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… vai alla seconda parte

 

Uno.

Una mattina ricevette una chiamata dall’Ospedale. La aspettava da qualche giorno, lo aveva capito dalla faccia del dottore che tentava di rassicurarla “l’intervento è tecnicamente riuscito, Signora, la massa è stata asportata, aspettiamo solo il risveglio e la riabilitazione”.

Ma lo sguardo del Primario non era sincero, lei l’aveva capito subito, anche dalle affettate strette di mano degli altri medici del reparto di Oncologia, e se ne era tornata a casa con l’immagine di quel corpo – suo marito – trafitto da sonde e cateteri, adagiato sul letto della Rianimazione.

Sul bus che la riportava a casa pensò che la propria vita avrebbe avuto importanti cambiamenti, che il figlio che stavano progettando non sarebbe mai arrivato, che i sette chilometri di corsa quotidiana con lui sarebbero rimasti un ricordo del passato.

C’era da vendere la macchina, lei non aveva la patente e in più la prospettiva di una riabilitazione lunga e costosa le aveva messo addosso una importante urgenza di disfarsi di tutto il superfluo, come appunto la station wagon, coperta di foglie secche, che era ancora parcheggiata davanti casa.

Sarebbe diventato necessario trovare anche un lavoro, dato che si era dovuta licenziare per seguire il ricovero di lui, anche in prospettiva della riabilitazione, che era stata organizzata in maniera confortevole, a casa.

Ma ora. Ma ora cambiava tutto.

Al telefono, la caposala del reparto di Rianimazione le aveva detto che nelle successive ventiquattrore lo avrebbero gradualmente staccato dai macchinari che lo facevano respirare, che monitorizzavano il suo battito cardiaco, che alimentavano il suo corpo immobile nel letto.

Rispettiamo le volontà del paziente, aveva aggiunto, e poi aveva concluso rapidamente la chiamata invitandola a passare in Ospedale per firmare le carte necessarie.

Lui aveva insistito per firmare quel testamento biologico, nel quale chiedeva che non ci fosse alcun accanimento terapeutico nel caso che qualcosa fosse andato storto durante l’intervento, e poi sorridendo le aveva detto “è un fatto scaramantico”.

Il viaggio di andata era stato come surfare sui ricordi di una vita, che le cadevano davanti agli occhi come i tasselli di un domino instabile, arrivata davanti al grande edificio bianco dell’Ospedale aveva dovuto contrastare la paura del dopo e salire le scale fino al reparto di Rianimazione.

Le avevano riconsegnato gli occhiali di lui, che erano rimasti nel cassetto del comodino, e poi tutti quei moduli da firmare: non riusciva neanche a piangere, per lo stress e i modi secchi e sbrigativi della segretaria del reparto.

Si sentì stupidamente sollevata quando capì che una associazione di congiunti di malati terminali alla quale era iscritta dal momento del ricovero di Mark, avrebbe pensato alla cremazione e a tutto quello che serviva per il funerale.

Per Linda, il corpo era uno strumento perfetto, per affrontare la vita, correre sette chilometri al giorno con lui, nuotare e fare l’amore in attesa di rimanere incinta, cosa che non era successa.

Avrebbe portato l’urna di acciaio satinato a casa, con la placca con il nome avvitata sopra, e tutto sarebbe finito.

Cioè tutto avrebbe dovuto ricominciare dal quel momento.

 

Due.

Linda si accorse che una vicina di casa, due villette più in là, era manifestamente incinta, e faticava ad uscire di casa, così decise di andare a trovarla “le proporrò di aiutarla col bambino dopo il parto”.

Qualche giorno dopo prese il coraggio per il bavero e si presentò alla porta dei vicini,  suonò il campanello ed attese che quella donna venisse ad aprirle: si conoscevano di vista e avevano anche qualche volta sostato insieme sulle panchine dei giardinetti, parlando sempre di argomenti abbastanza vaghi.

La vicina, Annie si chiamava, la invitò ad entrare, e fu molto cordiale. Le disse che era americana ma da anni viveva in quella città britannica per via del fatto che sia lei che il compagno, un italiano di nome Rocco, avevano incarichi accademici all’Università “in facoltà diverse” specificò ridendo Annie.

Poi parlarono della gravidanza, e Linda scoprì che Annie era incita di due gemelli “sembrerebbe trattarsi di due maschi, l’ecografista non ha potuto essere più preciso”.

Poco prima di congedarsi con una scusa Linda disse ad Annie che se voleva, e non la riteneva una inutile invasione nella sua vita privata, avrebbe potuto aiutarla con i neonati dopo il parto.

Le disse francamente che era rimasta vedova da poco, e che il sogno di allevare un bambino si era infranto contro la vetrata di quel reparto di ospedale.

Annie non si dimostrò sorpresa dalla proposta di Linda, anzi le disse con entusiasmo che non avendo alcuna esperienza di bambini avrebbe volentieri accettato il suo aiuto “i nostri genitori sono in Italia, sono anche abbastanza anziani e non potranno restare qui a lungo”. Poi propose a Linda di trasformare questa affettuosa intenzione in un impegno  più duraturo “facciamo che tu diventerai la nostra baby-sitter, sei d’accordo su questo?”.

Linda fu entusiasta, avrebbe potuto curare dei bambini – anche se non erano figli suoi – e anche avere un piccolo stipendio.

 

Tre.

Linda accompagnò Annie in ospedale, assistette al parto, restò piacevolmente inorridita dal parto cesareo, senza le grida e la sofferenza che si era immaginata, aiutò le infermiere del reparto di ostetricia a sistemare i due neonati – come sono piccoli, pensò – nelle cullette termiche, ebbe un vago desiderio di montata lattea e provò ad ascoltare la sensazione che saliva dal suo piccolo seno, seguì la barella sulla quale era stata sistemata Annie fino alla sua camera in ospedale.

Rocco, il marito di Annie, non aveva voluto assistere al parto “sono sicuro che potrei svenire, non amo la vista del sangue” e aveva atteso che gli riportassero la moglie nella stanzetta nella quale erano stati aggiunti due letti, uno per la mamma di Annie, una donna imponente con il tipico colorito di chi soffre di ipertensione, e l’altro per Linda, che si sentiva ormai a pieno titolo di far parte di quella famiglia.

Durante la prima notte, Linda non riuscì a dormire e passò la nottata a passeggiare nel corridoio, passando ogni trentacinque passi davanti alla vetrata della nursery, dove i gemelli erano stati collocati vicini, e dormivano sotto le lampade per la fototerapia.

Ogni tanto qualche neonato piagnucolava, altri muovevano i piccoli arti in maniera impercettibile, nessuno aveva gli occhi aperti e Linda si ritrovò a fantasticare sul colore degli occhi di tutti quei bambini nelle cullette.

Osservò le decalcomanie con i personaggi dei cartoni animati incollate alle pareti della nursery,  alcune riproducevano cartoon che non aveva mai visto, altre invece le erano familiari, e si domandò se tutto quel colore e quelle forme così vistose non avrebbero potuto disturbare i bambini: poi si disse che avevano gli occhi chiusi e in ogni caso la luce nell’ambiente era soffusa, non avrebbero subìto nessun fastidio.

 

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