image_pdfimage_print

In questa seconda parte dell’articolo “Il restauratore di beni culturali” vedremo più da vicino gli aspetti operativi del restauro di un bene: diagnosi, metodi di lavoro e il risultato finale.

Link alla prima parte dell’articolo.

 

Parliamo ora di un case study, cioè il recupero di un mosaico: l’emblema raffigurante Ercole che uccide il leone di Nemea, conservato – o meglio accantonato – nei locali di servizio del Museo Poldi Pezzoli di Milano, e collocato sulla parete del ripostiglio antistante la scala, probabilmente negli anni trenta del Novecento, in quanto ritenuto un falso.

Foto del mosaico prima del restauro.

RM Cosa puoi raccontarci, Chiara, in merito alla parte preliminare del lavoro di recupero vero e proprio, per meglio inquadrare l’attività che hai svolto ?

CB  Il mosaico, realizzato con pietre calcaree colorate, molto diffuse in tutta Italia, misura 72cm x 51cm x 4cm di spessore. La tecnica utilizzata è l’opus vermiculatum [1]: le tessere sono di dimensioni molto piccole (3-4 mm circa) e posizionate fittamente in modo da seguire, con la loro inclinazione, le esigenze della rappresentazione figurativa. Questa consiste nell’episodio mitologico di Ercole che strozza il Leone di Nemea. Dalla documentazione esistente, si presume che in origine il mosaico fosse incassato nel pavimento dell’ atrio a piano terra.

 Come dicevo in precedenza, l’importante  fase di ricerca filologica preliminare al restauro è stata lunga e approfondita; la consultazione di tutti i documenti relativi all’amministrazione e alle finanze del museo, scritti dai membri della commissione che si è occupata della gestione del medesimo dal 1881 al 1932, ha fornito alcune informazioni utili a ricostruire la storia conservativa del mosaico. Questo è rimasto incassato nel pavimento davanti allo scalone che porta al primo piano della casa museo, rimanendo soggetto a calpestio per circa vent’anni, per poi essere esposto come un quadro nella prima sala corrispondente all’attuale ingresso.

 

RM In quali condizioni si presentava il manufatto sul quale hai lavorato ?

CB Senza entrare nel dettaglio sullo stato di conservazione dell’opera, si è trattato per lo più di stuccature cementizie che deturpavano il manufatto, una delle quali attraversava il mosaico verticalmente da parte a parte, creando una frattura che lo divideva in due metà.  Questo intervento è da collegare con tutta probabilità alla rimozione del mosaico dal pavimento, operazione alla quale ha fatto verosimilmente seguito un restauro di natura molto invasiva, come si usava nell’Ottocento, e che ha comportato l’inserimento di materiali cementizi nelle stuccature di “consolidamento”.

Inoltre il mosaico mostrava le probabili tracce di un altro intervento di restauro con tutta probabilità ancora precedente, durante il quale alcune porzioni del manufatto erano state reintegrate con tessere vitree. Ovviamente sono state fatte varie ipotesi sulle cause di questi riattamenti: assestamenti del terreno, caduta di oggetti pesanti, caduta dello stesso mosaico. Tuttavia, non essendoci documentazione a riguardo, non possiamo certificare nulla, limitandoci a esprimere delle congetture.

 

RM Immagino la parte diagnostica preliminare sia indispensabile per stabilire quali azioni intraprendere per il risanamento dell’opera.

CB Esattamente, senza un’opportuna indagine sullo stato di conservazione dell’opera e sulla natura dei materiali costitutivi del manufatto, non ha senso iniziare un intervento di restauro. Inoltre l’identificazione dei materiali è importante per capire, in aggiunta alle cause del degrado, anche il tipo di analisi puntuali da eseguire, in quanto non tutti i materiali possono essere sottoposti a tutte le possibili indagini diagnostiche. Nella fattispecie, sul mosaico sono state impiegate tecniche di imaging, si è svolta un’approfondita indagine fotografica, nonché mirati esami microscopici fondamentali per una più precisa caratterizzazione del bene.

 

RM Chiara, entriamo ora nel cuore dell’operazione di riattamento del mosaico: puoi raccontarci, in breve, le varie fasi del  lavoro ?

CB La prima fase di restauro è consistita nella rimozione superficiale del deposito incoerente di polvere e detriti di varia natura, tra cui un’esigua percentuale di sali solubili. Successivamente ho effettuato test di pulitura, ossia le prove atte a determinare la più idonea metodologia di  rimozione della malta cementizia presente sotto forma di vistose stuccature, tali da occludere gli spazi interstiziali, impedendo la corretta lettura dell’immagine rappresentata. 

 Infine, sempre a seguito dei risultati dei suddetti test, ho fatto in parte uso di un apparecchio micromotore munito di punta in acciaio inox per le zone più ardue, e ho applicato un impacco imbevuto di acqua e tensioattivo in tutto il resto del mosaico: le fughe tra le tesserine sono state liberate dal cemento ammorbidito dall’impacco, agendo in maniera manuale (la famosa iconica spatolina del restauratore N.d.R.). Dove vi era la stuccatura si è creato dello spazio vacante (noi le chiamiamo lacune), integrato con delle tesserine di calce idraulica naturale, appositamente posizionate per ricollegare il tessuto musivo, e ritoccate. Una volta terminata anche questa fase d’integrazione, ho steso una cera protettiva su tutto il mosaico.

Foto della restauratrice intenta nel suo lavoro.

RM “Chiara, un’operazione a dir poco minuziosa e delicata: sembra di essere immersi in un micromondo di tessere microscopiche e minuscoli pennelli! Il risultato è decisamente mimetizzante, oserei dire quasi impossibile da notare se non a una distanza ravvicinata. Il confronto prima e dopo è davvero sbalorditivo.“

Foto del mosaico dopo l’intervento di restauro.

RM Un’ultima, triplice domanda, Chiara, ringraziandoti dell’attenzione che hai dedicato ai lettori di Diatomea: quanto tempo ha richiesto tutto il lavoro di restauro nel suo complesso, quanta soddisfazione ti ha dato e quanto ha facilitato, o meno, la datazione del reperto in funzione della sua originalità /falsità ?

CB Un tempo abbastanza lungo considerando i test, le sperimentazioni, la ricerca della documentazione, la richiesta di consultazioni da parte di esperti e l’esecuzione vera e propria del restauro. La soddisfazione non è mancata nel rendermi conto di avere per le mani un reperto di epoca antica; confrontandomi con il Dott. Andrea Di Lorenzo, conservatore del museo, che si è occupato ampiamente dei falsi del Poldi Pezzoli, è sorto subito il dubbio che si trattasse di un originale e non di un falso. Recentemente abbiamo ricevuto in visita la Dottoressa Cristina Boschetti, del Centro Nazionale di Ricerca Scientifica di Parigi, che ha dato il suo parere positivo sul mosaico, ritenendolo quasi con certezza un originale di epoca romana, ascrivibile molto probabilmente alla seconda metà del I sec. a.C.

A livello materico la prova più sicura è data dai risultati ottenuti dall’impiego di una tecnica diagnostica XRF, fluorescenza a raggi X; nel caso di indagine su materia organica è il carbonio 14 a consentire maggior precisione nel datare un reperto, ma con i materiali inorganici è molto più difficile stabilire una corretta datazione.

Nel caso in questione è stato determinante il rinvenimento di faïence, un materiale simile al vetro, riscontrabile solo in epoca antica e quindi un indizio che depone a favore dell’antichità del manufatto. Nel rispetto dell’indispensabile cautela richiesta anche dal prestigio del museo ospitante, non ufficializziamo ancora la sua autenticità, ma la riteniamo altamente probabile. Potrebbero far seguito ulteriori e costosi test per emettere il verdetto definitivo.

Che ne è stato dell’oscuro artigiano che ho menzionato all’inizio dell’intervista?

 

[1] L’espressione deriva probabilmente dal latino vermiculus (verme) con cui si intendeva sottolineare l’andamento curvilineo e serpeggiante delle piccolissime tessere musive.


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati, tutte le altre sono soggette a copyright ©Rita Manganello

1 commento