image_pdfimage_print

Per quattro secoli il terrore della peste aveva attanagliato le popolazioni europee poi, alla metà del Settecento, improvvisamente e misteriosamente, quel morbo che le aveva flagellate a ondate ricorrenti era scomparso. Aveva ancora infuriato a sud-est, nell’Impero ottomano, appena al di là dei confini del continente, ma non li aveva superati. All’inizio degli anni trenta dell’Ottocento la minaccia sembrava svanita. Fu allora che il nuovo spettro si affacciò dalla Russia e allungò un’ombra nera sull’Europa, iniziando una marcia implacabile. La nuova peste era il colera, un’infezione acuta, letale e molto contagiosa, dalla sintomatologia impressionante e disgustosa, che dietro di sé lasciava devastazione e strage. I batteri si moltiplicavano nelle acque inquinate da liquami e immondizia, contaminavano gli alimenti, si trasmettevano anche per contatto con stracci, biancheria e indumenti infetti e si rivelavano micidiali. Un decorso violento: diarrea e vomito, disidratazione rapida, crampi e collasso, mentre la pelle si raggrinziva e assumeva un colorito nero o bluastro. L’infezione uccideva in poche ore, al massimo in un paio di giorni, tra atroci sofferenze, più del 50 per cento, fino al 60-70 per cento, dei malati e il tasso di letalità diventava altissimo tra i più deboli: bambini e vecchi. La grande paura, che la gente si era illusa di aver dimenticato, riemerse dal profondo della memoria collettiva e tornò a diffondersi a macchia d’olio. E si trattava solo della prima di una serie di ondate epidemiche che avrebbero attraversato l’Europa nel corso del secolo.

Tutto era cominciato nel 1817, quando il morbo si era messo in movimento dalla valle del Gange, dove era endemico da tempo immemorabile, seguendo le imprese commerciali e militari degli inglesi. Era dilagato in tutta l’India poi, lungo le antiche vie del commercio, le piste delle carovane e gli itinerari degli eserciti, si era propagato lentamente verso l’estremo oriente e, attraverso la Persia e l’Asia centrale, verso la Russia. E intanto, con le navi, aveva raggiunto l’Arabia e la costa africana, era passato in Mesopotamia, poi in Siria e in Anatolia. Nel 1830, varcati gli Urali, il «terribile flagello indiano» raggiunse Mosca e iniziò la sua avanzata nell’Europa settentrionale, un’avanzata micidiale e sempre più veloce. La gente ora si spostava più che nel passato: lo consentivano i miglioramenti della rete stradale e dei mezzi di trasporto. E ciò metteva in crisi e faceva cedere il dispositivo delle misure anticontagio messo a punto nel corso dei secoli, quando il sistema delle comunicazioni era ben più arretrato.

E poi c’erano gli spostamenti degli eserciti. Il colera era entrato in Europa con le truppe zariste che tornavano da operazioni in Armenia e in Persia. E furono i russi, impegnati nel 1831 nella repressione dell’insurrezione polacca, a introdurlo a Varsavia. Da Varsavia l’epidemia dilagò rapidamente, incontrando territori densamente popolati, mentre dal medio oriente si avvicinava anche ai Balcani. Inesorabile: gli ostacoli con i quali i governi tentavano disperatamente di frenarla si rivelarono fragili e vennero superati uno dopo l’altro. Dopo aver fatto una strage in Austria e Ungheria, tra il 1831 e il 1832 il «morbo devastatore» investì i paesi baltici e la Germania, raggiunse la Gran Bretagna, l’Irlanda, il Belgio, l’Olanda e la Francia. «Tutti fuggono da Parigi per il colera», scrisse Niccolò Paganini nell’aprile 1832 dalla capitale francese, dove in sei mesi si contarono almeno diciottomila morti: vennero scavate grandi fosse comuni e per il trasporto delle salme, senza bare perché i falegnami erano insufficienti, furono requisiti omnibus, fiacre, carri, carretti e carriole. Poi l’infezione superò l’Atlantico, con gli emigranti irlandesi, e investì l’America centro-settentrionale.

A sinistra: Il colera stringe la Francia in un abbraccio mortale (litografia, 1832);
a destra: Il colera a Parigi  (litografia, 1832)

Nel 1833 comparve in Portogallo e in Spagna, rifluita da oltre oceano su bastimenti infetti, o importata da una nave da guerra inglese, e questa volta toccò all’Europa meridionale, risparmiata dal primo passaggio, quando – nel 1832 – in una lettera da Firenze, Giacomo Leopardi aveva raccontato alla sorella di una commissione medica di ritorno da Parigi: «Ci promette la venuta del morbo in Italia: predizione di cui ridono i medici di qui». Alla fine del 1834 il colera era in Provenza. Nel luglio 1835 dilagò lungo la costa e arrivò al confine con l’Italia, superò il cordone sanitario e l’interruzione delle comunicazioni con la Francia, raggiunse Nizza e penetrò in Piemonte. In agosto investì Genova e, via mare, passò in Toscana. In autunno arrivò nel Veneto, portato sul Po da una barca carica di panni usati. Dalla primavera del 1836 serpeggiò in Lombardia, facendo strage soprattutto a Brescia, e in Emilia, smentendo l’illusione che il Po l’avrebbe fermato. Poi toccò alle Marche e sbarcò sulle coste della Puglia, con i contrabbandieri, che riuscivano a violare il severo cordone marittimo istituito dal governo borbonico. Con l’epidemia che avanzava dalla Puglia la sorte di Napoli era segnata. «E ci voleva pure il colera!», scrisse Francesco De Sanctis nelle memorie della sua giovinezza. «Questo ignoto e sinistro morbo, dopo di avere spaventato mezza Europa, piombò sopra Napoli come un flagello». Fra ottobre e dicembre falciò quasi seimila persone.

L’impatto era pesante soprattutto nelle città, dove il morbo trovava un ambiente recettivo, che favoriva la rapidità della sua diffusione e moltiplicava la gravità della strage: uno stato diffuso di sottoalimentazione e una serie di pesanti carenze strutturali, dal disastroso degrado igienico e sanitario dei centri urbani e delle abitazioni al dissesto degli impianti di approvvigionamento idrico, dalle fognature fatiscenti agli scarichi a cielo aperto di letame, liquami e immondizie, al sistema diffuso dei pozzi neri. La malattia aggrediva i quartieri poveri e poi si estendeva ovunque. «Portò in Ancona strage funesta tanto nella sudicia capanna del meschino marinaio e del facchino cencioso, quanto nell’agiata casa del ricco mercatante e nel superbo palagio del nobile profumato», scrisse un testimone, l’abate Francesco Borioni.

I medici erano disarmati e consapevoli della loro impotenza. Il «morbo distruggitore» era giunto troppo in anticipo sulle conoscenze scientifiche: la medicina ignorava quali fossero l’agente patogeno e i modi della sua diffusione. Si discuteva se la malattia si trasmettesse per contagio, da individuo a individuo, o dagli effluvi e miasmi che infettavano l’aria. E intanto, mentre le due ipotesi si confrontavano vivacemente, tra rivalità e gelosie, si moriva. «Fu la stessa cosa tra noi annunziar colera o morte», avrebbe riconosciuto un medico napoletano. «Il male veniva allora con tanto impeto che brevissimo tempo lasciava in vita chiunque ne fosse preso».

L’abbigliamento di protezione e i preparati disponibili per bloccare l’attacco del colera (stampa satirica pubblicata a Norimberga)

«I medici sono costretti a fare tentativi diversi senza un risultato sicuro, poiché il male non si conosce», scrisse da Torino al figlio, nel settembre 1835, Costanza Alfieri di Sostegno, cognata di Massimo d’Azeglio. «Tutti i rimedi sembrano buoni e ne provano ora uno ora un altro con la speranza di riuscire. Il colera intanto ammazza». «I disgraziati continuano a morire rapidamente e quando sembrano migliorare subito si manifestano nuovi sintomi e soccombono». Identica la testimonianza di Borioni: «I metodi di cura erano dubbiosi, perché i medici givano a tentone, né sapevano a qual partito appigliarsi per raffrenare e reprimere un morbo, la cui natura ed indole non conoscevano. Quindi alcuni furono curati col caldo, altri col freddo; questi coi vomitivi, quelli colle sanguisughe». Si provavano rimedi stravaganti, infusi e decotti vari, talvolta nocivi. A Milano fu teorizzata una cura di stricnina e sambuco. A Brescia si giurò sull’efficacia di pillole a base di zinco. Si tentava la prevenzione con la «magnesia». Si praticavano clisteri di olio di lino, olio comune, decotto di malva e acqua di riso, massaggi di canfora o di trementina, stracci o mattoni caldi sui piedi, bagni in acqua tiepida. Si applicavano panni gelati al basso ventre, sanguisughe alle tempie e dietro le orecchie. Si somministravano purganti o si vietavano severamente. Si davano pezzetti di ghiaccio, neve, acqua a volontà, da bere a piccoli sorsi, pane tritato, tuorli d’uovo. L’antidoto «anticolera», spedito da Costanza al figlio, era stato preparato «mischiando malvasia di Sardegna, teriaca, rabarbaro ed assenzio»: la dose era un bicchierino ogni mattina a digiuno. «Attento all’aria cattiva», raccomandava Costanza, «attento ai cibi». E ancora: «Ti consiglio l’acqua di camomilla, che nel colera di Parigi fu distribuita a fiumi». A Napoli, d’ordine del ministro degli interni, si sperimentava vino con polveri di frutti di platano A Roma un medico insisteva su un preparato miracoloso per la prevenzione e la cura, a base di aglio macerato nell’aceto: doveva essere assunto per bocca e strofinato sulla pelle. Ma c’era anche chi riteneva pericoloso abitare in vie poco soleggiate, o vicino ai campanili, perché il suono delle campane era dannoso. E chi cercava nessi tra esplodere del contagio, dati astronomici o fenomeni atmosferici. Si disse che il passaggio della cometa di Halley, nell’aprile 1836, aveva provocato malefici influssi e lo sviluppo di germi ignoti. E ci fu chi pubblicò l’immagine (orribile e fantasiosa) di un minuscolo insetto, dalle «forme strane e singolari», catturato da un medico ad Ancona e studiato al microscopio, assicurando che si trattava del «drago cholerico». Insomma un clima favorevole ai ciarlatani, che spacciavano a caro prezzo intrugli e preparati miracolosi.

Il «drago cholerico» in un’immagine diffusa nell’autunno 1836

Per i resto i medici suggerivano regole di precauzione: evitare cibi pesanti, mangiare e bere vino con moderazione, non prendere freddo, non sudare, tenere il ventre «netto e obbediente», respirare aria pura, evitare gli eccessi, specie quelli sessuali. «Vuolsi da i più contraria la venere; i savii dicono non nocevole, se pochissima», informava un medico pisano. «Gli impenitenti sono i primi a soccombere», confermava Costanza d’Azeglio: «Un giovanotto era tornato a casa la sera e aveva trovato chiuso il portone. Cominciò a bussare, impaziente, ma tardavano ad aprirgli. Il suo portone sventuratamente era accanto a quello di una casa di piacere. “Tanto meglio, se non si decidono ad aprirmi – disse allora il giovanotto – Dormirò nella casa vicina, se non posso dormire nella mia”. E infilò subito l’altro portone. Ma si era appena disteso sul letto, con due di quelle donne da strapazzo, che rimase come fulminato. Il colera lo aveva abbattuto».

Ad Ancona, riferì Borioni, «fu affisso in tutti i canti della città» un «regolamento per ben condur vita nel tempo del flagello», redatto su incarico della commissione sanitaria. Il morbo era «terribile» e «menava strage», ma «non doveva sgomentare gli animi di tutti, perché non era poi tanto potente da ghermir quelli che si fossero guardati dal cadervi sotto». Queste le regole, «da osservarsi da tutti coloro che amavano la loro salvezza» (e che potevano permettersi di applicarle): «La nettezza scrupolosa delle case, la politezza della persona, cibi leggeri e salubri, uso di carni salutifere e specialmente di carne di pollo, il cioccolatte nella mattina, la bevanda di the o camomilla nella sera, la buona giornaliera digestione, l’esatta e regolare traspirazione della pelle, la fuga dalla soverchia fatica, il lavarsi coll’acqua tiepida ed aceto, le fregagioni secche con panni di lana o collo scoperto, il tenersi ben guardato con maglie di lana o di seta la carne, i profumi dentro le case, e specialmente in sull’imbrunir della sera, e la tranquillità dello spirito».

Qualcuno, invece di prescrivere banalità e rimedi fantasiosi, si preoccupò di consigliare misure minime di igiene e prevenzione: «Ho creduto opportuno dovere raccomandare», scriveva in un rapporto il medico provinciale di Venezia, «che le materie emesse dagli ammalati anziché gettarle nei letamai vengano tosto dalla camera dell’infermo asportate e sepolte, che le biancherie usate dagli ammalati venghino espurgate e lavate con forte ranno; che sia osservata la massima nettezza negli abitati, che venghino aspersi i pavimenti con una soluzione di cloruro di calce per neutralizzare i perniciosi effluvii degli ammalati».

Le autorità erano impreparate. Provavano a negare il pericolo, minimizzavano. Poi, all’avvicinarsi del contagio, mettevano in atto le misure di contenimento sperimentate ai tempi della peste: cordoni sanitari armati, chiusura delle frontiere, interruzione delle comunicazioni, sospensione di fiere e mercati, isolamento delle località infette, quarantene, lazzaretti, emarginazione e espulsione di mendicanti, vagabondi e lavoratori stagionali. E quelle misure, anziché dare sicurezza, diffondevano il panico, così come i falò su cui si bruciava lo zolfo o si bolliva la pece, che avrebbero dovuto allontanare i miasmi, e le salve di cannonate, che avrebbero dovuto disperdere l’aria «crassa e pesante», o i tardivi (e poco rispettati) interventi di igiene ambientale e di disinfestazione disposti dalle commissioni sanitarie nei quartieri più degradati. Chi poteva fuggiva, abbandonando tutto. Ecco l’esodo dei forestieri da Ancona, nel 1836, nel racconto di Borioni: «In un attimo cocchi, carra e carrette in movimento; e un pregare strettamente d’essere portati altrove ed in qualunque luogo, purché fuori dell’influenza di questo cielo maligno; e un rifiutarsi villano del cocchiere avaro, che non si piegava alle istanze se non di quelli che più oro gli davano». Ed ecco la Napoli che vide De Sanctis: «I più agiati fuggivano alle loro ville; la plebe squallida e sudicia faceva spavento; nessuno osava accostarsi; l’uno fuggiva l’altro. La vita pubblica fu sospesa; le scuole, le botteghe erano deserte».

Ovunque si bloccavano i traffici commerciali e con l’epidemia avanzava rapida anche l’ombra della miseria. E della fame, nella morsa tra carenza di approvvigionamenti, accaparramenti e speculazione sui prezzi, che gli interventi governativi di assistenza non riuscivano a spezzare. Chi non poteva fuggire si affidava a Dio: voti, riti, incensi, suppliche, esposizioni di reliquie e di immagini miracolose, processioni. A Genova, raccontò Costanza d’Azeglio, «nel vento e la pioggia si è svolta una processione di penitenza che invocava la fine del colera, invece ha moltiplicato il numero dei malati». E in quella «straziata» città «le furie epidemiche […] abbattevano centinaia di persone al giorno». Ad Ancona, scrisse Borioni, «tutta quanta la popolazione di borgo Pio a piedi scalzi con un’accesa candela in mano si portava alla cattedrale per implorare […] la cessazione del tremendo flagello […] Oltre un migliaio di persone, e la più parte donne, si vedevano o coi loro bambini in braccio o coi fanciulli condotti a mano […] Giunsero in chiesa, e appena prostrati davanti l’altare di Nostra Signora ruppero tutti in un grido […] e quinci un levar di mani, un pianger di donne, uno strider di fanciulli, un singhiozzar d’uomini». E «quelli dell’altro borgo imitavano questi il giorno appresso», mentre «i borgheggiani di porta della Farina non s’appagavano della solenne gita alla cattedrale; ma due giorni dopo portavano in devota processione per le loro contrade un’immagine di Nostra Signora».

I medici talvolta erano introvabili, fuggiti anche loro in campagna. Quelli in circolazione si presentavano alle visite domiciliari coperti da una cappa nera di tela cerata, cappuccio con fori per gli occhi, stivali e guanti e spesso si fermavano sulla soglia della stanza del malato, pretendendo di visitarlo a distanza. Negli ospedali il personale era insufficiente. Per affrontare l’emergenza, in Piemonte, un vescovo propose di reclutare le prostitute e la prova ebbe successo: «Le prostitute si sono dimostrate le infermiere più attente e più devote». Ma la gente diffidava di medici, lazzaretti e ospedali, molti rifiutavano l’assistenza, i più poveri venivano ricoverati a forza. «Il lazzaretto continua a riscuotere una generale ripugnanza, perché i malati non guariscono che rare volte e la colpa sembra del lazzaretto: ormai sono tutti convinti che vi si entra per non uscirne più e non c’è modo di dissuaderli», riferì Costanza d’Azeglio. Non solo: «La gente grida che scortichiamo i malati, che li uccidiamo noi sulla graticola: quanto meno li avveleniamo per spacciarli senza tanta fatica e più presto». Correvano voci agghiaccianti, che le autorità non riuscivano a soffocare, nemmeno con severi provvedimenti. Non c’erano dubbi: ricchi, nobili e governi pagavano per ammazzare i poveri. Arsenico invece che medicine. Delle «scemenze» che si dicevano a Torino scrisse Costanza: «Il marchese di Rorà avrebbe dato seimila franchi per ottenere uno sterminio di poveri. Il marchese di Barolo pagherebbe venti franchi ai medici per ogni malato che riescono a uccidere e il Re duecento», mentre un prete aveva tentato di entrare con la forza nel lazzaretto per vedere con i suoi occhi gli ammalati ammazzati con il veleno. «La cuoca di casa Bandissé, non appena si è sentita il colera non ha più voluto vedere i suoi padroni per la paura di essere uccisa con il veleno». E si diceva che ci fosse chi lo spargeva quel veleno, inquinando l’acqua e gli alimenti. Nell’agosto 1835 un proclama del comandante della piazza di Genova, equiparando al reato di omicidio le aggressioni ai presunti avvelenatori e la propagazione di notizie false, assicurava che il governo poteva «garantire che alcuna malignità umana non concorre immediatamente, né per alcun mezzo» a diffondere il colera. Ad Ancona, scrisse Borioni, «alcuni […] spacciavano essere i medici la cagione vera della malattia» e «altri più furiosi dicevano essere la malattia opera del governo, dei preti, e dei frati, i quali avvelenavano le pubbliche acque».

Nelle regioni del sud non bastò un editto che minacciava frusta e prigione a chi «ardisca dire che chi muore è stato avvelenato» (ma anche a chi «avesse ardito gittare per terra oggetti sospetti di veleno») a frenare la ventata di panico e di violenza irrazionale. Ne scrisse Luigi Settembrini: «Il popolo, che vede in un subito morire e non sa come e perché, crede sempre che sia veleno, e ne accagiona i nemici, se ne ha, o quelli che egli odia. Il nostro popolo credette che fosse veleno e che il Governo lo facesse spargere, mandandone le casse agl’Intendenti, e questi lo dividessero fra i loro cagnotti i quali lo gittavano nelle acque». «E avvennero fatti terribili». Nessun dubbio: il colera era veleno. Qua e là tornò la caccia agli untori. Si diceva che agivano bande di avvelenatori prezzolati, le fontane pubbliche venivano presidiate da sentinelle armate, si verificarono violenze e disordini, contenuti a stento dalla gendarmeria, aggressioni, linciaggi, esecuzioni sommarie. A Catanzaro, avrebbe raccontato Settembrini, «tutti i cittadini si armarono, si messero a guardia delle porte della città, e a drappelli andavano girando pel contado». «Trovandomi inerme in mezzo a tanti che volevano fare a schioppettate col cholera, io mi provai una volta a dire: amici miei, smettete questa idea del veleno, ché nessun governo, per tristo che sia, ha mai avvelenato i popoli. Ella è peste, è malattia […] c’è qualcosa in aria che cagiona questo e l’aria non si può avvelenare […] Mi risposero inviperiti […] Erano uomini di senno, e parlavano come matti […] credevano che era veleno e se dicevi di no ti credevano avvelenatore». Era successo in tutta Europa. In Polonia e in Russia erano stati distrutti ospedali e erano stati uccisi infermieri e medici. A Parigi si erano verificati tumulti violenti. A Madrid la folla aveva fatto irruzione in alcuni conventi, massacrando decine di frati, accusati di nascondere veleni.

Nell’aprile 1837, dopo alcuni mesi di tregua, l’epidemia si accese di nuovo, violentissima, a Napoli e in sette mesi uccise altre quattordicimila persone. «Non mancavano le processioni, le esposizioni di Santi e di Madonne, le invocazioni e le preghiere e le penitenze; ma la paura del contagio raffreddava lo zelo religioso» (De Sanctis). I morti venivano sepolti in silenzio, senza accompagnamento, di notte, per evitare l’ulteriore diffondersi del terrore. Lasciando Napoli, De Sanctis attraversò quartieri devastati: «Giunto in quei vicoli stretti e puzzolenti […] cominciò un via vai di carri funebri, con preci sommesse […] che mi fece capire cos’era il colera […] L’infezione era un fetore acre, che veniva da cessi, da orinatoi, da spazzature, da cenci, da uomini vivi e da uomini morti».

Una vittima del colera (litografia inglese, 1832)

Tra giugno e agosto la malattia passò in Calabria, si diffuse in Abruzzo e in Basilicata, entrò in Sicilia e fu una strage. Catania (quasi seimila morti) e Siracusa furono devastate. A Palermo, bloccata dai cordoni armati istituiti dai paesi circostanti, in quattro mesi il colera colpì un terzo della popolazione e fece ventisettemila morti. I pavimenti dei sei ospedali erano ingombri di pagliericci. «In un letto due o tre appestati», avrebbe raccontato il giornalista e scrittore Vincenzo Linares, «sotto al letto appestati giacevano uno vicino all’altro, uno sopra all’altro».Tutta l’isola fu sconvolta, si diffusero ovunque le voci sui complotti degli avvelenatori, su trame oscure ordite dal governo di Napoli, da agenti stranieri, da sette segrete, per infettare la Sicilia. A Palermo le raccolse Linares: «In tutto era veleno: chi lo temeva nelle pagnotte, chi nelle carni, chi ne’ medicamenti, altri perfino lo sospettava nell’ostia consacrata». Ignorato il decreto reale che, per garantire l’ordine pubblico, assegnava alle commissioni militari la competenza sui reati di «spargimento di sostanze velenose, ovvero di vociferazioni che si sparga veleno». Si scatenarono disordini rabbiosi e selvagge esplosioni di ferocia. Certo non si giunse agli episodi raccapriccianti (atti di cannibalismo e bambini arrostiti allo spiedo) raccontati in una lettera ripresa in agosto dalla «Gazzetta privilegiata di Venezia», ma ci furono gravi tumulti, saccheggi e sommosse di bande armate, talvolta intrecciate a cospirazioni antiborboniche. E furono decine i presunti avvelenatori seviziati e massacrati. «La paura diventò furore», scrisse Settembrini. «In Siracusa, in Catania, in Cosenza, in Civita di Penne furono moti simultanei. Feroce in Siracusa, dove il popolo, venuto in un pazzo furore, uccise tutta la famiglia di un giocoliere di cavalli credendo portasse veleno, uccise l’Intendente che tentava di impedire quell’eccidio e dichiarò decaduto dal trono un re che avvelenava i suoi popoli. In Catania non fu versato sangue ma rovesciato il governo». Dalle città la rivolta dilagò nei piccoli centri delle campagne, stroncata da spietate rappresaglie e condanne a morte. Siracusa, sconvolta dalla violenza popolare per più di venti giorni, tra luglio e agosto, e rea di «atti ferini e selvaggi» fu privata della dignità di capoluogo.

Frontespizi di due pubblicazioni edite a Palermo alla vigilia dell’epidemia

Mancava Roma. Tutti sapevano che non c’era speranza e che la malattia sarebbe arrivata. Solo qualcuno si diceva certo che la città santa sarebbe stata risparmiata dalla speciale protezione divina. Ma intanto si era provveduto ad accelerare l’apertura del nuovo cimitero suburbano del Verano e, nel settembre 1836, era stata istituita «una commissione straordinaria di pubblica incolumità per provvedere ai possibili bisogni all’occasione che vi si manifestasse il cholera asiatico». In quello stesso mese «L’Album» aveva tentato ancora di tranquillizzare i lettori: «Non avvi dubbio alcuno che la temperanza ed un corrispondente metodo di vita siano i più sicuri ed efficaci mezzi per prevenire i terribili effetti» della malattia «e di tutti i rimedi, coi quali i pubblici fogli volevano che ci avessimo a premunire da questo novello nemico giurato della umanità regalatoci dall’oriente […] se ne raccomanda uno principalmente […] il coraggio, uno dei più efficaci medicinali, del quale sta a noi il fare uso contro i patimenti». Ma la commissione sanitaria evidentemente non aveva ritenuto sufficiente l’invito alla temperanza e al coraggio e, dopo aver impartito le prime disposizioni organizzative e di prevenzione per fronteggiare la minaccia, aveva imposto al confine meridionale un cordone sanitario rigoroso. Nel gennaio 1837 un editto aveva limitato le feste del carnevale.

La protezione divina non ci fu. In luglio l’infezione entrò nel Lazio, forse introdotta dai lavoratori stagionali. In agosto dilagò nella capitale. E fu un disastro. Anche qui le disposizioni sull’isolamento e la cura dei malati ebbero scarso effetto. In compenso si tennero messe solenni e processioni imponenti, poi sospese con una notificazione del cardinale vicario, «poiché giudicansi perniciose le riunioni e gli affollamenti in tempo di malattia contagiosa sviluppata», e sostituite dall’esposizione alla pubblica venerazione, nelle chiese più importanti della città, di una miriade di reliquie – dalle teste degli apostoli Pietro e Paolo al braccio di san Rocco – che assicuravano l’indulgenza plenaria. E intanto – nonostante un editto contro le «inique menzogne dei veleni» – vicino al Campidoglio veniva massacrato uno straniero, indicato come avvelenatore, e si accendeva un tumulto, con episodi di saccheggio, contro il ghetto ebraico.

Lungo i cordoni sanitari dello Stato pontificio erano in funzione forni per la disinfezione della posta. Le lettere venivano afferrate con le pinze, deposte nella gabbia e esposte a vapori di zolfo. Il timbro riprodotto a destra attestava la disinfezione esterna. Per la disinfezione completa (timbro: «Netta fuori e dentro») venivano praticati sulle lettere alcuni tagli prima di esporle al trattamento (Museo storico della comunicazione, Roma)

Uno scrittore oggi dimenticato, Bonaventura Fidanza, attribuì al protagonista di un volumetto pubblicato nel 1838 il racconto di una scena atroce alla quale una sera aveva assistito: «Un sordo fragorio che veniva dalla tacita via mi scuote […] era il carro funereo, che guidato da due becchini con in mano una squallida face, ed un crocefisso velato a bruno recava al campo-santo i corpi ammonticchiati di estinti, caduti nel giorno sotto i colpi del morbo dominatore». Seguendo a distanza il convoglio, giunto al cimitero, «dove per lungo solco si divide il terreno, veggo starsi il carro scoperchiato […] Piovevano in quella vasta fossa umani cadaveri scagliativi dai becchini alla rinfusa e sconciamente. Rispetto non aveasi né al pudore delle vergini, né alla canizie veneranda dei vecchi, né al decoro delle matrone».

«Un contagio distruttore e quasi paralizzatore della umana società», scrisse in una lettera, in settembre, Giuseppe Gioachino Belli. «Qui tutto crolla, e quel che non crolla trema […] Una solitudine, una mestizia, uno squallore, per tutte le vie, per tutte le case, in tutte le facce». Negli anni precedenti il poeta aveva dedicato una serie di sonetti alla malattia in arrivo, raccolti sotto il titolo Er còllera mòribbus, che deformava in romanesco il nome scientifico – cholera morbus – che le era stato attribuito. E in un verso aveva spiegato «che mmòribbus siggnifica se more».

L’epidemia cominciò a declinare in settembre e si spense in ottobre. I morti furono migliaia, qualcuno ipotizza diecimila, su centocinquantamila abitanti. Si celebrarono solenni Te Deum di ringraziamento, ma per chiudere la tragedia si aspettò qualche mese. Nell’aprile 1838 ebbe grande successo una lotteria per raccogliere fondi da destinare agli orfani del colera: grande partecipazione di popolo all’estrazione dei numeri vincenti, a Villa Borghese, notevole la cifra raccolta.

La contabilità complessiva dei due anni e mezzo in cui il morbo aveva percorso la penisola fu catastrofica: quasi centocinquantamila le vittime.