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Leggendo sempre più avvisi sui corsi di scrittura che si tengono in giro mi rendo conto di avere avuto una fortuna sfacciata nella vita. Proprio non ci riesco, questo sì è molto snob, a ritenere che si possa insegnare a scrivere. È una polemica, inutile e quindi più gustosa perché con un unico esito già scritto, che porto avanti da tempo, al punto che avevo anche stilato le regole per un corso di scrittura noiosa da contrapporre ai tanti e troppi corsi di scrittura creativa.

La scrittura è un sottoinsieme del racconto, una tecnica di racconto, ma l’abilità è affidata sempre più al racconto che all’oratore o allo scrittore, il raccontatore è un mezzo che si mette al servizio del racconto. Ma questo è soltanto uno dei tanti modi di guardare alla scrittura.

Un po’ sì, naturalmente, si può imparare a scrivere meglio, si può migliorare la forma, o come esprimere un concetto, si può imparare a modularlo, anche a costruire una struttura più complessa del semplice racconto, ma credo che l’utilità vera di questi corsi sia in realtà condividere con altri la tua passione, scambiarsi esperienze, sperando di avere la fortuna che le persone da cui impari siano oneste nello spiegarti che per dire qualsiasi cosa devi avere qualcosa da dire.

Perché il fine, almeno il mio fine, nello scrivere o più precisamente nel raccontare, che come accennato è questione più complessa della semplice scrittura e che andrebbe esaminata in un contesto di cui la scrittura è solo una parte, su cui non ci sono scuole efficaci, è la costruzione di universi paralleli in cui polemicamente vivere a parte, finché la realtà non si sarà adeguata alla mia idea di piacere.

Raccontare è un rito sciamanico, che per quanto tu cerchi di capire razionalmente come funzioni, quale sia la tecnica, quali i passaggi, rimane sempre appeso a un incanto che nessuna scuola può insegnare, a meno che come un rabdomante la scuola t’insegni a cercare la sorgente dei racconti, il luogo dove stanno tutti radunati in attesa di essere presi e sviluppati.  Tutte idee opinabili naturalmente, ma volevo condividere la fortuna che ho avuto a nascere in una casa con due biblioteche distinte e separate, con una sorgente che scorreva sempre da cui attingere. Tra i tanti motivi di attrito nelle nostre vite di questo non potrò mai rendere abbastanza merito ai miei genitori.

Scaffali separati

La prima biblioteca, quella paterna, era terribile, tutto ciò che un ragazzo non vorrebbe mai trovare come intralcio lungo la strada per feste, bevute, fumate, amori e avventure di vita vera. Oltre quattromila testi accumulati in cinquant’anni da mio padre, che si piccava di parlare in greco antico e partecipava a una sorta di olimpiadi del latino che si tenevano in quegli anni lontani, credo si chiamassero le Ciceroniadi, tutti i classici latini e greci (senza olive), tutti i principali autori italiani e stranieri dal settecento a ieri, uniti poi da una serie di enciclopedie e dizionari universali comprensivi di regionalismi. È stato difficile deludere mio padre ma ci sono riuscito con grande sforzo, dedizione e costanza verso l’obiettivo. Ho iniziato a leggere quella roba lì, al netto degli impegni scolastici, dopo essere entrato nei quarant’anni, quando finalmente la vita mi ha lasciato un po’ di tempo libero per nascondermi agli altri, per mangiare a casa, per fare finta di non essere in casa, per preferire libri a persone, soprattutto per godermi quello che leggevo.

Ma in quel frattempo lungo molti anni ho saccheggiato senza ritegno la seconda biblioteca di casa, quella di mia madre. Lauretta aveva soltanto la licenza elementare perché non stava bene a quell’epoca che le donne studiassero. Il padre picchiò lei e la sorella nascoste in bagno a leggere perché si distraevano dalle faccende di casa, e non è leggenda, anche questa è una storia di famiglia, ma era una lettrice di grande attenzione per variegati autori, come difficilmente ne ho conosciute in seguito.

La biblioteca di mia madre non aveva l’onore del soggiorno con le sue belle edizioni rilegate, era relegata in una stanzetta accanto alla cucina, immersa quindi negli odori che si levavano dai fornelli, cartaccia con copertine di cartone spiegazzato, apparentemente di “solo” mille titoli ma con un trucco essenziale alla loro infinita riproduzione: ogni tre mesi venivano rivenduti e altri venivano acquistati presso diversi comprotutto con cui negli anni si era stabilito un rapporto di fiducia. La biblioteca di mia madre era per il 90 per cento composta di gialli. Ecco, con quelli ho imparato più che a scrivere a credere nelle storie, nella loro importanza catartica sia per singole vite di merda che per i destini complessivi di merda dell’umanità intera: il senso della storia e di come raccontarla. Se c’è stato qualche giorno da grande in cui non ho fumato nemmeno una sigaretta non ce n’è stato nemmeno uno in cui non sono passato per la stanzetta a prendere un nuovo libro ed esaminare la questione arrivi e partenze dei libri. Come uccidere qualcuno in una stanza chiusa dall’interno senza lasciare tracce è stato per me un motivo di riflessione molto più profonda dei comandamenti cattolici.

Leggere di notte

Il via libera alla passione per la lettura arrivò intorno agli otto anni quando una zia mi regalò una lampada con il mollettone da mettere sulla testiera del letto in quanto non avevo il comodino; da quel momento in poi la notte è diventata un momento magico per leggere che ancora adesso mi tiene sveglio fino a ore incredibili, accompagnato da sempre dalla leggenda che dormo molto mentre in realtà dormo pochissimo e male, con amici, nemici e dialoghi immaginari che si svolgono tutta la notte sopra il mio letto. In tutti i miei traslochi, una ventina soltanto dentro Roma, portavo sempre con me queste innumerevoli scatole piene di libri, a cui nel frattempo si erano aggiunti altre migliaia di titoli della mia personale biblioteca, quella dei miei interessi, in prevalenza politici e di storia, migliaia di autori che forse soltanto le mamme sapevano che avevano scritto un libro, ma che magari un amico ti aveva detto che ci aveva trovato qualcosa della discussione che stavamo facendo ieri sera davanti a un vino buono e allora un occhio glielo butti. Nel 1999 ne avevo contati circa settemila.

Ed eccomi qua, nell’estate del duemila, davanti a un cassonetto sull’Aurelia, poco dopo il primo grande distributore uscendo da Roma, qualche signora in vendita poco più in là, con benzina e alcol in mano, che sto dando fuoco a tutta la carta accumulata da me, da mia madre e da mio padre nel corso di molti decenni. Sono completamente ubriaco, è vero, non ci metto molto a convincere gli agenti delle volanti accorse che non sono perfettamente lucido anche se so perfettamente che cosa sto facendo. Me la caverò con una sgridata e una multa, meglio di così non poteva andare. Ci sono ragioni profonde se sono arrivato a fare questo ma ho deciso tanto tempo fa che fb non è il luogo per parlare di sé, della propria intimità, e poi non è questo il centro della storia (come vi potrà spiegare uno di quelli che fanno i corsi per insegnare a scrivere).

La fine di un’ossessione

Il punto è che dopo lo choc dei primi giorni mi sono sentito liberato da questa ossessione. L’ossessione intanto di trovare un posto per sistemarli tutti negli scaffali. L’ossessione di non limitarmi a leggerli ma fissarli nelle diverse edizioni per capirli. L’ossessione di rimanere deluso da uno scrittore che amo. L’ossessione di trovare analogie e differenze. L’ossessione degli errori nei testi storici. L’ossessione di non ritrovare un’atmosfera come me la ricordavo durante la prima lettura. L’ossessione non c’è più.

E così da quel giorno sono l’unico contenitore per tutte le parole che ho letto, senza l’ossessione di tenerle in un archivio ma rendendole vive. Non le posso ritrovare più sulla carta e nemmeno le cerco. Grazie al digitale e ai continui furti su siti illegali ho lentamente rimesso in piedi una biblioteca con circa duemila titoli. Molto più varia, devo confessare, della precedente, molti meno passaggi e autori obbligati, più ricchezza e personalizzazione. Dove non c’è l’impatto visivo che mi fa ricordare non solo dove ho messo il libro ma cosa stavo facendo e cosa è successo tutte le volte che ho tirato fuori da lì quel libro.

Insomma le parole sono uscite dai confini della biblioteca paterna e materna, anche se ancora non riesco a dargli un filo interamente mio. Sono sempre in bilico tra dare a questa passione la forma di una costanza e quindi della fine di un gioco a cui invece voglio continuare a giocare o pensare che la scrittura, la letteratura è cosa troppo seria per giocarci. Ma le parole sono comunque quelle, mi attraversano, a volte per brani interi altre soltanto con periodi, spuntano sollecitate da una frase che sento sull’autobus o leggo sui social. Ho imparato ad aggiungere le mie di parole per rovesciare un punto di vista ritenuto oggettivo, sovvertire una realtà data, ridere di ciò per cui tutti piangono. Quelle parole lette in tanti anni sono ormai mie, non appartengono più agli autori, basta un ultimo atto di coraggio e puoi cominciare a raccontare, non soltanto a scrivere. Perché un altro dono che nessuna scuola di scrittura ti può dare è imparare a rubare brani ricomponendoli e aggiungendovi le parole che mancano. La tua scuola di scrittura sei tu, la tua vita e i tuoi pensieri, un’unità antisismica e antiatomica dove nemmeno il più feroce dei nemici che tu possa immaginare può mettere piede se tu non vuoi.