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Quest’anno si celebra il settecentesimo anniversario dalla morte del “ghibellin fuggiasco” Dante Alighieri, avvenuta fra il 13-14 Settembre 1321, a causa della malaria, contratta durante il viaggio di ritorno da Venezia, ove era stato mandato in qualità di ambasciatore per la famiglia Da Polenta, a Ravenna. Il Sommo Poeta veniva esiliato dalla sua “Fiorenza” in base a due sentenze, emanate dai guelfi Neri, vittoriosi sui guelfi Bianchi (per i quali Dante parteggiava), grazie soprattutto agli aiuti sia di Papa Bonifacio VIII sia del Re di Francia Carlo di Valois. La prima è datata 17 gennaio 1302 e la seconda 10 marzo, questa riporta «Alighieri Dante è condannato per baratteria, frode, falsità, dolo, malizia, inique pratiche estortive, proventi illeciti, pederastia, e lo si condanna a 5000 fiorini di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici, esilio perpetuo (in contumacia), e se lo si prende, al rogo, così che muoia”».    

Si arriva a queste sentenze quando il Sommo Pontefice Benedetto Caetani, intravisto dal poeta come il supremo emblema della decadenza morale della Chiesa, aveva inviato il Cardinale Matteo d’Acquasparta, in qualità di pacere, per limitare la potenza nascente dei guelfi bianchi, ma la sua presenza non aveva ricucito lo strappo tra le due fazioni dei guelfi, anzi le aveva peggiorate. In seguito Sua Santità mandava il Conte di Valois, Carlo, come nuovo pacere, ma visto dal letterato fiorentino come falso “paciaro” e conquistatore; allora per limitare le mire espansionistiche del papato, la Repubblica di Firenze mandava a Roma tre ambasciatori, tra cui Dante. Questi veniva trattenuto a Roma dallo stesso Pontefice, mentre a Firenze Carlo di Valois prendeva sempre più forza e potere e sistemava a capo della Repubblica il podestà Cante Gabrielli da Gubbio, esponente dei guelfi Neri, iniziatore di una politica persecutoria degli esponenti politici di parte bianca, ostili al papato. Da quel momento come annuncia l’antenato del Poeta, Cacciaguida, nel XVII Canto del Paradiso (vv.55-60) “Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente; e questo è quello strale che l’arco de lo essilio pria saetta. Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”.

Durante l’esilio avviene la stesura della celeberrima opera del poeta fiorentino, la “Commedia”, titolo accompagnato successivamente dall’aggettivo “Divina”, dato dal poeta di Certaldo, Giovanni Boccaccio[1]. L’inizio della stesura dell’Inferno avveniva nel biennio 1304-05 oppure in quello 1306-07, in ogni caso dopo l’esilio del 1302, mentre il poeta si trovava in Lunigiana. Un possibile ritocco veniva fatto riguardo al papato di Clemente V (1305-14), poi non sono stati trovati altri accenni al 1309. La scrittura del Purgatorio per alcuni studiosi si accavallava con l’ultima parte dell’Inferno e in ogni caso non presenta riferimenti a fatti accaduti dopo il 1313. Tracce della sua diffusione si riscontrano già nel 1315-16 e la scrittura del Paradiso veniva collocata tra il 1316 e il 1321, data della morte del poeta. Durante il soggiorno ravennate (dal 1318 al 1321) scriveva la stesura dell’ambientazione dell’Eden, il Giardino dei progenitori, prendendo spunto dal parco di Classe ed è proprio nel Canto XVII, che si legge: «tal qual di ramo in ramo si raccoglie per la pineta in su ’l lito di Chiassi, quand’Ëolo scilocco fuor discioglie

La durata del viaggio è di sette giorni, dal venticinque Marzo al primo Aprile del Milletrecento, anno confermato nei versi 98-99 del Canto II del Purgatorio “veramente da tre mesi elli ha tolto
chi ha voluto intrar, con tutta pace
”.

La “Divina Commedia” inizia a essere ricopiata dagli amanuensi e questo la porta ad avere una grande fortuna letteraria, tanto che presto verrà anche miniata. Il più famoso e primo codice miniato dell’Opera è il “Codice Palatino 313”, conservato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, e realizzato intorno al 1325-1350, adornato da 37 miniature della bottega di Pacino da Bonaguida, vicino allo stile pittorico di Giotto da Bondone. Contenente gran parte del commentario di Jacopo Alighieri, il Codice è appartenuto a Piero del Nero, letterato e uomo politico fiorentino, poi si sono perse le tracce finché nel 1807 viene acquistato da Gaetano Poggiali, che ha usato il medesimo Codice per l’edizione della sua “Commedia”, conosciuta anche con il nome di ”Dante Poggiali“.

Da questo manoscritto miniato estrapolo due miniature. La prima miniatura presenta il Canto VIII dell’Inferno e si vedono Dante e Virgilio ai piedi della torre sulla sponda della palude Stigia, presso la quale arriva il traghettatore Flegias, che li trasporta fino alla città di Dite.
La seconda miniatura rappresenta il Cielo della Luna, dove Dante e Beatrice “alati” incontrano gli spiriti difettivi come quello di Piccarda Donati, che spiega al Poeta i gradi di beatitudine e l’inadempienza al suo voto e infine viene mostrata l’anima dell’Imperatrice Costanza.

 

Un altro importante Codice conosciuto con il nome di “Yates-Thompson 36”, realizzato nella metà XV secolo, è conservato presso la British Library di Londra. Realizzato in Toscana su committenza del re di Napoli Alfonso d’Aragona detto il Magnanimo, umanista e bibliofilo, viene decorato con oltre 100 miniature e iniziali istoriate in apertura di ciascuna cantica, opera di due diversi autori senesi: Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta (capilettera e illustrazioni dell’Inferno e Purgatorio) e Giovanni di Paolo (illustrazioni del Paradiso).




Da questo manoscritto ho estrapolato la prima miniatura, quella della “selva oscura”, dove Virgilio aiuta Dante a uscirne fuori, dopo essere stato spaventato e impedito di raggiungere il Monte del Purgatorio da tre fiere. In basso si nota l’araldica degli Aragonesi. Dante presenta una veste azzurra e non la canonica veste rossa, mentre il poeta latino in veste rosa ha la barba (già raffigurato in tal modo da Simone Martini nel 1340 sul frontespizio “Frontespizio del Commento di Servio a Virgilio”).

 

Un’altra scena riguarda un’altra selva infernale, quella dei suicidi, dove si trova l’anima “arborea” di Pier delle Vigne. Virgilio spiega a Dante, che per parlare con queste anime, che si sono tolte la vita prima del tempo, deve spezzare dei ramoscelli così da liberarne la voce. Antica memoria di quello che succede nel Terzo Libro dell’Eneide quando Enea e i suoi compagni strappano delle erbe per ricoprire l’altare appena eretto, e sentono un lamento provenire da queste; è la voce di Polidoro, figlio di Priamo ed Ecuba.

Il terzo importante codice miniato è conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, nella Città del Vaticano, sotto il nome Urbinate Lat.365, datato 1474-1480. Il codice viene realizzato per Federico da Montefeltro, con miniature di Guglielmo Giraldi (attivo a Ferrara tra il 1445 e il 1477) e aiuti.
Ecco presentata un’immagine tratta dal Purgatorio, Canto XVII, dove Dante e Virgilio si trovano davanti una luce improvvisa, che altro non è che l’Angelo della Mansuetudine, che li esorta ad avanzare verso la prossima Cornice (IV), dopo aver cancellato la terza P dalla fronte del Sommo Poeta.

Le scene tratte dalla “Commedia” sono molteplici, ma si arriva all’apice dell’illustrazione dell’Opera con tre grandi pittori, diversi per periodi storico-pittorici e per età: William Blake, Gustav Dorè e Salvador Dalì.

Il pittore inglese viene incaricato nel 1824 dal pittore John Linnell di realizzare delle illustrazioni delle tre Cantiche dantesche per ricavarne delle future incisioni. La morte prematura del pittore ha fatto sì che l’opera non venisse completata e oggi rimangono 102 acquarelli (72 dell´Inferno, 20 del Purgatorio, 10 del Paradiso), in diversi stati di elaborazione. Uno scritto autografo lasciato da Blake dichiara che «Ogni cosa nella ‘Commedia’ di Dante dimostra che, per scopi tirannici, egli ha fatto di questo mondo le fondamenta di tutto e della Dea natura e non dello Spirito Santo.»

Dal Canto XXIX al XXXII viene presentata la processione mistica, che annuncia la comparsa di Beatrice e rappresenta tutta una scena allegorica. Nell’acquarello di Blake si vedono i quattro animali circondanti un carro trionfale a due ruote, trainato da un grifone che porta il giogo al suo collo. Le due ali del grifone si ergono tra la lista luminosa al centro e le altre tre da ciascun lato, salendo tanto in alto da non essere vedute; l’animale ha le parti da uccello di colore dorato, le altre di colore bianco e rosso. Non solo l’antica Roma non aveva un carro così bello con cui celebrare i trionfi di Scipione o Augusto, ma addirittura il carro del Sole sarebbe povero a paragone di esso (Dante ricorda come questo deviò dal suo cammino sotto la guida di Fetonte, occasione nella quale Giove esercitò la sua giustizia in modo misterioso). Sarà sul carro che apparirà Beatrice  “così dentro una nuvola di fiori che da le mani angeliche saliva e ricadeva in giù dentro e di fori, sovra candido vel cinta d’uliva donna m’apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva”.

Dante non la riconosce subito ma “d’antico amor sentì la gran potenza”.

Sempre legato al tema dell’amore presento l’acquerello raffigurante il vortice dei Lussuriosi dell’Inferno (Canto V), dove dentro si trovano Paolo e Francesca. Le loro anime come quelle dei lussuriosi vengono rappresentate come avvinghiate, entrambe formano un’unica materia. Francesca è la sola a parlare, mentre Paolo tace e piange alla fine del racconto della donna. Francesca da Ravenna si presenta e ricorda l’assassinio subìto ad opera del marito, poi (su richiesta di Dante) spiega la causa del loro peccato, ovvero la lettura del romanzo di Lancillotto e Ginevra, che li spinse a intrecciare una relazione amorosa.

 

Nel 1861 Gustav Dorè, raggiunta la fama e il prestigio artistico, pubblica delle illustrazioni sulla “Divina Commedia”.         

Una scena riguarda il Canto XXX del Purgatorio quando Dante beve l’acqua dell’Eunoè, per riportare alla memoria delle anime pronte al Paradiso ogni bene da esse compiuto, dopo aver bevuto prima l’acqua del fiume Lete, che cancella la memoria del peccato. Ora ad affiancare il poeta fiorentino non c’è “il duca mio”, Virgilio, ma Stazio, incontrato in Purgatorio e Beatrice, che indica a Matelda il fiume Eunoè.       

 

 

 

 

Un’altra scena del litografo e pittore francese è quella di Minosse, collocato nel Canto V dell’Inferno, quale giudice dei dannati che indica loro a quale Cerchio sono destinati. Minosse è posto all’ingresso del II Cerchio (lussuriosi) e ha caratteri bestiali: ringhia, ha una lunga coda che avvolge attorno al corpo tante volte quanti sono i Cerchi che il dannato (il quale gli confessa tutti i suoi peccati) deve discendere. Dorè lo rappresenta con la corona in testa, dal momento che è stato un giusto Re di Creta e per questo posto come giudice nell’Inferno.
Arrivando più vicini ai nostri giorni per quanto riguarda le celebrazioni dantesche, non si può non citare il pittore catalano surrealista Salvador Dalì. In occasione della commemorazione del 700° anniversario della nascita di Dante Alighieri, il Governo italiano commissiona a Dalí le illustrazioni dei canti della “Commedia”. L’artista inizia a realizzare 102 acquarelli per l’Istituto Poligrafico dello Stato, ma con il passare degli anni si animano delle polemiche, riguardo la decisione di far realizzare a un artista straniero le illustrazioni di un’opera di un poeta italiano. Alla fine si decide che l’opera di Dante deve essere illustrata da un pittore italiano e il contratto tra il pittore catalano e la Libreria dello Stato viene così revocato. Gli acquarelli sarebbero stati restituiti al pittore dopo quattro anni, il quale alla fine decide di venderli nel 1959 all’editore francese Josep Foret.

Di seguito sono presentati tre acquarelli uno per ogni cantica, le immagini nascono dal torbido agitarsi dell’inconscio del pittore e riescono a prendere forma solo grazie alla razionalizzazione del delirio.

L’applicazione del suo metodo porta alla creazione di scene e soggetti all’interno di spazi onirici ritratti con leggi prospettiche irrazionali.

Il primo rappresenta “Cerbero” il cane a tre teste a difesa dell’ingresso degli Inferi, dalla barba sudicia, gli occhi rossi e dagli artigli lunghi e temibili; quindi un mostro orribile, che si agita continuamente fino a quando non addenta qualcuno. Realizzato con il colore nero, tipico dell’Inferno, e dal tratto veloce e vorticoso, come è veloce l’azione in cui impenna sulle zampe posteriori per evitare che i due personaggi entrino nell’Inferno. Di questo mostro si vedono le sei zampe e le tre teste, più che un cane sembra un cavallo.

 

La seconda è tratta dal Purgatorio e illustra il congedo di Virgilio da Dante, dal momento che sarà Beatrice ad accompagnarlo nel terzo mondo, il Paradiso, dal momento che il Poeta latino non può entrare nel Regno di Dio. Nel Canto XXVII Virgilio dichiara “non aspettar mio dir più né mio cenno; libero, dritto e sano è tuo arbitrio, e fallo fora non fare a suo senno: per ch’io te sovra te corono e mitrio”. Dante non deve più attendere le indicazioni del “duca” poiché il suo arbitrio è finalmente sano e sarebbe un errore non affidarsi ad esso, quindi Virgilio lo incorona come signore di se stesso. Le figure sono ancora caratterizzate da materia sotto le vesti, come succede anche per i personaggi infernali; ma non per le anime beate del Paradiso, dal momento che sono impalpabili per la loro leggerezza e impossibili da descrivere e tratteggiare con la parola umana.

Il terzo dal Paradiso rappresenta colui, che citato all’inizio, dichiara al suo discendente Dante le sorti dell’esilio: Cacciaguida. La sua figura contiene ed emana luce, tanto che il Sommo Poeta descrive con queste parole la veduta nel Canto XV:
“Quale per li seren tranquilli e puri
discorre ad ora ad or sùbito foco,
movendo li occhi che stavan sicuri,
e pare stella che tramuti loco,
se non che da la parte ond’e’ s’accende
nulla sen perde, ed esso dura poco:
tale dal corno che ‘n destro si stende
a piè di quella croce corse un astro
de la costellazion che lì resplende;
né si partì la gemma dal suo nastro,
ma per la lista radial trascorse,
che parve foco dietro ad alabastro”.

Nel V Cielo, quello di Marte, si trovano gli spiriti combattenti per la fede e stanno disposti sui bracci di una croce, simbolo del trionfo di Cristo e della fede.

Con questo excursus sulla Divina Commedia vista dal punto di vista artistico, grazie all’aiuto delle illustrazioni artistiche, posso augurarvi di poter “tornar a riveder le stelle”.

                                                                                                                                                 


[1]Dal momento che non è pervenuto alcuno scritto autografo di Dante, ma sono conservati tre manoscritti della “Commedia” copiati integralmente da Giovanni Boccaccio, che a sua volta si era servito di manoscritti copiati a loro volta.