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11 dicembre 2020, pochi giorni prima del suo 60esimo compleanno, la tensione vitale di Kim Ki-duk si è spenta.
Kim Ki-duk è uno dei registi asiatici più conosciuti nel panorama cinematografico contemporaneo. Artista di rara complessità, dotato di sensibilità profonda e radicale, è un poeta che respira in modo estremo, sebbene persista in lui un’elegante raffinatezza percettiva.
Il suo è un cinema fondato dalla tensione tra delicate emozioni ed esplosioni di violenza, elementi separati che si attraggono reciprocamente, generando un flusso di energie instabili, ma che inspiegabilmente tendono a una situazione di equilibrio.
Nato nel 1960 a Bonghwa, una piccolo villaggio della Corea del Sud che dista 170 km dalla capitale, a nove anni si trasferisce con la famiglia a Seoul, dove in seguito frequenta un istituto professionale per l’agricoltura. A diciassette anni, per le condizioni di povertà in cui versa la sua famiglia, è costretto a lavorare in una fabbrica, che lascerà a vent’anni per
arruolarsi in marina, dove resta per i successive cinque.

È il periodo in cui si avvicina alla religione con l’intenzione di diventare predicatore, ma nel 1990 abbandona tutto e si trasferisce a Parigi per approfondire la passione per la pittura e riesce a mantenersi vendendo i suoi quadri.
“Arrivai in Europa perché volevo fuggire dalla società coreana, e da casa”, dice oggi. “Mio padre è un veterano della Guerra di Corea. Subì torture psicologiche e fisiche da parte della Corea del Nord. Riuscì a tornare a casa, con quattro pallottole in corpo, solo dopo uno scambio di prigionieri. Ma non fu più la stessa persona: era pervaso da un senso di sconfitta
e da una rabbia inaudita che scaricava quotidianamente su di me. Ero terrorizzato da mio padre, ma crescendo compresi che anche lui era soltanto un’altra vittima della società. I postumi di quella guerra si patiscono ancora oggi in Corea del Sud, nessuno però ne vuole
parlare. Per questo ho deciso di fare film che avessero al centro questi temi: la violenza, l’odio, i traumi, la solitudine, l’incapacità di comunicare. Situazioni che ho vissuto sulla mia pelle, ma che parlano di tutta la mia patria”.


Nel 1993 inizia ad avvicinarsi al cinema, scrive sceneggiature e vince il premio dell’Educational Institute of Screenwriting con la stesura di “A Painter and a Criminal Condemmed to Death”.
Cede del tutto al potente richiamo del cinema, nel 1996 esordisce con il film Crocodile, ambientato in Sud Corea, che già rivela in modo esplicito quali sono e saranno i temi centrali del suo lavoro: violenza, sesso e dolore.
Sono elementi chiave della sua narrazione, li ritroviamo intatti in Wild Animals, girato a Parigi (1997), e in Birdcage Inn (1998).
La componente distruttiva presente nella psiche umana, in contrapposizione alla vitalità sensuale dell’eros genera un brutale processo di tensione e di violenza, che spesso trova soluzione solo nella morte.

“Mi pongo sempre una domanda: cosa è umano? Cosa significa essere umano? Forse la gente considererà di nuovo brutali i miei nuovi film. Ma questa violenza è solo un riflesso di ciò che sono realmente, di ciò che è in ognuno di noi in una certa misura “.
Nel 2000 è presente al Festival di Venezia e al Sundance Film Festival con “L’isola”, che gli apre le porte della fama internazionale. Nello stesso anno Kim Ki-duk celebra la strenua ricerca di innovazione percettiva e di realizzazione con “Real Fiction”, girato 200 minuti con dieci cineprese e due videocamere digitali.
Il rapporto tra i personaggi e lo spazio vitale non consente loro di fuggire dai propri stati d’animo, così ne possiamo conoscere “desideri, ossessioni, paure che lì diventano quasi tangibili”.
L’indagine su questi contrasti di forze devastanti è presente anche ne: “Indirizzo sconosciuto” (2001), “Bad Guy” (2001) e “The Coast Guard” (2002).
“Spesso hanno criticato il fatto che nei miei film non si parla molto. Questo è perché racconto persone ferite, che hanno perso fiducia nell’altro. Così la violenza che è un’altra accusa che fanno ai miei film, non è un semplice gioco estetico. Per me è necessaria, è l’unica forma che esprime la crudeltà della vita, la sua tristezza e disperazione.”
Nel 2003 esce “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera”, un film fortemente simbolico, che sorprende per l’inquietante senso di pace evocato dalla splendida fotografia, davanti alle immagini perfettamente poetiche, sfuma lievemente l’intensità della violenza.
Nel 2004 gli vengono assegnati l’Orso d’Argento alla regia al Festival di Berlino per “La samaritana” (2004), e il Leone d’Argento al Festival di Venezia per “Ferro 3 – La casa vuota”.

È presente nel 2005 al Festival di Cannes con “L’arco”, segue “Time” (2006), “Soffio” (2007).
L’anno successivo vede la luce “Dream”; durante le riprese l’attrice protagonista Lee Na-yeong è stata vittima di un incidente sul set, durante la scena nella quale simula il suicidio per impiccagione.
Kim Ki-duk resta traumatizzato da questo evento, si ritira in solitudine e vive un periodo di profonda depressione. Riuscirà a vincere il grave tormento soltanto tre anni dopo con una lunga confessione-documentario: “Arirang”, dove espone un’intensa riflessione sull’arte e sulla vita, che approfondirà con il successivo “Amen”.
Nel 2012 realizza “Pietà”, per il quale viene insignito del Leone d’Oro al Festival di Venezia, dove negli anni successivi presenta fuori concorso “Moebius” (2013) e “One on One” (2014) con cui apre la selezione delle Giornate degli Autori; seguiranno “Stop” (2015) e “Il prigioniero coreano” (2016), che apre sezione denominata Cinema nel Giardino.
Muore in Lettonia, per le complicazioni dovute al maledetto Covid-19.