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Stereotipi del femminile: la pin-up anni Cinquanta, o la diva procace del cinema italiano dello stesso periodo, questi i rimandi suggeriti dall’infelice scultura dedicata alla Spigolatrice di Sapri che ha recentemente acceso ampie e non sempre centrate discussioni sui social network, in una variegata kermesse di opinioni contrastanti sull’opportunità, o meno, di rappresentare la giovane donna avvezza al duro lavoro nei campi, come una Jessica Rabbit anche meno avvenente.

Sono più che certa che qualcuno, in un punto qualsiasi del Web, mi darà della bacchettona.

Maschi in un lago di bava, perché un bel sedere da guardare, sottolineato dalla veste attillata e sapientemente drappeggiata sul tonico posteriore della fanciulla, non si nega a nessuno.

Una celebrazione del corpo sessuato icona di tutti i tempi del patriarcato dominante, non rende un buon servizio al femminile.

E qui vedo già il ditino puntato sul supposto bigottismo delle affermazioni di chi ha trovato quest’opera di cattivo gusto, opera che penalizza il decorum, [¹]stravolgendo il messaggio estetico e financo storico-politico della Spigolatrice.

Qualcuno obietterà che l’artista non è costretto a creare in base a una verosimiglianza storica, tuttavia la libertà di rappresentazione non dovrebbe scadere nella banalizzazione del soggetto.

Inadeguato, non provocatorio, l’intento dell’autore, secondo il mio e non solo mio, punto di vista, laddove l’essenza del femminile si riduce alla rappresentazione degli attributi ben torniti della donna resa merce.

Altra levata di scudi dei benpensanti al rovescio: perché mai l’erotismo – là dove frainteso nel buon senso comune – dovrebbe stupirci o indignarci? La mia risposta è semplice, se vogliamo davvero considerare l’erotismo per quello che è: un intimo segreto che merita ben altro palcoscenico.

Vorrei porre l’accento sull’uso standardizzato del corpo femminile, in base a un immaginario scadente che millanta quello che non ha: una soddisfacente concezione della sensualità e della seduzione, categorie per nulla disprezzabili, che meritano la giusta contestualizzazione.

Perché la donna, “istituzionalmente preda”deve subire il peso costante di una cultura che stenta a valorizzarne lo statuto di persona abile, intelligente e competente, al di là dei propri attributi fisici? Purtroppo non dico nulla di nuovo e mi dispiace doverlo sottolineare in questo tempo che vorrei più maturo. Il femminile non lo si eternizza nell’ordine simbolico del maschile.

Siamo certi che le donne si vedano e si vivano  sempre e solo in funzione delle loro forme ?

Un’ultima considerazione che sorge spontanea: il corpo è per sua natura corruttibile, vecchiaia e malattia ne segnano il declino inevitabile.

A questo riguardo voglio ricordare, per puro tributo alla sostanza del discorso, un mio articolo apparso su Diatomea il 21 giugno scorso, commento al portfolio fotografico di una giovane donna che ha subito una mastectomia: perdere un seno, o entrambi, a causa di una grave malattia è una ferita del corpo e dello spirito. In tal caso come la mettiamo con l’icona della donna sessuata ? Come potrà sentirsi l’autrice del portfolio che si vede, ogni giorno della sua vita, mutilata di una parte così artificiosamente carica di significati stereotipati, che la deprivano della sua prodigiosa naturalezza ?

Chiudo con questa riflessione, invitando, chiunque voglia, a connettersi con la parte più intima del proprio Sè e convenire che la donna è ben altro dal proprio reificato involucro corporeo.


[¹] Categoria rinascimentale, ma di origine antica, secondo cui una forma deve essere adatta alla funzione che deve svolgere e al soggetto raffigurato.


Immagine di copertina presa da laRepubblica Napoli – Opera dello scultore Emanuele Stifano