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Almeno i fanti avevano l’elmo. E le donne, al fianco dei fanti, prima della partenza. Le belle donne delle case di rango, travestite da crocerossine, e quelle appena un po’ trasandate figlie del popolo ma piene di natura rigogliosa e precisa, senza affidare quasi niente al caso. La bellezza di rosa in vaghezza di mondo. Tutto come doveva esser fatto, anche l’elmo. L’equilibrio, la forza, la circostanziata presenza del creato. E il fante verso il confine. Non c’era da discutere. Era così.

Almeno i fanti avevano l’elmo. Verità di vita quotidiana. Difesa di fronte ai rovesci. Difesa dai re e dai generali, nel cincischiarsi delle ovvietà da salotto. Nel gioco, mettendo sul piatto la vita dei fanti. I fanti almeno avevano l’elmo. Per non sentirli cincischiare. L’elmo, ovvero quello spazio largo un capello che li faceva uomini tra la vita e la morte. Lì sentivano di avere ancora una possibilità di scelta, forse. Uomini delle loro donne, indiscutibili di bellezza e respiro dei figli. Lì erano uomini da dentro, l’elmo. I generali, e i re, impagliandoli come burattini li appiattivano alla guerra, dove potevano solo capitarci. I fanti, con l’elmo, nella battaglia. La maschera, con due occhi disorientati sul confine. Ci cascavano dentro, a forza di pacche sulle spalle, alla partenza, mentre il treno muoveva verso un dove impossibile. E loro già incastrati nell’elmo, senza poter lasciare niente alla stazione. Già, solo l’elmo che ti appiattiva nella massa delle divise. Quella parola avanti e dietro sempre nelle orecchie. Ti tiene come un ninnolo quella parola nell’intimità dell’elmo: addio. Il mondo sempre più lontano, straniero appena fuori dalla partenza, è meno piccolo di quello, da non crederci, che ti preme sugli occhi e sul petto quando le pallottole iniziano a fischiare. E allora che fai? Il mondo quasi sparisce sotto le scarpe della corsa. Ma non puoi nemmeno scappare. E allora che fai?

Uccidi. Uccidi tutti quelli che incontri. Non senti nemmeno più le distanze. Il calore ti eccita, la corsa del gregge nero ti guida. Uccidi non per difenderti, al confine. Uccidi per scacciare quel senso di oppressione che la guerra ti dà, da quella piccolezza di mondo che ti sfila le scarpe e il respiro. Da quei colori spenti, nonostante gli occhi; da quel battito nel cuore che si fa sempre più corto e veloce. E rischia di farti tenerezza il cuore. Troppa tenerezza. E allora uccidi, che le cose che fanno tenerezza si devono difendere.
Salti fuori dal buco fante tenendo l’elmo in testa con la mano. Salti verso il cielo. E ti credi un angelo, che già l’ombra da sopra ti avvolge. E chi c’è sopra che ti stende l’ombra, fante. Chi c’è? Salti che sei già un proiettile. E cadi come un angelo subito dopo. La paura bussa alle spalle. È lì, che vuole prenderti il posto, anche nell’allacciarti le scarpe. Che stavolta devi andare davvero. C’era la morte, densa, a frenare la luce del sole, non l’elmo.

Almeno i fanti l’elmo ce l’avevano. L’ultima preghiera prima della partenza. Pretesto per toglierselo quando tutto finiva. Mostrare la testa al sole, forse a chiedere perdono, forse per riprendersi il cielo, mesciato in coppe d’aria fina. Per farsi riconoscere in tempo dai vivi, quando andava bene. Per farsi portare di nuovo in stazione, con la divisa addosso e l’elmo bucato. La guerra è un’infamia, sempre. Anche quando non scoppiano le bombe e non divampano gli incendi. Anche quando il sangue rimane nei ranghi. E chi semina odio, anche l’odio gentile e azzimato dei signori, prima o poi raccoglierà violenza e la stringerà al petto.

I fanti l’elmo almeno ce l’avevano, ma i medici in corsia no. Nemmeno quello. Ed erano soli, con il giuramento a se stessi. Soli con la testa scoperta sotto il cielo della trincea, sul pavimento della corsia, davanti a un letto di spifferi meccanici. Che tutto poteva caderti addosso, da ogni parte: ombre e veleni. E avevano vicino la mano nuda dell’angelo, quella mano a cui avevano chiesto la guida e adesso non sapeva più nemmeno indicare loro l’ora. Non avevano quasi più nemmeno un polso. L’ora, intanto, andava e veniva. E loro dritti a tenere l’invisibile sulla punta della lingua, senza elmo. I denti, sì i denti. Senza nemmeno le parole, senza poter gridare. Digrignare al massimo. Senza potersi allacciare le scarpe. E fuggire. Il dolore? No, non c’era. Si era dileguato. Un corollario superato nell’apocalissi orrifica del terzo millennio, ora cominciato davvero. Quando devi decidere chi provare a far vivere e chi abbandonare al vuoto del terzo millennio non c’è più tempo per il dolore. Accadono cose che nemmeno il dolore sa più testimoniare. E in quelle corsie senza gare, accadevano. Medici senza elmo, fanti della guerra contro un mondo ripiegato in quattro, come i punti cardinali. Ficcato finché c’entrasse in una stanza, quella della terapia intensiva. 

Quando è scoppiato il caos avete invocato il sacro rito dell’incavo del gomito. Ma pensa un po’. Fino a pochi mesi prima ci avevate allergizzato il sistema nervoso con avvertimenti su avvertimenti a proposito del travisamento dell’identità. Ed ora? Ora glorificate l’emergenza di sua santità il gomito assiso sul naso.

Non ce l’avevo il gomito in corsia! Non avevo nemmeno quello! Il mio gomito serviva a reggere il braccio, che teneva il polso, che sosteneva la mano, che reggeva i morti. No, non ce la facevo a scegliere. Li tenevo tutti come potevo. La morte intanto mi parlava, mi ricattava. Mi costringeva a selezionare chi affidarle. Io ho giurato chi salvare, non chi far soccombere. Ma lì in corsia è andata diversamente, molto diversamente. Non avevo abbastanza mani. Non avevo abbastanza gomiti. Non avevo abbastanza lacrime. Si divertiva alle mie spalle la morte. In panciolle sul divano aspettava che portassi la lista con i nomi del giorno. A questo ci avete costretto a noi medici. Esseri umani privi di tutto, anche di una semplice fottuta mascherina. Volevate privatizzare la Sanità. Bene ci siete riusciti. Siamo “privati” di tutto, anche della pazienza, del giuramento, della sana misericordia, della pietà. Non c’è nulla di pietoso nello scegliere chi far morire, non per chi ha giurato di salvare vite umane.