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Così iniziava  “L’anno che verrà”,  una delle più belle canzoni di un grande e mai dimenticato artista come Lucio Dalla. Lui apparteneva alla generazione precedente alla mia, quella degli anni ’40, quella definita post-guerra. Infatti un’altra delle sue canzoni più famose aveva proprio come titolo la sua data di nascita “4 Marzo 1943″. Fu proprio quella generazione che cominciò ad esprimere un nuovo modo di fare musica modificando radicalmente la cosiddetta “canzone all’italiana”, che per decenni era stata quasi una scuola, diventata famosa nel mondo anche per i suoi principali stereotipi come cuore, sole e amore. Infatti il cambiamento che stava avvenendo non riguardava solo la musica, ma soprattutto i testi delle canzoni, sulla scia di quanto stava succedendo nel mondo, in particolare in Inghilterra e negli Stati Uniti d’America, dove oltre all’amore che naturalmente non poteva mancare, cominciarono ad essere presenti, in queste canzoni, testi che affrontavano tematiche dai contenuti di carattere politico e sociale, quelle che poi verranno chiamate le canzoni di protesta. Una vera e propria rivoluzione alla quale anche l’Italia, la patria del bel canto, non ebbe nessuna possibilità di sottrarsi.

Una rivoluzione, come già detto,  che rivolse le sue attenzioni di cambiamento prima soprattutto alla musica. Ma da un certo momento in poi, i testi e gli argomenti, specialmente quelli di natura socio-politica, presero il sopravvento. E fu così che il potente mix di musica e testi ebbe la forza di spingere ed accompagnare, sia i ragazzi degli anni ’40 che quelli degli anni ’50, nel coltivare quel terreno che diventò immediatamente fertile, ma, purtroppo, con uno sviluppo  assolutamente imprevedibile. Perché su quel terreno si poggiarono le basi di quella che fu la vera rivoluzione sotto vari aspetti. A partire soprattutto da quello politico, che poi culminò e diede la stura a tutto quello che, in seguito, entrò a far parte, nel bene e nel male, della rivolta del “68” e degli anni che seguirono,  poi  catalogati come “gli anni di piombo”.

 

Questo “cappello” è servito per parlare, alla fine, di un articolo che mi ha molto colpito, di Angela Lantosca, editorialista della rivista ACQUA&SAPONE. In questo articolo del 20 Marzo intitolato proprio  “Caro amico ti scrivo…” la Lantosca, che ci ha permesso di riprenderne una parte importante, si pone e credo soprattutto ponga, ai suoi lettori, una serie di interrogativi su quello che credo sia da considerare oggi senza alcun dubbio la rivoluzione degli anni 2000 e cioè l’avvento dei Social. Una rivoluzione che ha cambiato profondamente le nostre vite, ma sulla quale già ci si interroga per quello che è diventato oggi il mondo dei social e soprattutto del suo utilizzo.

Che bisogno c’è di avviare conversazioni on line, quando potreste chiamare la persona amica?Perché condividere stati d’animo su questioni personali nei commenti pubblici sotto una foto? … Perché pensate sia necessario dire a tutti che siete in ospedale, quando potreste comunicarlo in privato alle persone della vostra vita? (che si presuppone già lo sappiano e vi siano accanto) Perché invece di fare pochi chilometri e raggiungere chi volete bene, preferite un comodo like da casa sotto una foto magari anche ritoccata?

Sembra un paradosso, ma da una parte i social hanno aperto le nostre case, non prevedendo più il privato, o meglio mostrando un privato taroccato da una fittizia rappresentazione esteriore. Dall’altra hanno come alzato dei muri rispetto ai rapporti reali, spingendoci a non fare più ciò che fino a qualche anno fa ci sembrava naturale:

– chiamare le persone della nostra vita, sentire la voce, organizzare un incontro, fare di tutto per intercettarsi lungo le strade. I social apparentemente abbattono i confini, ma nella realtà alzano muri. Non sarebbe meglio tornare ad incontrarsi nel mondo reale?

Angela Lantosca

Cara Angela, sono perfettamente d’accordo con lei.

Anche perché proprio questo profluvio esagerato di comunicazione attraverso le parole, ma soprattutto le immagini, che spesso non hanno nessuna giustificazione, ha scatenato, per fortuna in una, credo e spero, minoranza di persone, i peggiori istinti provocatori ed in qualche caso anche diffamatori. Cosa che forse potevamo in qualche modo immaginare, ma non a questi livelli. È come se questo mezzo di comunicazione che avrebbe dovuto funzionare principalmente da filtro, sotto tutti gli aspetti, ad un certo punto, invece, abbia annullato quasi del tutto i cosiddetti freni inibitori che prima, in qualche modo, riuscivano a contenere le nostre esagerazioni emotive e sopratutto quelle verbali. Lo dico da persona matura, che non frequenta i social e che non ha mai avuto un profilo, né su Facebook, né su nessun altro social, e sinceramente devo anche ammettere di non averne mai sentito il bisogno, per una mia libera scelta. Invece qualcuno mi ha detto che se non sono sui social allora non esisto. E questo è proprio il tipico esempio di quanto “peso” abbia assunto per alcuni la presenza sui social.

Anche perché non credo proprio che oggi manchino i mezzi per comunicare, a cominciare dagli stessi telefonini con i quali, oltre che per entrare su Facebook, si possono inviare lo stesso messaggi, foto e video. Ma forse proprio qui sta la differenza, secondo il mio modesto parere. Perché  il messaggio, o la foto tramite telefonino, per certi aspetti hanno un sapore più democratico, in quanto la comunicazione è principalmente basata su uno scambio, prima di tutto quasi immediato, che possiamo considerare paritario, di informazioni, ma anche di foto e video, che hanno nella maggior parte un carattere più generalista, di varia intensità e contenuto. E poi, proprio per la sua natura di strumento veloce e sintetico, non ti permette di essere prolisso e/o troppo loquace. Al contrario dei social come Facebook o Instagram che sia, che sono strumenti tarati principalmente sugli aspetti e sulle virtù personali che vengono solleticate purtroppo proprio dalla “Moneta dei Like” distribuiti da chi ci segue ed apprezza quello che facciamo e/o diciamo. Una moneta diretta perciò non a riempire le nostre tasche, a parte quelle di alcuni/e cosiddette INFLUENCER, di cui, ho scoperto che, in una classifica a livello nazionale, nei primi 15 posti, 11 sono occupati (purtroppo o per fortuna non saprei dire) dalle donne. Quindi i Like servono soprattutto ad alimentare le aspettative di visibilità e di gradimento della comunicazione e/o delle performance sia dialettiche che comportamentali, direttamente collegate al numero più o meno sufficiente di questa moneta. Sarò probabilmente un “matusa”, come si diceva ai miei tempi, per indicare qualcuno che era vecchio, non tanto anagraficamente, ma perché non era al passo con i tempi e con quello che stava avvenendo allora. Ma l’uso spesso distorto che si fa di questo strumento, lo trovo, da matusa naturalmente, quasi un’aberrazione capace infatti, troppe volte, magari forse anche inconsapevolmente, di trasformare dei pacifici e normali Dottor Jekyll in tanti piccoli Mister Hyde.