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Ritratto pop della Swinging London di metà anni Sessanta e contemporaneamente un inquieto  filosofico interrogativo sull’esistenza e la percezione del reale. Ammaliante e avvincente trama e straniante successioni di racconti, contenuti l’uno nell’altro. A osservarli si allargano e comprendono sempre più invisibili tracce, tracciabili indizi di altre storie, apparenze, simulazioni e spettacolarizzazioni del reale, sino a perdersi senza arrendersi.

“Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà,
e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima.
Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa che nessuno vedrà mai.
O forse sino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà.
Il cinema astratto avrebbe dunque una sua ragione di essere”.

Michelangelo Antonioni

Siamo a Londra giusto a metà del decennio più creativo della città a cui guardano tutti, coi giovani attratti dai venti di cambiamento e dalla nuova musica, dalla moda innovativa e creativa, e da nuovi comportamenti più liberi e aperti. Ed è anche la Londra che su questa attrazione muove soldi e affari, che concepisce la novità come investimento economico e sfruttamento commerciale.

Thomas, interpretato da David Hemmings, è un fotografo di moda che sta dentro questa contraddizione. Annoiato dalla ripetitività del lavoro e dalla città «Non ne posso più di Londra, questa settimana», dice a un certo punto, perché «Non fa niente per me». Vorrebbe essere più ricco per non dover accettare di lavorare alle pur ricche condizioni che gli vengono proposte per campagne pubblicitarie e riviste di moda. Vorrebbe fotografare la realtà, la cosa viva e pulsante e non più manichini in posa per vendere vestiti. Per questo nella prima scena lo vediamo di primo mattino uscire da un ospizio notturno per sbandati e senza casa. Si è confuso tra loro per realizzare una parte di quel servizio fotografico che pensa basti a ridisegnare la vera, la reale Londra: vuole che diventi il soggetto di un libro su cui sta lavorando. Per questo pensa sia sufficiente travestirsi da barbone e quando porta le foto a Ron, curatore del libro gli racconta del suo senso di disgusto per la città e il suo desiderio di essere libero, come le persone ritratte all’ospizio. Ma non crede molto a quello che dice.
Adesso ha un nuovo fulminante interesse. La mattina, dopo aver buttato via gli abiti del suo travestimento, fatto un servizio fotografico con Veruschka, la modella più ricercata del momento, con inquadrature eroticamente fashion, che invitano al voyerismo mentale, poi, liquidate altre con ordini imperiosi e scatti veloci, ha trovato la foto perfetta che riassume la giornata luminosa e lo spirito del tempo in una forma  semplice quanto iconica. Una coppia al parco, lei che trascina lui prendendogli le mani attraverso il prato per avvicinarsi al bosco. La donna è giovane, l’uomo no. Lei accorta di essere nel mirino del fotografo aveva preteso la consegna del rullino e più tardi, attraverso chissà quali misteriose vie si era presentata a casa sua per avere gli scatti, cercando di rubare la macchina fotografica e ottenendo solo un falso vero, cioè un rullino con altre inquadrature. Perché la ragazza è così ansiosa di ottenere le foto?

La mia vita privata è già un pasticcio. Sarebbe un disastro se…”, dice la ragazza provocando il non richiesto spiccio consiglio del fotografo. E allora? Un disastro è quello che ci vuole per vedere chiaro nelle cose. Vedere chiaro nelle cose diventa la nuova ossessione. Un’intuizione, stampare e ingrandire la sequenza delle foto, dopo che il primo ingrandimento aveva rivelato un’espressione preoccupata nel volto della ragazza. Ingrandimento dopo ingrandimento, un’ombra dietro un cespuglio diventa una persona nascosta e armata.

Il termine blow up indica la tecnica fotografica di isolamento di una porzione di immagine che si ottiene attraverso successivi ingrandimenti fino al punto in cui l’aumento della grana della pellicola rende impossibile distinguere le forme dell’oggetto fotografato.

L’immagine nella foto alla fine è troppo sgranata e lo è ancora di più nella mente di Thomas mentre le osserva dopo averle appese. Tutto era sembrato chiaro, una trama oscura in un giorno di luce accecante. Ci vogliono conferme. La ragazza sembra aver condotto intenzionalmente lontano l’uomo perché non veda, qualcosa che prima stava inquadrato nel mirino dell’arma impugnata dall’uomo nel cespuglio.

Io non so come è la realtà – dice Michelangelo Antonioni – Ci sfugge, mente di continuo… Io diffido sempre di ciò che vedo, di ciò che un’immagine ci mostra, perché immagino ciò che c’è al di là, e ciò che c’è dietro un’immagine non si sa. Il fotografo di Blow-Up non è un filosofo, vuole andare a vedere più da vicino. Ma gli succede che, ingrandendolo, l’oggetto stesso si scompone e sparisce. Quindi c’è un momento in cui si afferra la realtà, ma nel momento dopo sfugge”.

Perché l’intuizione di Thomas è giusta. Ritornato al parco trova il cadavere di un uomo. Il numero di telefono che lei gli ha lasciato è falso. Deve mostrare a Ron o a un altro collaboratore quello che ha scoperto. Quello che crede di aver scoperto. Ma tornato a casa non ci son più né il rullino, né le foto. Tutte sparite, tranne una, scivolata dietro un mobile. Unica traccia, ma per niente chiara. Può essere qualunque cosa in qualunque posto. Bisogna che almeno il suo socio e amico Bill veda il cadavere. Perché tutto diventi reale. 

Continuiamo a seguire Thomas nei percorsi mentali che si traducono in movimenti in macchina, la sua Rolls decapottabile, per raggiungere a una festa l’amico. Lo vediamo mentre attraversa una animata città notturna, dove volto tra la folla appare di nuovo la ragazza misteriosa. O solo un’ombra che lo guida in un vicolo dove una musica frenetica lo attrae verso un locale. E qui tutto inizia a sfocarsi in una nebbia mentale, che consegna un messaggio al protagonista e che, visione dopo visione, in un blow up stravolge lo spettatore più curioso.

La scena dura pochi minuti. Per questo riprendiamo ad avvolgere la pellicola all’indietro a partire da questo punto in cui Thomas entra cercando la ragazza.

Il locale è molto scuro, alle pareti dipinti grandi volti bianchi di cantanti. Sul palco una musica che la sceneggiatura definisce “assordante”. Il pubblico è immobile, neanche movimenti con la testa, con le gambe, nessuno che segue il ritmo e partecipa tranne due in fondo alla sala. La band che si esibisce è sicuramente tra le più popolari a Londra e in tutto il Regno Unito. Sono gli Yardbirds, la formazione di casa al Crawdaddy, succeduti ai Rolling Stones e come loro provenienti da un duraturo amore per il blues. Piena di musicisti talentuosi e carismatici, nel 1966, dopo l’allontanamento di Eric Clapton sfoggiano un tris di chitarristi eccezionale: Jeff Beck, Chris Dreja e Jimmy Page. La band suona un classico del blues, ma che non è quello che è e non è neanche quello per cui viene presentato. Il titolo è Stroll on e non è un blues. Sarebbe una cover di un brano rock ‘n’ roll classico del 1957 del Johnny Burnette r’n’r trio, grande successo di allora che però si intitolava Train Kept A-Rollin’, un brano di Tiny Bradshaw, che con la sua orchestra swing e poi Rhithm and Blues aveva avuto una serie di successi anche tra il pubblico bianco. Il brano segue il ritmo dell’oscillazione del treno e delle opzioni, inseguire la donna allontanatasi o lasciar perdere. Il tema nella versione bianca e rockabilly di Jonny Burnette aveva aggiunto un elemento nuovo nella musica: l’uso della distorsione della chitarra fuzz. E questo elemento ha sicuramente attratto gli Yardbirds nella loro riproposizione garage rock.

Ingrandiamo i particolari uno dopo l’altro, ingrandimento dopo ingrandimento per capire qual è il limite dove tutto si perde. Il testo originario di Train Kept A-Rollin’, di Tiny Bradshaw ha i classici temi del blues. Lui incontra lei, un treno li porta chissà dove, sballottandoli piacevolmente, lei è una hipster, irriducibile alle costrizioni, in perenne movimento, misteriosa. Per questo se ne va e lo lascia a dannarsi e a struggersi tra un “meglio che vada” e “non potevo lasciarla andare”, mentre il treno ovviamente non si ferma e continua a viaggiare tutta la notte. Anche Johnny Burnette ne aveva tenuto il testo accelerandone il ritmo. Gli Yardbirds avevano il brano in repertorio e presente nell’album del 1965 ma ora si trasforma in altro. La nota del film dice che questo è avvenuto per un mancato accordo sui copyright. Quindi il brano rimane lo stesso, si cambia il titolo e il testo appare un po’ più banale (tipo ora soffro io, perché mi hai lasciato, ma prima o poi sarà il tuo turno). Ma c’è un particolare che illumina il brano, che ricordiamo, nell’economia del film è un frammento che si nasconde dentro il cameo dell’esibizione live degli Yardbirds.

You made me cry, by tellin’ me, you didn’t see. The future bore, our love no more. Thomas attraverso quegli scatti non era riuscito a vedere la realtà nella sua essenza, ma si era innamorato di quella storia, di quell’ombra, come possibile fuga dalla noia. Per questo, stroll on, vaga perché l’innamoramento continui. Ma in quei pochi minuti della scena tutto prende un’altra strada. L’ombra, la spettacolarizzazione prende il sopravvento. La band sul palco dà segni di nervosismo, gli amplificatori anziché restituire un suono fuzz, distorto, iniziano a gracchiare. Jimmy Page che nella scena si trova al posto di Chris Dreja a suonare la chitarra ritmica, inizia a maltrattare lo strumento, lo sbatte sull’amplificatore. La spacca, rompe il ponte, lo libera dalle corde e lo getta al pubblico. Sembra il segnale per una risposta pavloviana. Come in attesa di un finto gesto liberatorio, ormai diventato un copione fisso per Pete Townshend e Keith Moon degli Who, la distruzione della chitarra scuote dall’apatia l’altrimenti immobile pubblico, che si scatena per impossessarsi della preziosa reliquia. È Thomas, il fotografo a impossessarsene. Ma poi, fuori dal locale, lo butta via, l’oggetto perde il suo valore perché non può essere più percepito in relazione ad altro, al concerto, alle aspettative, alla concorrenza tra il pubblico. Un passante osserva, raccoglie il ponte e poi anche lui lo getta via.

Al parco il corpo inanimato dello sconosciuto non c’è più. Arrivato alla festa tutto si perde in una nube di fumo, in un clima di rilassante condivisione di chiacchiere, sorrisi e marijuana. Cosa rimane della realtà?

Riavvolgiamo, rimpiccioliamo. Inizio: Michelangelo Antonioni legge un breve racconto dello scrittore argentino Julio Cortazar, La bava del diavolo, dove un fotografo cattura una scena in cui ragazzino si sottrae a una giovane donna, fuggendo disperatamente, approfittando del momento di imbarazzo della donna vistasi fotografare. Sospettando qualche mira della ragazza su di lui, l’osservazione attenta di un ingrandimento rivela invece la presenza in macchina di un uomo a cui la vittima deve essere consegnata. Affascinato dal meccanismo che rivela che dietro a quanto percepiamo come verità possono nascondersi altre realtà, Antonioni scrive con lo sceneggiatore Tonino Guerra e, per i dialoghi inglesi, Edward Bond, il copione di Blow up, il film che vincerà la palma d’oro a Cannes:

Un giovane sui venticinque anni esce da un dormitorio per senza casa, vestito come tutti quelli con cui ha diviso la camerata. Ma girato l’angolo sale sulla sua Rolls Royce decappottabile, poggia un pacco con le sue macchine fotografiche e si avvia. Un gruppo di chiassosi ragazzi con una jeep si avvicina per scollettare. L’uomo tira fuori una sterlina gliela dà e riparte. Poi arriva nel suo studio, butta via gli abiti sporchi. Fa il suo lavoro, fotografa in automatico, sia che si tratti di inquadrature artistiche che roba da routine. Va a vedere un negozio di antichità che vorrebbe comprare col suo amico Bill. Parla con Ron del libro in via di realizzazione. Continua a borbottare fino al momento in cui crede di vedere una tranquilla scena d’amore tra una giovane donna, Vanessa Redgrave e un uomo. Le foto nascondono altro. La donna è un fantasma, appare, scompare e ricompare ma è inafferrabile come la dama hipster di un vecchio hit R&B del 1951. Niente ci racconta quale sia la realtà.

Thomas lascia la festa, ritorna al parco. Incrocia la jeep stracarica dello stesso gruppo di ragazzi a cui all’inizio aveva consegnato un cripto messaggio costituito da una banconota da una sterlina. Rumorosi estremamente come solo i veri mimi sanno essere entrano nei campi da tennis. Un ragazzo e una ragazza, volto bianco e strisce e bretelle d’ordinanza mimano un’accesa partita mentre il resto dei ragazzi segue il movimento dell’inesistente pallina. Battuta dopo battuta tra motti di stizza quando si finge di aver colpito la rete, gesti di soddisfazione per un bel lancio, la pallina fantasma va in out una prima volta e la ragazza va a raccoglierla facendo un gesto come per dire «beh, capita di sbagliare» guardando il fotografo che si è fermato addossato alle reti assieme agli altri ragazzi. Ma dopo un altro finto scambio di battute, quando tutti sembrano aver visto che la pallina abbia scavalcato la recinzione per cascare proprio ai piedi di Thomas, la ragazza fa segno di lanciargliela, l’uomo sembra riflettere un attimo. Poi si inchina, raccoglie un nulla che tutti vedono tondeggiante e giallo, soppesa e fa rimbalzare quel nulla sul palmo e lo rilancia. Adesso si sente il rumore delle battute. Le racchette che rilanciano la pallina, i rimbalzi. Come dicono le ultime battute della sceneggiatura “sovrastano il cinguettìo degli uccelli e lo stormire delle foglie, diventano i tipici colpi sonori della palla sulle corde della racchetta. Uno di qua, uno di là, uno di qua, uno di là. Il fotografo sorride ancora, appena, appena. Poi diventa serio, un po’ turbato. Distoglie lo sguardo dal gioco e lo abbassa sull’erba, ma in realtà non guarda niente. È lo sguardo di chi segue un pensiero interno e non sa ancora se è angoscioso o rassicurante”.

Spiegava Michelangelo Antonioni: Il mio problema per Blow-up era quello di ricreare la realtà in una forma astratta. Io volevo mettere in discussione ‘il reale presente’: questo è un punto essenziale dell’aspetto visivo del film, considerato che uno dei temi principali della pellicola è vedere o non vedere il giusto valore delle cose.

  

“Non bisogna lasciare che un film finisca con la fine del film,
ma bisogna fare in modo che il film si prolunghi proprio all’esterno di se stesso,
proprio dove siamo noi,
dove viviamo noi che siamo i protagonisti di tutte le storie”. 

Michelangelo Antonioni

The Yardbirds – Stroll On (Jeff Beck & Jimmy Page 1966)

RIPRESO da www.bizarrecagliari.com ovvero «Storie della Beat Generation, della Controcultura e altro»: da gennaio racconta OGNI GIORNO vicende, persone, movimenti che il pensiero cloroformizzato e sua cugina pigrizia preferiscono cancellare.