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Roy’s Cafe © Alberto Manno

Ho ricevuto un messaggio da Riccardo qualche tempo fa. Conteneva l’immagine sbiadita della copertina di un’edizione paperback di On the Road. Il sottotitolo recitava: ricordi. La sensazione del déjà vu è stata immediata: dove ho già visto questa foto che ritrae il Roy’s Cafe sulla ROUTE 66? Ma sì, l’ho scattata io durante lo Scenic Landscape Photo Workshop nella Death Valley della scorsa primavera.

È come se il mio maestro di fotografia, con l’aiuto di Jack Kerouac, mi avesse svegliato dal letargo dicendomi “Ehi, ma ti sei reso conto di dove ti ho portato qualche mese fa?” Si Riccardo, lo so bene dove mi hai portato, dove sono arrivato, il limite che ho toccato. Da Roma al confine del mondo, dalla realtà al mito. Abbiamo attraversato, ammirato e fotografato il “nulla” più solido, colorato e potentemente reale che si possa immaginare, attraversato spazi immensi, ammirato la neve sulle montagne da sterminate distese di sale poste ad ottantasei metri sotto il livello del mare, on the road ma anche off the road a bordo di quattro Truck Campers, in una sorta di parentesi atemporale. L’informativa sul viaggio era stata, come sempre, molto chiara e quindi sapevo a cosa andavo incontro. Mi aspettava un’immersione nella natura selvaggia molto più intensa e in una realtà logistica molto più precaria rispetto a quanto avessi mai vissuto in passato.

Il prologo dell’arrivo a Los Angeles dunque, non poteva che costituire un antefatto, un preambolo allo svolgimento della storia. Città incomprensibile Los Angeles, soprattutto ad una visione così fugace come è stata la mia, limitata al tragitto dall’aeroporto all’hotel, ma spesso, mi dicono, indecifrabile anche per chi ci ha vissuto per lunghi periodi ma non ci è nato. Un’immensa distesa di strade, luci ed agglomerati di edifici. Non ho visto altro. Uno spazio indefinibile che ho preferito non considerare. Non ero lì per esplorare il Sunset Boulevard o passeggiare tra i pattinatori palestrati di Venice Beach. Il viaggio per me inizia la mattina successiva con il trasferimento in una delle tante cittadine dei sobborghi per ritirare i Truck Campers, curiosi ibridi tra mezzo di trasporto e casa, che hanno lasciato vagamente perplesso ed inquieto chi, come me, annovera come unica esperienza di campeggio due giorni in roulotte nei pressi di Maratea all’età di tredici anni circa, e di quel soggiorno non ha un entusiasmante ricordo. Per fortuna il mio compagno di equipaggio è Stefano e la sua allegria e il suo entusiasmo per l’impresa presto contagiano anche me e vogliamo solo partire: check mezzi, check equipaggiamento, check walkie-talkie per comunicazioni di servizio (evviva, nella Death Valley non c’è copertura per i cellulari!) e si accendono i motori. Siamo ben consci che il fascino di ogni meta raggiunta sarà amplificato dalla fatica fatta per conquistarla.

Tanto per iniziare, bisogna percorrere quattrocentoventi chilometri da Los Angeles per arrivare a Furnace Creek, il luogo da cui tutti cominciano, dove ancora puoi pensare di essere in un territorio che ti appartiene, che puoi descrivere. Già qui, comunque, in questo desolante campeggio pseudo-organizzato, inizio ad essere pervaso da una strana irrequietezza, perché sento che a breve mi addentrerò in una realtà indecifrabile, attraversando un luogo-non luogo al di là delle Colonne d’Ercole. Per il momento però sono ancora sulla terra ed il primo paesaggio che mi si para davanti agli occhi è inaspettato, affascinate ma ancora comprensibile: una distesa di sabbia e dune, le Mesquite Flat Sand Dunes, appunto.

Mesquite Flat Sand Dunes © Alberto Manno

Il riverito maestro Riccardo sa dove portarmi a fotografare per farmi entusiasmare. Impazzisco ad entrare con il mio 300 mm nell’indolente susseguirsi delle onde di sabbia dorata, sforzandomi di esaltare nell’inquadratura l’intersecarsi di ombre e luci, inseguendo l’idea di trasformare con le mie foto il concreto in astratto, così che gli elementi nella natura si trasformino ai miei occhi, e quindi sul sensore della mia fotocamera, in macchie, figure, pennellate di colore. Questo è il mio modo di fotografare, così interpreto la fotografia di paesaggio. Solo così nello scatto vedo rappresentata la mia emozione e mi sento appagato. Il grande vantaggio che hanno i fotografi, non importa se dilettanti o professionisti, nei confronti degli altri viaggiatori secondo me è proprio questo: possono immortalare la loro sorpresa, congelare in eterno la meraviglia, fermare l’attimo e inorgoglirsi del possedere un’immagine che ricorderà loro per sempre l’emozione provata. Questo soprattutto se la foto è buona e, purtroppo, almeno nel mio caso, non è la regola. Ma Riccardo è stato ed è un bravo maestro e la passione è forte in me. Per questo continuo il mio apprendistato fotografico con entusiasmo durante questi pellegrinaggi attraverso luoghi fantastici, sopportando con serenità il continuo richiamo alle ferree regole della buona tecnica fotografica.

Ma quanto si deve essere bravi per raffigurare con efficacia il mito? Questa domanda mi frulla in testa dall’inizio di questo viaggio, perché so che una delle mete che mi attende è un landmark per chi è stato giovane negli anni ‘70 o ha amato il cinema e la cultura che quegli anni hanno raffigurato e descritto: Zabrinskie Point. Quando uscì il film di Michelangelo Antonioni, io ero un ragazzino di sei anni appena trasferitosi da Potenza nella capitale e, come tale, poca contezza potevo avere del clima di cambiamento sociale e culturale di cui i giovani di allora si facevano interpreti. Dunque, la visita a Zabrinskie Point non sarebbe stato per me un flash back verso esperienze vissute o atmosfere già assaporate, ma il film di Antonioni l’ho visto e la potenza evocativa di alcune sequenze me la porto dentro. L’immagine di quella specie di altipiano dalle mille fenditure rocciose su cui decine di corpi di giovani si abbracciano nella celebrazione dell’amore libero in una scena che tanto clamore ha suscitato all’epoca della sua proiezione sugli schermi, è entrata nel mio immaginario.

Zabrinskie Point dawn © Alberto Manno

Tuttavia, quando arriviamo, l’alba è appena sorta e l’immagine del deserto riarso, polveroso e abbagliante nella luce del sole allo Zenith in cui si celebra la storia d’amore onirica tra i due giovani protagonisti del film non è quella che ho davanti ai miei occhi. Piuttosto, il rosso del cielo sovrastante le rocce che lentamente si manifestano nelle loro mille tonalità di bianco, giallo, ocra e marrone, mi suggeriscono una confortante idea di concretezza. Così è fatto il mondo, penso. Il mondo vero, da cui veniamo e su cui ci muoviamo, non quello che ci abbiamo costruito sopra nel corso dei secoli nel segno del progresso della nostra civiltà, vero o presunto che sia. All’intensificarsi della luce del giorno che nasce, l’agglomerato roccioso che ho davanti agli occhi sembra però perdere via via la sua immutabile solidità, per assomigliare sempre di più ad un enorme creme caramel. Ma chi mi conosce lo sa, io sono molto goloso, e quindi in questo meraviglioso budino mi ci tuffo dentro senza indugi con la mia fotocamera, per fissare indelebilmente il ricordo di questa incursione in un paesaggio la cui bellezza è amplificata dall’evocazione di un clima storico e culturale che, nel bene e nel male, è stato cruciale nell’evoluzione della nostra società.

Zabrinskie Point © Alberto Manno

Le emozioni della giornata non finiscono con questo affascinante flashback negli anni ’70 tra gli scenografici calanchi di borace e lava di Zabrinskie Point. Nel pomeriggio è prevista la visita ad un altro luogo delle meraviglie, la contemplazione di un nuovo incredibile panorama, dell’ennesimo inaspettato scenario. Per conquistare la meta dobbiamo continuare a scendere, sempre di più ed ancora di più, fino a raggiungere il luogo più profondo degli Stati Uniti. Ad ottantasei metri sotto il livello del mare si trova infatti il Badwater Basin, la terza tappa del nostro pellegrinaggio nell’altrove, il primo impatto con qualcosa di inaspettato, con un paesaggio indecifrabile. Incamminarsi zaino in spalla e cavalletto in mano su questa immensa pianura di sale, divisa in grandi zolle che costituiscono un ordinato mosaico, mi è più che mai necessario per stabilire delle coordinate che guidino il mio sguardo, per identificare o almeno ipotizzare la presenza di un confine. La vastità infinita mi affascina ma mi mette a disagio come fotografo. Io ho bisogno di creare una cornice, di rinchiudere quello che voglio ritrarre in una composizione ordinata. Attendo il declino della luce pomeridiana concentrandomi nel tentativo di individuare un punto di ripresa efficace. Le ombre calano con lentezza inesorabile sulle montagne che circondano questa vastità bianca, luccicante e polverosa che vista da lontano sembra un lago ghiacciato, finché la luce quasi scompare. Scattare ora è quasi proibitivo, ma sento che questo è il momento giusto. Il palcoscenico delle zolle azzurre si distende verso il fondale delle montagne blu che si ergono in lontananza. Il paesaggio sottomarino sconcertante ed alieno ora mi accoglie. Questo luogo adesso è anche mio e, sereno, premo il pulsante di scatto. Quando mi siedo al posto del passeggero nel Truck Camper non ho molta voglia di parlare. Sono sopraffatto dall’emozione, stanco anche fisicamente. Non riesco a staccare il pensiero da quell’immensa distesa di sale, dalla scacchiera infinita di caselle bianche e bianche su cui le uniche pedine che si muovevano eravamo noi sette ed altri tre o quattro turisti, felici e sconcertati come noi. Mi convinco che questo spicchio di mondo così diverso da tutto ciò che si possa definire terreno non appartiene agli esseri umani e sorrido tra me e me al pensiero che, appena allontanatici con i nostri traballanti mezzi di trasporto, re e regine, alfieri e cavalli e torri e pedoni provenienti da un pianeta sconosciuto, nascosto nel cielo blu notte che ho fotografato, piomberanno sulla scacchiera di sale per combattere un’epica battaglia in nome della libertà e della giustizia, attestando così il loro dominio su questi luoghi.

Ma se gli alieni giocano a scacchi nel Badwater Basin, il luogo dove si svolgono le partite del loro campionato di calcio è un altro, è a centociquantasei chilometri di distanza e si chiama Racetrack playa. È un’immensa spianata di fango secco perfettamente liscia, divisa in piccole zolle dalle fenditure formatesi ad opera del sole, circondata da tribune di rocce. Impegnato nel tentativo di esplorarla in lungo e in largo, senza peraltro riuscire a raggiungerne il confine tanto è vasta, cantando a squarciagola in un impeto di libertà che mai ho provato prima e di cui nessuno mai potrà raccontare, visto che non c’è nessuno tranne i miei colleghi d’avventura che neanche vedo più tanto sono distanti, all’inizio non le noto. Ma poi, volgendo lo sguardo sul tappeto di fango su cui sto camminando, mi imbatto in piccole rocce, sassi perlopiù, poste a distanza variabile le une dalle altre in un ordine che non sembra casuale, ciascuna ferma al termine di una piccola scia scavata nel terreno. Queste pietre si sono spostate: come? Cosa o chi ha provocato il movimento? Un cartello spiega il mistero: in caso di pioggia abbondante, la playa può trasformarsi in un lago poco profondo. Con il gelo della notte l’acqua si trasforma in ghiaccio, che avvolge anche i sassi che vi si trovano sparsi. Il calore del sole scioglie il ghiaccio lasciandone solo un velo intorno ai sassi che, quindi, spinti dal vento impetuoso, pattinano sul terreno spostandosi anche per molti metri, lasciando lunghe e stupefacenti scie dietro di essi. Sarà, ma mentre ammiro questo luogo, incredibile nella sua perfetta proporzione tra spazi orizzontali e verticali, con le piccole rocce sapientemente collocate quasi a decorare la vasta pianura, sono sempre più convinto che sia un’arena, creata per accogliere i giocatori e gli spettatori provenienti dal mondo fantastico e sconosciuto a cui appartiene. Appena conclusa la shooting session mi metto quindi comodo sul Grandstand, l’enorme roccia che altro non è se non la tribuna d’onore dello stadio, perché tra poco, ne sono certo, una di quelle piccole rocce diventerà il pallone che si disputeranno in un’esilarante partita di calcio gli animali fantastici arrivati direttamente dall’isola di Naboombu; io però, dopo averli ammirati, andrò via a bordo di un Truck Camper e non su un letto che vola dopo aver fatto fare al pomo d’ottone della testiera un quarto di giro a sinistra.

Al confine del mondo ci arriviamo l’ultimo giorno. L’ultima meta del tour, quella più agognata, suggestiva e misteriosa. E la più lontana e difficile da raggiungere: circa duecento chilometri di strada impervia e sterrata, che nell’ultimo tratto si trasforma in un viottolo di sabbia e sassi a stento praticabile dai Truck Camper. Il paesaggio è stupefacente ed inquietante ancora prima di arrivare alla meta. Ai due lati della strada, le catene montuose che la circondano hanno caratteristiche totalmente differenti, tanto che sembrano appartenere a luoghi diversi, geograficamente incompatibili. Sulla sinistra, colori caldi, vegetazione e rocce che variano dal viola al verde, dall’aspetto rassicurante; sulla destra, montagne nere, striate di bianco dai resti della neve, avvolte in una nuvola di vento e sabbia. Lo Yin e lo Yang. La notte ed il giorno. L’Inferno ed il Paradiso.

To Eureka Yin © Alberto Manno
To Eureka Yang © Alberto Manno
Eureka Land © Alberto Manno

Rimaniamo in questo strano limbo per almeno tre ore ad attendere che la tempesta di sabbia che ci ha colto all’improvviso si plachi quel tanto che ci consenta di proseguire fino alla nostra meta. Perché i vortici di vento sabbioso partono proprio da lì, dal luogo che dobbiamo raggiungere, dalla madre di tutte le dune, la più alta di tutta l’America del Nord, quella il cui nome non potrebbe essere più evocativo di un obiettivo raggiunto, di un esperienza conclusa: Eureka Dunes.

La parola Eureka si usa per esprimere gioia per aver trovato una cosa cercata o la soluzione di una questione o di un problema. Proprio questo è il significato che questo luogo ha per me. Inizio ad esplorarlo alla luce calante del tramonto, quando le onde di sabbia prendono i colori delle ombre e i marroni si alternano ai blu. Ma l’emozione più forte la provo il mattino successivo. È molto presto, il sole è appena sorto. Ancora una volta mi ritrovo solo, zaino in spalla e cavalletto in mano. Bisogna salire, scalare la duna ed entrare nelle onde di sabbia, sinuose, morbide e lisce come seta perché le poche impronte lasciate dai nostri predecessori il giorno prima sono state spazzate dal vento notturno. Quando il mio punto di osservazione diventa sufficientemente alto, mi rendo conto che questa non è una duna, è un’isola galleggiante su un mare di sabbia, terra e sale e circondata da montagne di oltre quattromila metri d’altezza, tanto da rendere questo paesaggio incomprensibile e paradossale. La salita è lenta e faticosa, le pause per fotografare con gli occhi e poi con la fotocamera continue e profondamente appaganti. Mi sento come sulla vetta dell’Everest, anche se la vetta della duna non riesco a raggiungerla, data la scarsa forma fisica. Ma rimanere lì, seduto sulla sabbia tiepida a guardare e pensare mi apre la mente e mi mette in sintonia con il mondo passato, presente e futuro.

Ogni pensiero negativo se ne va. Mi sento improvvisamente e inaspettatamente ottimista sul mio destino: Eureka! Ho trovato me stesso!


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