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Usciti sulla terrazza del Centro Turistico, un edificio tra il minimalista postindustriale quasi elegante e un Brutalismo severo forse ispirato alla brutalità della storia che pervade quel luogo, la mole martoriata della prigione del penitenziario di Port Arthur si presenta in tutta la sua possenza nonostante la distanza.

I resti del penitenziario

Il tempo, l’incuria di chi, abbandonandola, aveva cercato di fare sparire memorie e vergogne troppo difficili da esorcizzare, gli incendi che regolarmente divorano intere regioni di questa piccola isola, e la superstizione, prodotto inconscio del senso di colpa di chi le sopravvisse, hanno fatto scempio di quella che era diventata una vera e propria comunità, il primo nucleo sociale di una colonia che diventerà poi la Tasmania, lasciando al loro posto rovine puntellate recentemente con tecniche molto sofisticate, spazi dove cunette ed avvallamenti suggeriscono i siti di costruzioni ormai sparite, strutture per la punizione, il contenimento e la salute dei galeotti e casette ormai disabitate che una volta avevano ospitato i personaggi su cui cadeva la responsabilità di gestire la popolazione dei galeotti e di chi se ne prendeva cura.

La mappa del territorio di Port Arthur

In alcune di queste si può anche entrare e vi si possono ammirare gli oggetti di tutti i giorni disposti come se stessero aspettando quelle mani, quei riti familiari, quelle voci nel dramma quotidiano di una lotta impari, ma tenace, per la sopravvivenza in un mondo alieno che non aveva nessuna somiglianza con quello che era stato lasciato dietro, e spalle a migliaia di miglia di distanza.
C’è sempre una notevole folla di visitatori, non solo turisti da ogni parte dell’Australia e del mondo, ma anche gente locale, spesso attratta dal filo che la lega personalmente e intimamente alla storia stessa del luogo e a quelle memorie grazie a un antenato galeotto o assoldato al servizio del sistema o perfino entrambi i casi.

Eppure non si sentono schiamazzi, non c’è aria di gita in campagna, come se fosse piuttosto una visita in un cimitero e tutti rispettassero il dolore e le tragedie che sembrano tuttora aleggiare in quel luogo come fantasmi.
Le guide sono preparatissime e tendono a ricreare non solo il contesto storico ma l’esperienza umana di chi si trovò a vivere lì per forza di cose, tutti ugualmente prigionieri, incatenati tra loro e a quella penisola lontana da ogni barlume di civiltà, sia perché alcuni non erano riusciti a scappare alla giustizia inglese e sia perché gli altri dovevano pur tenerli d’occhio e redimerli facendoli lavorare. E poi anche le loro mogli e i bimbi nati lì, e soprattutto morti lì di malattie, di fatica, di parto, di incidenti, di malinconia.
Eppure il tempo accomunava tutti intrinsecamente e simbioticamente, e marcarlo era diventato vitale per ogni individuo: i galeotti non lo vedevano che in funzione della sopravvivenza ai 7, 14 o 21 anni della loro condanna col miraggio del foglio di via che al suo termine avrebbe permesso loro di ricominciare una vita da liberi cittadini, mentre per gli altri, militari e civili, lo scandire del tempo grazie al ritmo regolare e inviolabile dei compiti da svolgere nei ruoli assegnati era l’unica cosa che desse senso a un’esistenza e che ammortizzasse i costi di un ambiente dove ogni certezza e ogni senso di sicurezza erano stati stravolti per sempre.


Foto copertina: Il principio operativo del penitenziario.