grigio le sue opere cittadine.

Dichiara il Centro sociale XM24 di Bologna sotto sgombero nel luglio 2019: «Non dimentichiamo che giornali e politici che oggi elogiano la tutela della Sovrintendenza sono gli stessi che ogni giorno condannano tag, scritte e disegni sui muri, gli stessi che considerano un priorità la “pulizia” della città e che augurano severe condanne a chi fa i graffiti. Gli stessi che apprezzano la “street art” solo se ci intravedono un potenziale profitto. C’è però una realtà evidente: quei pezzi esistono perché esiste una comunità che li ha fortemente desiderati, voluti, che ne ha scelto i soggetti, il linguaggio, la forma, il contenuto. In un rapporto di scambio continuo fra artiste e artisti chiamati a dipingere e Xm24, stretti in modo inscindibile. Non si può separare un’opera di arte urbana dalla comunità che abita quella porzione di città su cui essa insiste e per cui esiste, senza snaturarla del tutto, e renderla un tristissimo fantoccio vuoto. […] Non consegneremo al Comune un monumento svuotato dal suo contenuto politico e di lotta. Non ci saranno turisti e passanti che si faranno selfie di fronte al fascio spezzato, ai partigiani dipinti, al ritratto del nostro compagno Francesco Lo Russo, e al cane, al topo e al piccione di Xm24, e un Lepore o chi per lui a raccontare in modo addomesticato la storia dello Spazio Autogestito che oggi vogliono sgomberare. Da un lato volete sgomberarci, dall’altro volete rinchiuderci in una teca. Non vi farete belli della nostra storia, della nostra passione, del nostro presente. Non vi daremo la possibilità di provarci».

Un luogo pubblico dovrebbe essere inteso come spazio «condiviso, comune e spesso di passaggio», dunque, a proposito dell’arte pubblica, nelle sue molteplici manifestazioni, occorre secondo Naldi chiedersi cosa sia ora lo spazio pubblico e come si muovano al suo interno coloro che lo abitano. Visto che gli interventi di arte pubblica incidono inevitabilmente sullo spazio e sulla comunità che lo abita, non è che quelle opere vengano realizzate, lette e interpretate come in altri contesti.

È a partire da tali riflessioni, sulla specificità di tali esperienze, che l’autrice ha strutturato un volume che ruota attorno agli eventi espositivi ai quale ha preso parte Blu. Si tratta di un libro strutturato attorno agli scritti con cui l’autrice hanno accompagnato l’artista per un decennio nelle manifestazioni pubbliche e sulla strada, scritti che ora possono essere riletti a posteriori anche, e soprattutto, alla luce delle auto-cancellazioni operate da Blu, da un gesto capace di rafforzare e significare la sua intera produzione artistica e politica allo stesso tempo.

  1. Lorenzo Misuraca, Street art come il trompe l’oeil dello stato sociale. I rischi della “muralizzazione” delle periferie, “Il lavoro culturale”, 13 Maggio 2015. 

  2. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Graffiti, dispensatori d’aura ed ordine pubblico, “Carmilla”, 22 luglio 2016.  

  3. Lorenzo Misuraca, Capitalismo social. Come il capitalismo dei social prosciuga il desiderio e desertifica l’esperienza creativa, “Il lavoro culturale”, 8 Dicembre 2020. 

  4. Miwon Know, One Place After Another: Site-specific Art and Locational Identity, MIT Press, Cambridge, MA, U.S.A 2002. 

Questo articolo è stato già pubblicato su www.carmillaonline.com