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Sono circondato da parole, parole e parole, proprio come se fossi io l’Alberto che duetta con la grande Mina. Ma le parole che io sento non sono cantate, ma piuttosto pronunciate, recitate, amplificate e distorte dai microfoni e, soprattutto, lette dalle pagine di un libro. Si, qui a Torino, al Salone del Libro, la protagonista assoluta è la parola scritta.

È un festival di idee ed emozioni messe su carta, affidate allo strumento di cultura per antonomasia: il libro. Sono molti anni che frequento il Salone e chiedendomi la ragione di questo annuale peregrinare in terra sabauda nel mese delle rose, non so trovare altra risposta se non che “mi fa bene”. La sensazione di benessere a cui faccio riferimento non nasce solo dalla certezza dell’arricchimento culturale che me ne verrà, dalla possibilità di approfondire i grandi temi della nostra vita quotidiana a tu per tu con grandi esponenti dell’intellighenzia culturale italiana e mondiale o dal parlare e sentir parlare dei grandi capolavori della letteratura come dei nuovi libri, direttamente da chi quei libri li ha scritti o che allo studio di quei capolavori ha dedicato una vita intera. No, già questo basterebbe, ma non è solo questo. La piacevole sensazione che mi invade ogni anno quando varco la soglia del Lingotto, nasce dall’atto stesso, cioè dal semplice partecipare, dal sentirmi parte di un meccanismo virtuoso, una piccolissima ma indispensabile rotella che contribuisce a far muovere l’ingranaggio del progresso della nostra società. Il progresso vero intendo, la reale crescita di un popolo, che nasce dalla diffusione della scolarizzazione, dell’istruzione e della cultura nel senso più ampio del termine ed è premessa indispensabile per il progresso economico e materiale.

È una sensazione rigenerante e bellissima aggirarsi tra gli stand degli editori o nelle sale convegno a pieno titolo, perché consci di essere la ruota intorno a cui tutto gira. Io sono “il lettore”, mi dico, quello che i libri li compra e poi li legge e li giudica, colui che giustifica l’esistenza e la sussistenza dell’evento stesso, ed ho quindi una grande responsabilità. Certo, sono qui per divertirmi, ma non per perdere tempo. E come me molti, tantissimi altri. Centoquarantottomilatrentaquattro quest’anno, per essere precisi. E moltissimi sono stati i ragazzi ed i bambini. Si, questo evento è concepito per i giovani, dedicato ai giovani e sostenuto in larga parte dal loro impegno. Questo, io credo, è il punto di forza dell’iniziativa: mantenere vivo il contatto tra il libro e le giovani generazioni, ribadirne il ruolo primario ed insostituibile come strumento di comunicazione del sapere, anche e soprattutto tra chi, come i ragazzi, è quotidianamente tentato di utilizzare altri strumenti di informazione e conoscenza più immediati ed accattivanti. Non c’è guerra però. Non c’è astio, né demonizzazione o rifiuto del progresso. Quello del Salone di Torino è solo un potente richiamo al potere ed al fascino della lettura. Un invito ad un approccio alla conoscenza più lento, approfondito e meditato. Ed a giudicare dai volti dei giovani che ho visto impegnati nelle varie attività, dal volontariato all’organizzazione dei gruppi di lavoro, come pure degli insegnanti alla guida delle molte scolaresche che si incontravano nei corridoi dei padiglioni, è stato un invito accolto di buon grado.

Per godere al massimo di questa meravigliosa esperienza, bisogna però avere doti di grande pazienza e resistenza fisica (lunghe file per assistere agli eventi, le voci di relatori che si sovrappongono le une alle altre e si mischiano a quelle del pubblico generando un intollerabile frastuono di fondo, difficoltà a procurarsi un misero panino nei punti ristoro presi d’assalto dalla folla all’ora dei pasti, file interminabili ai bagni etc…etc…). Personalmente, anche quest’anno, ho resistito solo per tre giorni e sono andato via desiderando ardentemente il ritiro in un eremo francescano dove regnasse il silenzio.

Tuttavia, pur in un lasso di tempo così breve ed in un’atmosfera così caotica, ci sono stati molti momenti indimenticabili. Come l’incontro con il figlio di Jerome Salinger, uno dei più grandi e misteriosi maestri della letteratura americana che con il suo capolavoro ha contribuito a formare le coscienze di più di una generazione di giovani di tutto il mondo. È stato bellissimo introdursi nella dimensione privata di questo artista, senza pruderie o desiderio di scoprire chissà quale segreto, così come farebbe, appunto, un figlio che vuole solo rendere omaggio ad un padre che ha molto amato. La presunta misantropia, le accuse di essersi colpevolmente isolato dal mondo, di aver interrotto la pubblicazione dei suoi capolavori per un presunto atteggiamento di superiorità nei confronti del pubblico che lo aveva osannato, si sono sciolte al calore del racconto di questo padre famoso a cui bastava guardare il figlio negli occhi per un attimo, per leggergli dentro e capire tutto di lui; di quest’uomo che anche al culmine del successo e della notorietà rimaneva autentico e buono, dedito ad aiutare tutti quelli che glielo chiedevano; di questo autore che non ha mai smesso di scrivere ma solo di pubblicare e, comunque, non ha mai espresso l’intenzione di tenere per sé i suoi scritti. Quindi, il messaggio confortante per tutti noi che abbiamo amato le sue opere è stato che tra qualche anno saranno pubblicati degli inediti. E noi non vediamo l’ora.

Momenti indimenticabili per me sono stati anche quelli in cui ho ascoltato chi i libri li ama, li studia e dedica la vita a farci conoscere la magia che si racchiude in essi. Ho compiuto così meravigliosi viaggi, per esempio nel mondo di Hermann Melville, di cui ho capito molto di più in quell’ora dedicata alla presentazione del volume che raccoglie molte delle sue poesie che non dopo due mesi di faticosa lettura di Moby Dick, o in quello dei libri animati, che ho appreso con gioia e stupore non essere solo strumenti di svago ormai desueti per bambini riflessivi, giudiziosi ma che non amano giocare a pallone o non hanno a disposizione una play station ma, piuttosto, vere e proprie opere d’arte grafica e portentosi strumenti di conoscenza e divulgazione scientifica fin dai primi secoli del secondo millennio, come peraltro ampiamente illustrato nelle due mostre contemporanee, a Roma e Torino, di cui l’incontro al salone ha fatto da presentazione. E che il curatore del progetto sia stato un professore universitario di Lettere mio grande amico, è stato ulteriore motivo di immenso piacere e legittimo orgoglio: complimenti Gianfranco, sei stato bravissimo. Eh già, la mia passione per i libri è sicuramente alimentata dal mio rapporto di amicizia fraterna con persone che i libri, non solo li studiano, come Gianfranco, ma che li scrivono proprio, e con grande successo, come Mauro. Quest’anno mi sono incontrato fugacemente con lui più volte nel corso dei miei tre giorni al Salone, in occasione della presentazione del suo libro o della sua partecipazione alle molte iniziative in cui è stato coinvolto, alle quali ho puntualmente assistito. Ma i momenti più belli sono stati quelli in cui ci siamo ritrovati tra gli stand, andando a zonzo senza una motivazione particolare e chiacchierando delle grandi come delle piccole cose, come fanno gli amici. Nel suo ultimo romanzo, Mauro ha parlato di sé anche attraverso la celebrazione dell’amicizia, ed ho così provato sulla mia pelle l’inebriante e sconcertante sensazione del passaggio dalla vita vera a quella descritta nelle pagine di un romanzo. Sono diventato improvvisamente, bontà sua, persona/personaggio, e questo duplice ruolo mi ha sconcertato e ancora mi sconcerta, come lui sa bene. Tuttavia, ho potuto constatare direttamente come la scrittura si nutra dell’esperienza dell’io, come lui mi ha detto più volte, ed io aggiungo che la lettura è un impegno che trova motivazione nel tentativo di far propria quell’esperienza, perché possa in qualche modo arricchirci. È proprio questo il motivo per cui abbiamo sempre più bisogno di scrittori onesti, capaci ed ispirati, libri illuminanti, avvincenti e provocatori e festival, come quello di Torino, che li celebrano: perché la scrittura si nutre dell’esperienza di chi scrive e nutre quella di chi legge: un circolo virtuoso che ci può molto aiutare a comprendere sempre meglio noi stessi e la vita che viviamo. E niente paura se, chiudendo il libro, avremo deciso di iniziarne una nuova.