Una risaia lontana dai mercati dell’arte

Documenta è il museo dei cento giorni, la rassegna d’arte contemporanea che ogni cinque anni, dalla città di Kassel nella Germania centro-occidentale, promuove movimenti artistici all’avanguardia. Arrivata quest’anno alla sua quindicesima edizione, dà letteralmente uno scossone all’idea di arte e di diffusione dell’arte, per diventare una mostra che vuole sovvertire le regole dell’arte e quelle della società. Si inizia con “un approccio curatoriale che mira a un diverso tipo di modello di utilizzo delle risorse orientato alla comunità – dal punto di vista economico, ma anche in termini di idee, conoscenze, programmi e innovazioni”. Il cambio è dato dalla nomina alla direzione artistica non a una sola persona, quasi sempre europea, ma ai nove membri di Ruangrupa, un collettivo indonesiano di artisti, architetti, ingegneri, sociologi, designer, musicisti e scrittori. “Cerchiamo di produrre una nuova estetica, un paradigma etico in cui lo spettatore è obsoleto”, afferma il gruppo nel manuale della mostra. “Il nostro lavoro non dovrebbe essere giudicato da un estraneo, ma in termini di benefici che porta alla comunità che lo crea”. Sovvertire le regole del circuito “altamente competitive, espansive a livello globale, avide e capitaliste” e fare di tutto per capovolgere l’istituzione di Documenta.

I Ruangrupa parlano di creazione attuale come di un ecosistema popolato da collettivi e professionisti non convenzionalmente associati all’arte contemporanea, ma piuttosto a “un’arte a misura d’uomo che opera nei servizi pubblici, nelle scuole, nelle banche, negli ospedali e nelle università, con un ibrido di prassi e forme”. Hanno scelto di organizzare la mostra secondo i principi del lumbung, termine indonesiano per indicare un granaio di riso dove la comunità del villaggio immagazzina il raccolto e lo gestisce collettivamente. Lumbung diventa il modello artistico ed economico interdisciplinare che risponde ai principi di collettività e equa condivisione delle risorse. La modalità con cui definire e organizzare la rassegna è l’altra piccola rivoluzione. Il risultato è un’opera corale firmata da 15 collettivi e 54 artisti per un totale di 1.500 creatori, la maggior parte proveniente dall’emisfero meridionale, praticamente sconosciuti o i cui nomi scompaiono sotto la sigla di un collettivo, divisi tra i cosiddetti membri lumbung e artisti lumbung, in riferimento al metodo di raccolta e gestione del riso. Chi visita Documenta 15 entra in una manifestazione “practice-based”, si trova in una mostra che è un racconto di pratiche ambientaliste, sociali, educative, economiche che appartengono al sud globale del mondo. Una rassegna che si dipana per 32 sedi, distribuita lungo quattro distretti, ciascuno contrassegnato da un colore e da un concetto: il giallo, al centro, corrisponde al cuore della città con i luoghi tradizionali di Documenta; il rosso a nord, nella zona universitaria, dedicato alle questioni sociali; a est, il circuito viola, nell’area di Bettenhausen, nei colossali spazi industriali della società Hübner, il riferimento è all’industria e alla produzione; e il percorso verde legato all’ecologia sulle rive del fiume Fulda. Per tutta l’esposizione l’idea dei Ruangrupa: “Dalla letteratura, alla sociologia, all’economia, alla musica elettronica o all’architettura, creiamo ambienti in cui le persone si relazionano o semplicemente si siedono per parlare di storia dimenticata, nuovi colonialismi e narrazioni migratorie. Non ci sarà molto lavoro, ma ci saranno molti processi”. Uno striscione di protesta è ben visibile sulla facciata Fridericianum: STOP THE KILLINGS. È realizzato dall’artista attivista Kiri Dalena, è un messaggio di RESBAK (Respond and Break the Silence Against the Killings) un collettivo di artisti fondato per organizzare la guerra alla droga nelle Filippine. All’interno dell’austero edificio neo-classico lo spazio espositivo è diventato Fridskul, una scuola utilizzata da artisti e collettivi per discutere e praticare diversi modelli di educazione orizzontale. È proprio questo il lumbung, luogo domestico e spazio sociale dove tutti possono riunirsi, trasformando il freddo spazio museale del Fridericianum in un luogo caldo e dinamico.

Il Wajukuu Art Project, un gruppo basato nello slum di Nairobi, ha realizzato un tunnel che conduce all’interno della Documenta Halle immergendo chi gira per la mostra nell’atmosfera Mukuru con metalli, giochi di luci e suoni che ricordano quelli della città d’origine. In Kenya il gruppo organizza corsi d’arte per i bambini abituati a lavorare nelle discariche. Il Baan Norg Collaborative Arts and Culture, viene dalla Thailandia e gestisce un progetto diviso in tre parti: una rampa per skateboard nella Halle, un teatro di ombre tipico tailandese, il Nang Yai, e un programma per aiutare lo scambio di latte e formaggio tra le fattorie di Nongpho e quelle di Kassel.

Britto Arts Trust è un collettivo del Bangladesh e si concentra sulle politiche nutrizionali e sulle comunità che subiscono gli effetti dell’industrializzazione. C’è anche chi lavora sul riconoscimento della diversità neurologica con artisti e creatori con complesse esigenze di supporto e chi ha organizzato una passeggiata nel parco lungo il fiume tra installazioni fatte da spazzatura per attirare l’attenzione sul trasporto di rifiuti elettronici e tessili verso i paesi del sud del mondo. Il collettivo The Black Archives con il proprio archivio storico composto da documenti e libri di scrittori e scienziati di origine surinamese o africana mostrano cosa possono diventare le pratiche archivistiche quando sono legate alle proteste di una comunità. Così come Les Archives des luttes des femmes en Algérie con più di 60 cartelloni di film, manifesti politici e fotografie relativi ai collettivi di femministe algerine dal 1962, anno di indipendenza del Paese, fino alle rivolte popolari del 2019. Sono esposte le opere di Ceija Stojka, artista rom, che ha raccontato l’olocausto del popolo gitano insieme a quelle di János Balázs, il primo artista rom-ungherese ad affermarsi come tale. Nell’Hallenbad Ost, la piscina costruita nel 1929 in stile Bauhaus , il collettivo indonesiano Taring Padi, che considera compiti primari l’organizzazione, l’educazione e il conflitto, presenta tutto il suo archivio su 600 metri quadri di esposizione. Striscioni di grande formato, poster xilografici e wayang kardus, le marionette di cartone a grandezza naturale, sono le opere d’arte che testimoniano le lotte operaie, contadine e sociali degli ultimi 22 anni. La chiesa di St. Kunigundis è stata trasformata da Atis Rezistans, collettivo di sculture haitiane, in un santuario voudou, pieno di assemblaggi di teschi e ossa umane, reperti di discarica e vecchie parti di automobili. Nella rotonda dell’Hessisches Landesmuseum vengono consegnati ai visitatori tablet e cuffie per attivare una scultura, che rende visibile con la realtà aumentata il sistema di credenze cosmologiche pan-pacifiche che ha ispirato i segni sulla facciata dell’opera d’arte. È uno dei tre contributi artistici di FAFSWAG, un collettivo di artisti lgbtq indigeni della Nuova Zelanda che protestano contro la “cancellazione delle persone e delle identità diverse di genere nelle culture del Pacifico”.

Nel grande piazzale della stazione ferroviaria, per terra, si trovano i disegni di Dan Perjovschi, è il suo Horizontal Newspaper su cui lavora in Romania dal 2010, i temi trattati sono appartenenza, comunità e futuro. Ovunque disseminate nei tanti luoghi di questa edizione di Documenta sono visibili le

insegne del pollo fritto Halal Fried Chicken di Hamja Ahsan, sono lì per mappare gli aspetti della storia islamica, fra sottoculture di fastfood urbane diasporiche e passato coloniale.

La città di Kassel fu il centro cruciale nella politica del Terzo Reich, snodo ferroviario e sede delle principali industrie di armamenti. Venne rasa al suolo dai bombardieri britannici nel 1943 e ricostruita in cemento armato compresso solo negli anni ’50. Per la poca distanza dal confine con la Deutsche Demokratische Republik divenne la “periferia del mondo libero”. Oggi questa risaia comune di arte fatta di archivi e pratiche dialogiche ed esperenziali più che visuali, racconta temi legati ai cambiamenti climatici, alle lotte contro le censure e le oppressioni politiche, contro le speculazioni che distruggono le economie locali, parla di antirazzismo e decolonizzazione, di riconoscimento di soggettività diverse, sposta lo sguardo occidentale verso la collettività nel suo significato più ampio. Con una guerra a un migliaio di chilometri di distanza a est non è solo un esercizio di stile.





Creating a vibe – Vaughan Oliver, parte II

Come di consueto, Valerio Michetti ha creato una playlist dedicata, che vi accompagnerà durante la lettura:

Ultra Twisted Art #2

“I Pixies sono stati al centro della mia vita” (V.O.)

Merita un capitolo a parte il lavoro di Oliver con i Pixies.  Insieme al fotografo Simon Larbalestier ha progettato la grafica dell’intera discografia della band, disegnando le copertine dei cinque album in studio, degli EP e delle edizioni speciali, tra le quali le due edizioni limitate del celebre cofanetto “Minotaur”, con cui i Pixies celebrarono i vent’anni del loro “Doolittle”.  Il box include tutti gli album in formato CD placcato in oro a 24k, cinque 12” in vinile da 180 grammi masterizzati dai nastri originali, un DVD, un Blu-ray, il live a Brixton del 1991, un art book di 96 pagine e un altro di 54, oltre a stampe e due poster.

[approfondimento su “Minotaur”: digital press release #1; #2; #3, Unveiling Pixies Minotaur]

Oliver e i Pixies si incontrarono alla 4AD, giardino dell’arte di Oliver stesso ed etichetta discografica della band, riuscendo ad instaurare una collaborazione intensa e altamente fecondo.  Oliver ebbe un contatto diretto con la fase creativa dell’album e libero accesso alle sessioni di registrazione, fu in grado di immergersi completamente nella musica e nei testi del disco.

Oliver disse: “In genere era Blake Francis (alias di Charles Michael Kittridge Thompson IV, voce e chitarra dei Pixies) con cui lavoravo ed era sempre estremamente professionale. Siamo partiti con il piede giusto e abbiamo condiviso un simile oscuro senso dell’ umorismo” . […]

“C’è una straordinaria tensione creativa nelle loro canzoni, perché molto spesso quello di cui cantano è terribile, ma c’è un umorismo che fa da contrappunto all’orrore. La sua energia ti fa sorridere, in una sorta di modo shakespeariano e tragico.”

Come on Pilgrim

Nel 1987, la band di Boston aveva pronte le otto tracce dell’album di debutto: “Come on Pilgrim”.  Blake Francis aveva chiesto al dipartimento grafico dell’etichetta 4AD di utilizzare un nudo maschile per la copertina del disco.  Oliver inviò una bozza con l’immagine realizzata dal fotografo Simon Larbalestier,  si trattava di un un uomo irsuto con la schiena voltata alla fotocamera, Thompson ne fu immediatamente affascinato.  Oliver raccontò: “L’uomo peloso è uscito dalla busta e Charles ha detto: ‘Ecco fatto, abbiamo una band!’”.   (Il titolo originale dell’immagine era “Nimrod’s Son”, la schiena dell’uomo è di un certo Sean, un amico di Simon Larbalestier).

Un’immagine densa, non posso fare a meno di seguire il racconto del corpo irsuto e della sua posa curva, che preclude ad un mutamento (o una mutazione?), avvolto da un drappo tenebrista che mi sembra non riesca a celare il contenuto musicale dell’album.  La schiena animalesca e la testa calva e luminosa, creano un movimento narrativo chiaroscurale forte e delicato al tempo stesso.  Lo spazio intorno al corpo ha una profondità oscura, dovrebbe inquietarmi, ma la luce chiara concede morbidezza e questa immagine infine è così spudoratamente armoniosa da commuovermi.

“Ci sono così tante immagini nelle canzoni dei Pixies che era un sogno.”

Surfer Rosa

La nudità, già apparsa in numerosi lavori di Oliver, è il fulcro della copertina di Surfer Rosa, anche questa nata dalla collaborazione con Larbalestier e, come in moltissime altre opere, è un chiaro omaggio a Joel-Peter Witkin, uno dei riferimenti primari di Oliver.

Si tratta dell’iconica immagine di Isabel Tamen, ballerina di flamenco portoghese.  La leggenda narra come Oliver e Larbalestier avessero allestito il set nella cantina di un pub vicino agli uffici della 4AD, con numerosi dettagli fortemente simbolici, come il manico della chitarra, prestito di Robin Guthrie dei Cocteau Twins, che sporge dal muro in chiaro riferimento picassiano, il severo crocifisso cattolico appeso alla parete e il pesce inchiodato. 
Questa immagine è un viaggio di sapore rinascimentale di sola andata, mi perdo nel vigoroso passo di flamenco, una danza complessa e profonda di passi e emozioni, con forti movimenti rivolti verso il basso, che si oppone all’elevazione della danza classica e vengo disturbata dall’ austero crocifisso, che emerge da uno sfondo di ombre per spezzare la passione furiosa del ballo e la nudità esposta.

Per ottenere l’immagine, scattata con una Polaroid Type 55, conservarono i negativi in soluzioni di solfito di sodio molto fredde per tutto il periodo della lavorazione, così i negativi risultarono semi-solarizzati.  Larbalestier disse che fu un “felice incidente”, che casualmente riprodusse la tecnica della solarizzazione, in cui i negativi vengono invertiti di tono attraverso l’esposizione, metodo già sperimentata da Lee Miller e Man Ray.
Per Oliver il risultato era perfetto: “Aveva un’ atmosfera. C’è mistero e ambiguità, ma c’è anche un contesto emotivo. Non devi lavorarci sopra”.

Doolittle

Doolittle, una copertina in movimento.  In contrasto con “l’invecchiamento organico” dello sfondo, linee e cerchi creano diversi punti focali, al cui interno si muovono i nostri occhi, subito catturati dal musetto della scimmia nel cerchio al centro, li spostiamo sul numero 6, che ci rimanda all’angolo in basso a sinistra e poi a salire verso il numero 5 in alto a sinistra, ovvero al titolo dell’album, virando verso il nome della band e di nuovo verso il cerchio centrale.   É così? o forse voglio tentare un altro percorso? La griglia non è così costrittiva, i tagli sul metallo dello sfondo ne sono un’invitante estensione, che ci richiama per vagare ancora una volta secondo la nostra percezione, più che per strade tracciate da altri.
In realtà siamo già nell’album, l’immagine è strettamente legata al testo del brano “Monkey Gone To Heaven”, nei cui versi leggiamo “se il diavolo ha 6 anni, allora Dio ha 7 anni”.  Ma ecco che Oliver ci disorienta (o ci libera?) di nuovo, quando descrive così la copertina:

“Non ho mai dovuto prendere niente alla lettera, a parte Monkey Gone to Heaven, e anche quella canzone parla di qualcosa di completamente diverso; un buco nello strato di ozono”.

[per chi desidera approfondire Pixies: sito ufficialecanale youtubepagina ufficiale sul sito 4AD]

Concludo mantenendo la promessa fatta nella prima parte, con la copertina di “Good Day Today”/”I know” di David Lynch, di cui Oliver ha curato la grafica delle numerose versioni.

a destra Good day today – a sinistra I know

Oliver raccontò in una intervista: “Sono stato invitato dall’etichetta Sunday Best, con la quale non avevo avuto contatti precedenti.  Immagino che pensassero che sarei entrato in empatia con il lavoro di Lynch. Empatizzare? Lo adoro e ne sono stato ispirato per 23 anni da quando ho visto per la prima volta Eraserhead.”
Oliver spiegò che la musica di Lynch era profondamente in sintonia con la sua sensibilità di designer: “Senso di ambiguità. Dualità. Orrore e bellezza nella stessa pagina, nella stessa immagine. Eufemismo.”

E ancora: “ Ho ascoltato le tracce.  Avevano una bella semplicità con cui potevo relazionarmi.  Volevo mettere in relazione l’opera d’arte catturando un’atmosfera oscura più inquietante. Il mio primo punto di riferimento è stato il fotografo Marc Atkins, con cui ho lavorato per più di dieci anni” […] “Ho chiesto a Marc di darmi un angelo che si muovesse dall’oscurità alla luce. Ascoltate I know… Penso che funzioni davvero insieme, l’uomo calvo che quasi parla dei testi con un alone di luce e fuoco intorno a lui. Per me, in termini di connubio tra musica e grafica, ha funzionato magnificamente”.  Ed è l’ennesima opera leggendaria che Vaughan Oliver ha lasciato al mondo.

[per chi vuole approfondire l’esperienza: Good Day Today – Official videoI Know – Official video]

Nel febbraio del 1990, la galleria Espace Graslin, di Nantes, dedicò a Vaughan Oliver una mostra monografica di tutte le opere prodotte per la 4AD, la stessa esposizione venne proposta in seguito anche a Parigi, e fu completata dal catalogo: “Exhibition/Exposition”.

Nel 1994, il Pacific Design Center di Los Angeles gli dedicò un’importante retrospettiva, nel 2011, la University for the Creative Arts lo insignì della onorificenza di Master of Arts.

Oliver ha anche progettato design commerciali per L’Oréal e le Olimpiadi di Londra del 2012, ha diretto spot televisivi per Microsoft, Sony e Harrods.

Nel 2018 è stato pubblicato un libro esaustivo che rende onore alla sua vita e alla sua carriera:  “Vaughan Oliver: Archive

Oliver ha lasciato questo mondo il 29 dicembre 2019 a soli 62 anni, accompagnato dall’affetto del suo partner Lee.

link alla parte I




Creating a vibe – Vaughan Oliver,  parte I

“Suggerire è creare, descrivere è distruggere”

Una frase del fotografo Robert Doisneau, che Vaughan Oliver fece sua ed usò come firma dei tanti  graffiti realizzati negli anni ’70.

Ci accompagna nella lettura la playlist dei brani selezionati da Valerio Michetti:

Vaughan Oliver è uno dei graphic designer più leggendari del ventesimo secolo.

Nato il 12 settembre 1957 a Sedgefield, nella Contea di Durham, affascinato da Dalì [puoi leggere su Diatomea anche: “Salvador Dalì, Ritratto cilindrico cromo-olografico del cervello di Alice Cooper” ispirato dal lavoro di Roger Dean [articolo relativo: “Kowloon: l’oceano parallelo di Roger Dean”], con cui condivide la radice surrealista, e sedotto da artisti pop come Robert Rauschenberg e Andy Warhol, Vaughan Oliver stabilisce il centro del suo processo creativo sullo studio del profondo legame tra l’arte della comunicazione visiva e la musica.

“Da giovane io e un mio amico ci mettevamo in mostra – leggendo il NME con una copia di Frank Zappa, o Pink Floyd sotto il braccio. Ero un ragazzo della classe operaia di una noiosa cittadina della contea di Durham, non c’era una vera cultura, i miei genitori non erano davvero interessati a nulla di insolito – tutto quello che stavo apprendendo era attraverso le copertine dei dischi. era un modo democratico di scoprire l’arte. Il negozio di dischi locale era per me una galleria d’arte.”.

Vaughan Oliver, fotografia di Luca Giorietto

Nel 1979 si laureò alla University of Northumbria e si trasferì a Londra, in cerca di un lavoro presso grandi aziende di design, ma non era il suo destino, che invece incontrò nel 1980 nella persona di Ivo Watts Russell, fondatore insieme a Peter Kent dell’etichetta indipendente Axis(2) /4AD, con il finanziamento della catena di negozi di dischi Beggars Banquet, per cui lavoravano entrambi.  Kent lasciò l’anno seguente per avviare la Situation Two Records

[per chi vuole approfondire, consiglio il bellissimo libro di Martin Aston:  “Facing the Other Way: The Story of 4AD”].

L’intenzione di Watts-Russel era di dare alla sua etichetta un’immagine grafica speculare alla musica che produceva: gruppi gotici, elettronica sperimentale e musicisti al di là dei confini di genere come Matt Johnson, di cui pubblicò nel 1981 lo psichedelico “Burning Blue Soul”. 

Watts-Russel lasciò la parte grafica alla intuizione di Oliver, che ricorda:

Avevamo la libertà creativa. Tornando al 1980 [Watts] non faceva contratti. Se la band fosse stata felice, sarebbe tornata per fare il prossimo album. Non ha legato nessuno. Quello era il modo indipendente.

Ivo Watts-Russell aveva una attenzione feticistica per la musica, Vaughan Oliver ne rifletteva lo spirito in modo subliminale e innovativo, crearono un loro universo in cui traslare le opere dei musicisti, vere e proprie sonografie, attraverso cui visualizzare ipso facto le tracce dell’album, un’esperienza neurocognitiva eraclitiana di un “incessante divenire”, che riunisce la percezione cosciente allo stato emotivo profondo del pubblico, del designer e dei musicisti in un ciclo continuo.

Il primo lavoro di Oliver per la 4AD fu la copertina del singolo “Gathering Dust”, di Modern English, con Watts-Russell decise di utilizzare la fotografia di Diane Arbus “Il pensionato e la moglie in un campo per nudisti”.  Oliver aveva interpretato l’immagine quando era ancora studente, la elaborò per farne la copertina del singolo.

Diane Arbus e copertina di Gathering Dust

 

Il resto è storia, con l’alias 23Envelope e insieme al fotografo Nigel Grierson, Oliver firmò copertine per This Mortal Coil, David Sylvian e The Golden Palominos, Scott Walker, His Name Is Alive, Heidi Berry; come “v23”, con Chris Bigg, Simon Larbalestier e Marc Atkins firmò opere per Lush, Cocteau Twins, Mojave 3, The Breeders, This Mortal Coil, Pale Saints, Pixies, Ultra Vivid Scene, Throwing Muse, TV on the Radio e David Lynch, che hanno reso uniche le pubblicazioni di 4AD Records, determinando l’estetica della casa discografica stessa.

I like the idea of the sleeve seducing you into its world.” (Vaughan Oliver)

23 Envelope firma anche la copertina del primo album dei This Mortal Coil,  progetto musicale di Watts-Russell, il cui nome prende spunto dal verso dell’Amleto: “What dreams may come, when we have shuffled off this mortal coil, must give us pause”.  La leggenda narra che David Lynch volesse la traccia “Song to the Siren” per Blue Velvet, non avendo il budget sufficiente per pagare la licenza, chiese ad Angelo Badalamenti di scrivere un brano similare: “something cosmic, angelic, very beautiful”. Nacque così “Mysteries of Love”, cantata da Julee Cruise.  Nel 2011, Oliver disegnò la copertina del singolo Good Day Today di Lynch, di cui parlerò nella seconda parte di questo articolo.

This Mortal Coil poster e This Mortal Coil

L’album è “It’ll End In Tears”, la copertina raffigura una donna (una sirena?) sospesa in un elemento enigmatico (acqua, è il mare? o stelle, è polvere cosmica?), racchiude tutto lo stile di Oliver, malinconico, sognante, a tratti oscuro, con ampio uso delle tonalità seppia, strutture sovrapposte, distorsioni dell’immagine, che è sempre suggestiva e provocatoria, mai incontaminata. 

Le copertine di Oliver sono dei magici galdrastafir, che attraverso misteriosi portali ci guidano verso la parte intima dell’opera del musicista, dentro la sua vita stessa.  Ma camminiamo da soli, l’immagine non è un vincolo alla nostra percezione, attraversiamo la soglia senza forzature, accompagnati dal linguaggio surreale e potente del designer.

La texture e l’illuminazione sono buoni modi per trasmettere uno stato d’animo e quando lavori nell’ambito musicale è molto utile. il mio obiettivo è sempre stato quello di suggerire l’atmosfera della musica. […] Mi piace elevare il banale attraverso il surrealismo. mistero e ambiguità sono armi importanti nell’arsenale di un designer. Cerco di creare immagini in cui non sempre ricevi subito il “messaggio”, ma queste cose ti lasciano un gancio. lasciare spazio all’interpretazione è importante.”.

Le sue opere sono sempre condivise: il musicista, il designer e chi risponderà all’oggetto artistico sono coinvolti in una dinamica di risonanza, che qualifica l’esperienza come empatica.

La copertina di “Pod”, The Breenders, progettata da Oliver e fotografata da Kevin Westerberg, è l’evidenza del designer che stabilisce un rapporto viscerale con l’opera del musicista e il pubblico, al punto da poter attingere alla narrazione di sé nel processo creativo.  Nella immagine a lunga esposizione della copertina, sullo sfondo di un acquerello trascendentale compare lo stesso Oliver, è nudo e compie una danza della fertilità, indossando una cintura di anguille morte,  ed è già “l’accadimento” dell’album, il gesto primario e cosciente di un’opera musicale dalla strumentazione minimale e testi dagli enigmatici riferimenti sessuali. 

“Pod” – The Breeders

A questo punto pausa, respiro, dobbiamo entrare nell’universo Pixies, di cui Oliver ha firmato l’intera discografia.  Ci rivediamo nella, non meno interessante, non solo Pixies, seconda parte.

Nel frattempo: 

Vaughan Oliver Remembered By Ivo Watts-Russell (english)

23 Envelope Documentary 1985 (english)

Vaughn Oliver / 4AD – RAPIDO (Video by BBC2, 1989) (english)

Vaughan Oliver and my 4AD Records (english)

Vaughan Oliver interview (Snub TV) February 1990 (english)




LA SPIGOLATRICE MALINTESA

Stereotipi del femminile: la pin-up anni Cinquanta, o la diva procace del cinema italiano dello stesso periodo, questi i rimandi suggeriti dall’infelice scultura dedicata alla Spigolatrice di Sapri che ha recentemente acceso ampie e non sempre centrate discussioni sui social network, in una variegata kermesse di opinioni contrastanti sull’opportunità, o meno, di rappresentare la giovane donna avvezza al duro lavoro nei campi, come una Jessica Rabbit anche meno avvenente.

Sono più che certa che qualcuno, in un punto qualsiasi del Web, mi darà della bacchettona.

Maschi in un lago di bava, perché un bel sedere da guardare, sottolineato dalla veste attillata e sapientemente drappeggiata sul tonico posteriore della fanciulla, non si nega a nessuno.

Una celebrazione del corpo sessuato icona di tutti i tempi del patriarcato dominante, non rende un buon servizio al femminile.

E qui vedo già il ditino puntato sul supposto bigottismo delle affermazioni di chi ha trovato quest’opera di cattivo gusto, opera che penalizza il decorum, [¹]stravolgendo il messaggio estetico e financo storico-politico della Spigolatrice.

Qualcuno obietterà che l’artista non è costretto a creare in base a una verosimiglianza storica, tuttavia la libertà di rappresentazione non dovrebbe scadere nella banalizzazione del soggetto.

Inadeguato, non provocatorio, l’intento dell’autore, secondo il mio e non solo mio, punto di vista, laddove l’essenza del femminile si riduce alla rappresentazione degli attributi ben torniti della donna resa merce.

Altra levata di scudi dei benpensanti al rovescio: perché mai l’erotismo – là dove frainteso nel buon senso comune – dovrebbe stupirci o indignarci? La mia risposta è semplice, se vogliamo davvero considerare l’erotismo per quello che è: un intimo segreto che merita ben altro palcoscenico.

Vorrei porre l’accento sull’uso standardizzato del corpo femminile, in base a un immaginario scadente che millanta quello che non ha: una soddisfacente concezione della sensualità e della seduzione, categorie per nulla disprezzabili, che meritano la giusta contestualizzazione.

Perché la donna, “istituzionalmente preda”deve subire il peso costante di una cultura che stenta a valorizzarne lo statuto di persona abile, intelligente e competente, al di là dei propri attributi fisici? Purtroppo non dico nulla di nuovo e mi dispiace doverlo sottolineare in questo tempo che vorrei più maturo. Il femminile non lo si eternizza nell’ordine simbolico del maschile.

Siamo certi che le donne si vedano e si vivano  sempre e solo in funzione delle loro forme ?

Un’ultima considerazione che sorge spontanea: il corpo è per sua natura corruttibile, vecchiaia e malattia ne segnano il declino inevitabile.

A questo riguardo voglio ricordare, per puro tributo alla sostanza del discorso, un mio articolo apparso su Diatomea il 21 giugno scorso, commento al portfolio fotografico di una giovane donna che ha subito una mastectomia: perdere un seno, o entrambi, a causa di una grave malattia è una ferita del corpo e dello spirito. In tal caso come la mettiamo con l’icona della donna sessuata ? Come potrà sentirsi l’autrice del portfolio che si vede, ogni giorno della sua vita, mutilata di una parte così artificiosamente carica di significati stereotipati, che la deprivano della sua prodigiosa naturalezza ?

Chiudo con questa riflessione, invitando, chiunque voglia, a connettersi con la parte più intima del proprio Sè e convenire che la donna è ben altro dal proprio reificato involucro corporeo.


[¹] Categoria rinascimentale, ma di origine antica, secondo cui una forma deve essere adatta alla funzione che deve svolgere e al soggetto raffigurato.


Immagine di copertina presa da laRepubblica Napoli – Opera dello scultore Emanuele Stifano




Si può ancora parlare di libertà nell’arte? Quando e quanto una statua può essere sessista?

Questo articolo nasce dopo aver letto varie considerazioni sulla statua della “Spigolatrice”, realizzata dall’artista Emilio Stifano per il comune di Sapri e ora collocata sul Lungomare della città.

L’opera è stata apprezzata e criticata allo stesso tempo e tra quest’ultime affermazioni c’è chi pensa che l’opera sia “maschilista”, “un’offesa alle donne”, “brutta” perché rappresenta una spigolatrice con un vestito leggero e trasparente, che mette in mostra le natiche. Io direi di soffermarci di più sul bel volto che sul sedere della donna, e con ciò si capirebbe molto di più di quello che la statua vuol trasmettere. Una donna che ritorna dal lavoro dei campi con in mano una fascina di spighe e volte lo sguardo al mare, da dove arrivano “i trecento giovani e forti”.

Questi ragazzi, cantati da Luigi Mercantini nella poesia “La spigolatrice di Sapri” del 1858,  avevano aderito alla spedizione di Sapri di Carlo Pisacane nel 1857, con lo scopo di innescare una rivoluzione antiborbonica nel Regno delle Due Sicilie, poi il tutto fallisce, perché gli avventurieri vengono sopraffatti dalla forza nemica.

In questo caso la problematica è il nudo velato, ma siamo proprio sicuri che senza il nudo artistico si possa insegnare o trattare di arte?  

Francisco Calvo Serraller in un suo saggio tratta di come «la nudità non è solo una forma d’arte, ma è la stessa spiegazione – o logica – dell’arte occidentale: il punto drammatico od incrocio tra il naturale e il cielo, tra l’ideale e il vero, tra il carnale e lo spirituale, in definitiva tra il corpo e l’anima». Prima di egli anche Javier Portùs, curatore d’arte e conservatore del Museo del Prado, ritiene che «da secoli il nudo è stato la forma d’arte per eccellenza presente in Occidente, potendo esso esprimere al meglio tutti gli altri valori attraverso il colore e la materia pittorica» (“Pasion por los desnudos”, 2004).

Fin dalla notte dei tempi da quando l’uomo primitivo ha iniziato a modellare la terracotta o a scolpire o a dipingere, è il nudo il soggetto dominante. Una delle prime opere che viene studiata è la “Venere di Willendorf”, della serie le Veneri paloelitiche. Questa statuetta è alta 11 cm, scolpita in pietra calcarea e dipinta in ocra rossa e risale al 24.000-22.000 a.C.

Nell’arte paleolitica il nudo è fortemente correlato al culto delle divinità della fertilità, che vengono rappresentate con una grande stazza, con i fianchi larghi e seni sporgenti e cadenti. La cultura in cui è proliferata la rappresentazione della nudità artistica è quella classica (greco-romana), concepita come ideale estetico ma anche etico di perfezione e bellezza assoluta.

Basti pensare alle scene mitologiche di Pompei come la pittura su parete di “Venere Anadiomene” nella Casa di Venere, oppure “Apollo del Belvedere” nei Musei Vaticani, copia di una statua in bronzo creata tra il 350 ed il 325 a.C. dallo scultore greco Leocare.

Questo pensiero è perdurato nel Classicismo, condizionando il pensiero occidentale verso l’arte e il nudo. Un freno si ha avuto durante il Medioevo, quando la rappresentazione artistica si è limitata ai temi religiosi e teologici, trattati dalla Bibbia e solo in quel caso si poteva giustificare la resa nuda.

Con l’inizio del Rinascimento e l’espansione dell’antropocentrismo, la nuova cultura umanista ha riportato il nudo in auge, affiancando ai soggetti religiosi anche quelli storico-mitologici del paganesimo, soprattutto sotto forma di allegoria.

In questo caso basti pensare agli studi anatomici di Leonardo da Vinci, al David di Michelangelo, alle allegorie della “Verità” (famosa quella di Gian Lorenzo Bernini), della “Fortuna”, oppure l’”Allegoria del trionfo di Venere” di Agnolo Bronzino, la lista di queste opere “non consone” è lunga, ma voglio finire con l’opera di Caravaggio, tanto amata dal Marchese Vincenzo Giustiniani: “Amor vincit omnia”. Questo dipinto rappresenta un ragazzo nelle vesti di Amore, che vince sulle arti, riconducibili alla partitura, ai libri e agli strumenti musicali ai piedi del fanciullo. Secondo a quanto riporta Joachim von Sandrart nel suo testo  “L’Academia todesca della Architettura, Scultura e Pittura” del 1675: “era reso ancora più seducente da una tendina verde che lo ricopriva e che il marchese toglieva solo per pochi selezionati ospiti”. Questo non dovrebbe essere bollato come pedofilia? Un artista che raffigura dal vero un ragazzo senza vesti?. A pensare con la mentalità del tempo questo corpo nudo era incarnazione dell’Amore che vince su tutte le cose.    

Solo con l’impressionismo il nudo perde lo status iconografico per diventare oggetto estetico profano ed ecco che il pensiero dominante moralista mette un freno a tutte le opere considerate scandalose e tra queste basti pensare alla tela di Manet: “Colazone sull’erba”, giudicata “scandalosa indecenza” per la presenza di una donna nuda in mezzo a uomini borghesi, al di fuori del contesto classico o mitologico o storico, dove il nudo è ben accetto.

L’artista non si era che rifatto al “Concerto campestre” di Tiziano e al “Giudizio di Paride” di Raffaello, dove il corpo libero, vero, domina la scena. 

In sostanza la nudità nell’arte riflette i canoni sociali  sia in ambito di estetica che nella concezione di morale, del tempo e del luogo in cui è stata eseguita l’opera. Oppure vogliamo ritornare ai tempi della Controriforma quando il nudo viene coperto, cancellato, annullato perché considerato scandaloso secondo la morale della chiesa? L’opera che più ci ha rimesso è stato il “Giudizio Finale” di Michelangelo, che nel 1564 su disposizione della Congregazione del Concilio di Trento ha subito la copertura di ogni oscenità e il compito è stato affidato a Daniele da Volterra che per l’occasione si guadagnò il soprannome di “Braghettone”.                                                                    

Gli interventi “moralizzatori” non tacciano le critiche né le minacce di distruzione del Giudizio, che con il passare del tempo subisce nuove censure, anche nel XVIII secolo ad opera di Stefano Pozzi (quando la superficie venne anche ripassata da una vernice a colla). A far tacere le critiche sui udi rappresentati ci pensa Papa Giovanni Paolo II, quando dice che il “Giudizio” è «il santuario della teologia del corpo umano». 

Io reputo che ogni artista qualsiasi opera faccia debba essere lasciato libero di esprimere il suo pensiero con i mezzi e le proprie idee, il “moralismo” dovrebbe essere messo da parte, perché danneggia solo l’opera; in più l’attenzione deve essere posta non su com’è fatta ma sul messaggio che questa deve trasmettere.  

 





El Greco e il gioco delle sparizioni

15 giugno 1971

Il modello della Madonna Assunta di El Greco, del 1607 scomparso durante la Guerra civile spagnola riappare a New York nel 1971, intercettato dall’FBI nell’appartamento di un gioielliere. Un lungo giro di appropriazioni, sparizioni, furti, ricettazioni, fughe, accaparramenti.

Everett Fahy, già allora, nel 1971 poco più che trentenne, era uno dei massimi esperti dell’Arte Rinascimentale, dell’arte italiana ed europea del XVI secolo, e da un anno aveva iniziato a lavorare per il Met, il Metropolitan Museum of Art come curatore responsabile del dipartimento dei dipinti europei. Preparatissimo storico dell’arte e innamorato del suo lavoro che lo avrebbe spesso portato ad attriti con il nuovo direttore del Met, collezionista di libri e di dipinti, disegni e oggetti del Quattrocento e Cinquecento, rimase senza fiato quando fu chiamato ad esaminare un quadro ritrovato nell’abitazione di un gioielliere newyorchese. “Sono stato chiamato da un agente che mi ha detto, abbiamo qualcosa da farle vedere, un El Greco.”
 
 
 

Convocato negli uffici dell’FBI ha gli occhi che gli luccicano e il cuore che batte forte davanti al dipinto. “Sono stato qui circa 15 volte in passato per altri lavori, e per lo più si trattava di falsi allarmi”, ha detto, “Non mi aspettavo che ce l’avessero davvero. Ma l’ho esaminato. È qualcosa come avvertire un battito cardiaco, come per una diagnosi di un dottore, capìì subito di cosa si trattava: un bellissimo dipinto autentico del maestro”. Non ci sono dubbi, sul retro della tela è visibile la firma dell’artista, Domenico Theotocopuli, scritto in greco, il nome del pittore cretese conosciuto come El Greco.

Si tratta del modello su tela che era servito per il lavoro destinato a finire sull’altare maggiore della cappella di Oballe, San Vincente, a Toledo. Una delle sue realizzazioni sullo stesso soggetto e uno dei suoi ultimi lavori, iniziato nel 1607 e terminato con la collaborazione del figlio e della bottega nel 1613, un anno prima di morire.
 
 
 

Il modello, interamente dipinto da El Greco probabilmente nel 1607 ha un valore economico stratosferico, probabilmente un milione di dollari, una valutazione che si dimezzava se collocata al mercato nero, la cui circolazione sarebbe stata affidata alle mani del gioielliere di Manhattan. Le condizione della tela sono ottime, straordinarie per le vicissitudini che ha attraversato. “Puoi vedere la pennellata del maestro e le sue impronte digitali, dove lo ha imbrattato per dargli la qualità che gli impressionisti avranno negli anni successivi”, ha detto il dott. Everett Fahy, “si possono vedere tutti gli smalti e gli ultimi strati di pittura che l’artista ha applicato”.

 
 
 

La tela era stata inserita sin dal 1966 nella lista dei “grandi ricercati” dell’Interpol su richiesta del governo spagnolo, allora ancora retto dal dittatore Francisco Franco. Si sospettava che dalla Spagna avesse varcato l’Atlantico e fosse negli Stati Uniti, ma non erano molte e tutt’altro che certe le tracce che aveva lasciato dei suoi passaggi.

Nel momento in cui L’Fbi si era messo alla sua ricerca nel 1968 il quadro era sparito da Madrid già da trenta anni e forse più.

Sul quadro, sull’originale che attualmente si trova al museo di Toledo, abbiamo una collezione di notizie incerte, mancanti. Con tutta probabilità il dipinto era stato commissionato da una qualche famiglia nobile, ma non si sa niente a riguardo, né quale fosse la remunerazione per il lavoro o i tempi di consegna. Sappiamo che il modello,quello ritrovato a New York nel 1971, come in ogni contratto d’epoca, doveva essere dettagliato all’estremo, come il dipinto più grande, per ottenere l’approvazione del committente che per l’occasione con tutta probabilità aveva richiesto che il modello fosse realmente eseguito dal maestro e non da un suo allievo.

L’Assunzione e l’Immacolata Concezione erano tra i soggetti ricorrenti della pittura della Controriforma e lo stesso pittore cretese ci si era dedicato più volte, anche in questo caso replicando i simboli ricorrenti che avevano caratterizzato i dipinti precedenti.

Sappiamo anche che El Greco proprio negli anni in cui accettò di lavorare a questa nuova Vergine Assunta, era dentro un contenzioso piuttosto aspro con precedenti committenti per questioni di promesse di pagamento solo parzialmente onorate, che mettevano in difficoltà il suo tenore di vita, abbastanza dispendioso.

El Greco era arrivato in Spagna dopo il soggiorno italiano, dove alla scuola di Venezia, aveva risentito dell’influenza di maestri come Tintoretto, rielaborando i concetti dell’arte rinascimentale, aumentando i volumi e la rappresentazione dei soggetti in forme sinuose e allungate, in contrasto con l’estetica aristotelica. L’uso del colore aveva alle spalle l’influenza di Tiziano, e il suo manierismo risentiva soprattutto di un alto dosaggio di ambizione e di fiuto che l’avevano portato a criticare Michelangelo e la cappella Sistina proponendo al Papa Pio Vi di affrescarla seguendo con più rigore i dettami della dottrina cattolica e dell’arte come arma della Controriforma.
 

Stabilitosi a Toledo contava di poter arrivare in breve tempo alla corte del re Filippo II e stabilirsi a Madrid, ma i primi due lavori per il sovrano l’Allegoria della Lega Santa e il Martirio di San Maurizio non incontrarono la sua piena approvazione. Svanita la speranza del salto economico, sociale ed artistico, sfruttò al massimo le sue altissime capacità artistiche e quelle dei collaboratori, facendo diventare il suo laboratorio richiestissimo da ecclesiastici e nobili sia per opere di pittura che di scultura.

 

La Madonna che si prepara a dipingere nel 1607 è un riassunto visivo dei suoi decenni di studio e lavoro: la figura di Maria, allungata per dare l’idea di uno sguardo dal basso che ne sottolinea l’elevazione verso il cielo, annunciata dal frusciante drappeggio delle vesti dentro uno scenario cupo, fermo, zeppo di simboli mariani, mentre un San Giovanni pare presentarla al mondo con la supervisione della colomba divina.

Ora il 15 giugno del 1971 il modello è nelle mani del dott. Everett Fahy che studia le pieghe della tela che era stata recentemente attaccata a un’altra tela e poi montata con chiodini da tappezziere su un pezzo di compensato, senza recare danni rilevanti all’opera che L’FBI in quel momento decide di chiudere nel proprio caveau al 201 East 69th Street, in attesa di capire chi ne sia legittimamente proprietario.

Molti dei passaggi di proprietà legittimi, legittimati da conquista, o illegittimi sono infatti in parte solo ipotizzabili. Sia durante gli anni seguiti alla sollevazione militare contro la legittima Repubblica nel 1936, sia prima e soprattutto dopo il 1939 con la vittoria dei fascisti di Francisco Franco appoggiato dai bombardieri di Hitler e Mussolini.

 
La tela probabilmente era appartenuta fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento alla famiglia di Albuerne Fortunato Selgas, ricchi proprietari terrieri e amanti dell’arte, il cui successo economico era cresciuto enormemente grazie agli investimenti immobiliari nella nascente zona residenziale di Salamanca a Madrid e poi nelle tenute di Cudillero, nelle Asturias e a Jutiva. Proprietà così grandi che comprendevano la caserma della Guardia Civil, Chiese, parchi, giardini, vari immobili, tra cui un ristorante, un albergo, un distributore di benzina.
 
 
 

In quegli stessi anni l’intera famiglia, sette fratelli, inizia a ricercare e collezionare opere di periodi e scuole diverse, italiane, fiamminghe, francesi, spagnole, tra cui Goya, El Greco, Luca Giordano , Vicente Carducho e Corrado Giaquinto. Centinaia di opere di inestimabile valore che vengono custodite nelle diverse tenute e palazzi di loro proprietà.

Il 18 luglio del 1936 quando il Tercio, il famigerato battaglione proveniente dal Marocco si ribella alla Repubblica dando vita alla sollevazione militare appoggiata dai falangisti e dai proprietari terrieri, la Resistenza si attrezza nelle città e nelle campagne per una risposta armata. A Madrid, come in altre città, vengono confiscate proprietà dei fascisti e di quanti appoggiano il generalissimo Franco.

Nel quartiere Salamanca il palazzo della famiglia di Don Juan de Selgas y Marin, in Calle de Jorge Juan 7 viene sequestrato per diventare l’avamposto di una formazione di ispirazione socialista. Nel palazzo c’è il quadro di El Greco, il modello dell’Immacolata concezione. Erano state proprio le formazioni dei sindacalisti socialisti dell’UGT e gli anarchici della CNT a opporsi in diecimila, sin dal primo momento e a sconfiggere l’ammutinamento delle guarnigioni asserragliate nella caserma Montana e a tenere il controllo della città per tre anni, sino al marzo del 1939, con la caduta e la sconfitta repubblicana.

Data che coincide con la sparizione del quadro, già messo al sicuro durante i mesi dei bombardamenti e dell’assedio fascista, prima che il distretto di Salamanca rientrasse tra i primi occupati dai golpisti. Con qualche probabilità qualcuno della formazione sindacale socialista in fuga verso l’esilio l’aveva con sé in viaggio verso il confine francese e poi in Messico e da qui negli Stati Uniti.

Una copia del dipinto riappare nel 1953, ma si pensa sia un falso ben fatto o almeno per tale passa quando viene venduto a un ricco affarista che lo porta nella sua proprietà a Los Angeles. E’ un uomo dalle mille risorse, che sconfinano nell’illegalità, quando assume dei ladri per svaligiare la propria casa per truffare l’assicurazione. In quel momento l’autentico El Greco, ritenuto falso, diventa autentico nella descrizione dei beni sottratti dai ladri. Il quadro è comunque al sicuro da un vicino, in una villa di un complice anche lui disonesto il tanto che basta per tradire l’amico, o secondo un’altra ottica, timoroso di essere scoperto con un quadro ritenuto falso ma dichiarato vero, dichiarato rubato ma solo custodito. Comunque sia il quadro passa di mano di nuovo, svalutandosi sempre più. L’ha comprato una donna francese che lo porta con sé a New York. Quanto tempo esattamente ci metta per ricomparire sul mercato clandestino non è dato sapere.
 
 
 

Chi ha fatto la soffiata che ha incastrato infine il gioielliere prima che terminasse una nuova illecita transazione? Era ancora ritenuto un falso di ottima qualità? Il quadro rivendicato dal governo spagnolo come parte del patrimonio nazionale deve finire in un museo o essere ridato alla famiglia Selgas, proprietaria a Madrid? In certi momenti le memorie si risvegliano, però non sino al punto di ricostruire il percorso fatto dall’opera di El Greco da Toledo nel 1607 alla casa di Madrid di Don Juan de Selgas.

Ma la cronaca frizzante del fatto sul New York Times riporta la notizia, probabilmente confidenziale di un poliziotto dell’FBI, di stanza in Germania subito dopo la fine della guerra nel 1945 che ricorda con nitidezza un ordine che i comandi avevano dato e che un’unità dell’esercito aveva detto di essere alla ricerca di “il de Selgas scomparso”, come veniva comunemente chiamato allora.

C’era il sospetto che il quadro di El Greco potesse far parte del bottino di guerra con cui il generalissimo Franco aveva pagato uno degli alleati, il compulsivo trafugatore di opere d’arte Adolf Hitler?

Un vento impetuoso ispirato da El Greco travolge tutto e tutti intorno alla figura della Madonna, spazzando le torbide nebbie. Vorticosi abiti drappeggiati sottolineano la presenza di angeli e gigli. E per ora ci basta.


RIPRESO da www.bizarrecagliari.com ovvero «Storie della Beat Generation, della Controcultura e altro»: da gennaio racconta OGNI GIORNO vicende, persone, movimenti che il pensiero cloroformizzato e sua cugina pigrizia preferiscono cancellare. 




Graziano Guiso, il pittore del mondo onirico e dell’infanzia

Graziano Guiso, noto a tutti come il Prof, nasce in Lunigiana (nella Provincia di Massa-Carrara) e frequenta a Carrara da adolescente il Liceo Artistico, per poi entrare nel luogo dove l’Arte ha la sua massima esplosione creativa, l’Accademia di Belle Arti della città apuana. Tra i tanti professori che l’hanno aiutato a tirar fuori il suo spirito creativo ci sono stati Bruno Munari, Silvio Coppola e l’eccellente storico dell’arte Pier Carlo Santini. Soprattutto grazie ai corsi di design e graphic design, tenuti dall’architetto Coppola, Graziano acquista tecniche rigorose, che si ritrovano nell’impostazione delle sue opere; ma soprattutto grazie agli insegnamenti e ai consigli di Pier Carlo Santini, il Prof apuano entra nel mondo delle esposizioni in giovane età. Lo storico dell’arte lucchese fa partecipare Graziano alle prime esposizioni collettive: la prima nel 1991 a Valdinievole, presso Montecatini, assieme ad altri Diciassette artisti, poi l’anno seguente a Marina di Massa alla mostra “Il Mare”. Il successo si sa, viene con il tempo, e il critico spezzino Ferruccio Battolini, dopo aver seguito per anni il percorso artistico di Guiso, decide che alcune sue opere devono essere esposte nella “Collezione Battolini” presso il Centro Arte Moderna e Contemporanea dei Musei della Spezia. Di seguito alcune opere vengono inserite nel Museo Ugo Guidi di Forte dei Marmi e presso la pinacoteca del “Ciocco” di Barga, in provincia di Lucca. Nel 2011 Vittorio Sgarbi l’ha inserito all’interno del circuito “Padiglione Italia” della 54esima Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia. Dal 2016 l’artista toscano si fonde con il personaggio più celebre e importante della letteratura italiana: Pinocchio, il burattino di legno ideato e raccontato da Carlo Collodi. Pinocchio, stando alle parole del pittore Guiso, è un personaggio che ha sempre amato, perché ricco di significati e di simboli; inoltre il burattino rappresenta il “bambino”, che attraverso mille avventure e difficoltà, raggiunge la piena maturità, consistente nel senso del dovere e nel rispetto delle regole. La mostra, che si tiene in questo periodo  a Collodi, comprende ventitré dipinti, che analizzano i punti più salienti del romanzo di formazione collodiano, ed è dedicata alla moglie Daniela. “Pinocchio ha gli occhi verdi” è il titolo dell’esposizione, perché il color verde è il colore degli occhi della moglie; ecco allora che questa mostra è un omaggio a ciò che Graziano ha di più caro nella vita e nell’arte: l’amore per Daniela. Con questi dipinti, dal mio punto di vista, Graziano si aggiudica il titolo di pittore dell’infanzia, per due motivi: in primis per il tema di Pinocchio, che rappresenta il bambino-fanciullo in ognuno di noi, che solo grazie alle esperienze capisce ciò che deve essere fatto e quello che invece non lo deve essere e, di conseguenza, matura. In secundis l’infanzia è collegata al materiale semplice adoperato e alla tecnica del décollage, cioè l’azione dello strappare strati di carta, sovrapporli e spezzarli casualmente su una superficie ruvida, così da creare effetti cromatici e contrasti di luce, per delineare scene oniriche.

Prima di spiegare alcune opere in mostra, è giusto presentare delle opere esposte durante le mostre personali, che Graziano ha tenuto sia in città toscane come Carrara, Massa, Pisa, Livorno, Pistoia, che italiane come Ravenna, Torino, Gorizia, Pavia; fino ad andare oltralpe come Bruxelles nel 1997 presso il Palazzo del Parlamento Europeo dove espose paesaggi inerenti le Alpi Apuane, poi Parigi nel 2005, dove ha partecipato a una mostra collettiva a Villa Beaumarchais e nel successivo anno a Berlino nella Sede storica dell’Ambasciata d’Italia in una collettiva. Nel 2002 a Carrara nella Chiesa del Suffragio ha tenuto una mostra personale intitolata “Contemplazione onirica”, dove tra le opere veniva esposta “Civetta”.

Questo acrilico su carta composta a mano mostra una civetta su un tavolo con affianco una fetta di anguria, della quale il bordo bianco viene messo in evidenza come richiamo al fascio di luna. La civetta è dai tempi antichi richiamo del mondo onirico, il mondo del sogno, infatti Ypnos, il dio del sonno, assumeva talvolta l’aspetto di una civetta che, per far addormentare gli uomini, sventolava le sue ali scure. La civetta come il gufo sembrano simboleggiare la chiaroveggenza e la veglia spirituale, attribuiti alla saggezza, latenti nelle tenebre dell’inconscio e che, attraverso il sogno, affiorano alla coscienza. 

 

Un altro animale, che torna spesso nelle realizzazioni di Guiso, è il gatto. In quest’opera una persona accarezza il gatto, simbolo di eleganza e mistero; già ai tempi degli antichi egizi il gatto era visto come il simbolo del legame che intercorre tra il mondo umano e quello spirituale. Inoltre questo tema è stato sviluppato nel mondo dell’arte da vari artisti come Francesco Ubertini (detto il “Bacchiacca”) , Pierre Auguste Renoir, Renato Guttuso, Lucien Freud e altri. Nel nostro caso la padrona accarezza con garbo il suo animale “protettore” e allo stesso tempo fa partecipare lo spettatore a quest’azione, in modo che chi ha un gatto in casa possa capire a fondo il significato del gesto.

 

 

Legato, invece, all’ambiente naturale e quindi al contesto marino non posso non citare il dipinto “Il mare d’inverno”, come il titolo della canzone di Loredana Bertè. Il nostro pittore, abitando a Carrara, non può non cogliere le meraviglie che il paesaggio sconfinato marino lascia ai suoi visitatori. Quindi come un vedutista coglie l’essenza del mare, mettendo in primo piano i tronchi degli alberi bianchi e secchi, che vengono trasportati dall’acqua fino a riva, e sullo sfondo della scena campeggia il meraviglioso tramonto rossastro invernale, come se il tutto fosse una favola e quindi il suo perdurare eterno.

 

L’eternità indica una condizione immutabile e oltre alle opere d’arte, questa circonda le opere letterarie e il nostro artista ha saputo con la sua arte rappresentare le scene eterne di Pinocchio, tratte dal romanzo per bambini di Carlo Collodi “Le avventure di Pinocchio. Storia di un Burattino”.   Come non iniziare quest’avventura nel mondo favolesco collodiano con l’opera di Geppetto, che intaglia, in un blocco di legno, la figura del figlio da sempre voluto. Sotto una lampada a olio, tipica dell’Ottocento, e illuminata da una luce potente da essa emessa, si trovano il falegname anziano (la barba bianca è un indizio) e il figliolo di legno, che allunga il braccio per toccare con mano la figura che ha davanti, come fanno tutti i neonati quando si trovano davanti cose o persone, perché il tatto è il primo senso, che porta alla conoscenza del mondo. 

 

Nell’immagine seguente vediamo Pinocchio, che si lamenta perché le sue gambe di legno sono andate a fuoco, dal momento che le ha messe a riscaldare su un caldano con della legna ad ardere, perché bagnate durante il vagabondaggio per la città alla ricerca di cibo, visto che Geppetto era stato messo in carcere, ingiustamente, per le marachelle del figlio. La scena è piena di dolore e seppure noi partecipiamo con gli occhi a questa sofferenza, è come se sentissimo il grido di dolore del burattino.   
A concludere la serie dei décollage inerenti il romanzo di Pinocchio, ho scelto come collegamento con il tema onirico la scena di Pinocchio a letto, accudito e sorvegliato dal grillo parlante, da un corvo e da una civetta. Nel dipinto viene colto il gesto della Civetta, che tastando il polso del burattino, dichiara il suo decesso; mentre il Corvo è sempre speranzoso nella sua salvezza, dal momento che è stato trovato impiccato a un albero. 
Nella scena non ci sono contorni o elementi che denotano l’azione in un preciso momento, ma il bello che la caratterizza è l’eternità.

  

A oggi rimaniamo speranzosi che Guiso continui ad allietarci ancora con le sue mostre e opere d’arte. Un grande in bocca al lupo per tutto quello che ha in mente di fare, soprattutto farci sognare come bambini. 





ARTE IN CASA

Se non puoi venire da me, vengo io da te

La casa in primo piano durante la pandemia. «Restate a casa!»

Questa l’esortazione del governo a partire dal primo lockdown, lo scorso anno, e in parte ancora oggi, la prudenza ci accompagna.

In particolar modo per quanto riguarda gli anziani, soprattutto coloro che si sono visti chiudere i centri diurni dove trascorrevano le giornate in un ambito relazionale e di accudimento, un sostegno alle famiglie che non sono in grado di garantire una presenza soddisfacente, impegnate nel lavoro e nella routine quotidiana non sempre dilazionabile.

Ma c’è chi non si è perso d’animo, come vedremo. Data l’importanza della socializzazione per le persone non più inserite nel sistema produttivo del Paese e già avanti negli anni, la Diaconia Valdese fiorentina ha promosso un’iniziativa lodevole, volta a sopperire la mancata frequentazione del centro diurno il Gignoro, da parte dei suoi assistiti.

Il Gignoro, per mano delle sue animatrici, si è quindi fatto carico di promuovere l’ideazione e intermediazione al progetto Arte in casa – percorsi artistici individuali per anziani a domicilio, finanziato dalla Cassa di Risparmio di Firenze e sviluppato in collaborazione con alcuni soggetti pubblici e privati quali: il Museo dell’Opera del Duomo, il Quartiere 2 del Comune di Firenze, il Quartiere 3 del Comune di Firenze, il Museo Casa Rodolfo Siviero, il Museo Horne, l’Associazione La Stanza dell’Attore, Silvia Logi Artworks, l’Associazione Culturale L’Immaginario.

Un percorso artistico ed educativo domiciliare al quale hanno partecipato piccoli gruppi di ultrasessantacinquenni, che hanno potuto usufruire gratuitamente di sette incontri tenutisi nella propria abitazione, gestiti da figure professionali specializzate nel lavoro assistenziale ed educativo, con l’obiettivo di esprimersi creativamente a contatto con l’arte, partecipando anche a visite virtuali nei musei che hanno aderito all’iniziativa.

«Ogni percorso artistico seguirà un programma codificato in fasi ed attività, che permetterà ai beneficiari di esplorare i diversi linguaggi artistico espressivi (fotografia, tecnica del collage, narrazione) e si concluderà con un momento di restituzione finale nel quale saranno presentati le produzioni artistiche dei partecipanti e un video collettivo che ripercorrerà l’andamento del progetto.»

Così raccontano le promotrici di questa bella iniziativa, consapevoli dell’importanza della socializzazione attiva dei senior che altrimenti finirebbero isolati nelle loro abitazioni: le bravissime Laura Biagioli – servizio di animazione Il Gignoro e referente progetto CoOpera-ività, Annalisa De Cecco – coordinamento centro diurno e domiciliare il Gignoro, Elisabetta Mantelli – ufficio comunicazione e sviluppo Diaconia Valdese fiorentina, Patrizia Minelli – assistente socio-assistenziale, Sara Pace – counselor e arteterapeuta.

Da una conversazione con Annalisa De Cecco, alla quale ho rivolto qualche domanda in merito all’attività ancora in corso: l’accoglienza del progetto da parte dei senior, le eventuali difficoltà incontrate, l’attenzione e partecipazione, i miglioramenti osservati e il successo dell’iniziativa, ho raccolto riscontri più che positivi in termini di entusiasmo dei partecipanti, anche quelli inizialmente un po’ diffidenti e loro pieno coinvolgimento nelle varie attività.

I miglioramenti a livello personale sono evidenti, a partire dal tono dell’umore, l’attenzione, la partecipazione, la minor diffidenza e l’ansia da prestazione. 

Dalle parole di Annalisa e colleghe:

«ci sentiamo davvero fortunate ad aver fatto un’esperienza così divertente e intensa. Per rompere il ghiaccio abbiamo iniziato con l’offrire questa opportunità agli anziani che frequentavano il nostro centro diurno, chiuso ormai da più di un anno, e in un certo senso abbiamo “giocato in casa” (per restare in tema!). Poi, dopo i primi tre cicli, abbiamo iniziato a inserire nel progetto persone anziane a noi perfettamente sconosciute: è stata una sfida, ma anche un grande privilegio essere “ammessi”, in questo tempo così complicato, nelle loro abitazioni.»

Penso sia meritevole di attenzione un esempio di lavoro eseguito durante gli incontri di Arte in casa; per rendere chiara la portata di questa iniziativa, vediamo nella pratica cosa ha realizzato Gianni P., assistito da Laura Biagioli, utlizzando del semplice materiale che aveva in casa.

Gianni si è ispirato alla tecnica del mosaico creativo dell’artista Silvia Logi. Partendo dalla fotografia del banchino di lavoro del padre orafo.

Racconta Laura Biagioli:

«osservando la foto, ci siamo lasciati suggestionare da un gioco di luci che si è venuto a creare in uno degli attrezzi, un cubo con le facce incavate che servivano a dare la forma curva alle lamine d’oro e d’argento: dava l’dea dello spazio con le stelle luminose. Così abbiamo immaginato una sonda spaziale, i pianeti e altri corpi celesti che abbiamo realizzato con materiali di recupero, molti dei quali messi a disposizione da Gianni stesso. Per me, di grande suggestione, è stato osservare il suo modo di procedere nella costruzione del mosaico: ha ripreso in mano le molle che usava in bottega e con maestria, cura e pazienza, per ogni pezzo cercava la giusta collocazione come se stesse incastonando pietre preziose.»

L’elaborazione del vissuto di Gianni si è resa palese nel contesto: dalla storia personale all’essere parte di un gruppo da lui definito affettuosamente aggregazione, toccando le tematiche ambientaliste fino a porsi le grandi domande sul senso della propria esistenza in rapporto all’universo.

Le operatrici del Gignoro impegnate nel progetto sognano una prossima riedizione di questa avventura così significativa dal punto di vista umano e di valore, in un tempo nel quale a causa della pandemia e non solo, le fragilità di chiunque non sia considerato “utile” in una società competitiva e divisiva, diventano ulteriore motivo di emarginazione, laddove la passività prende il sopravvento riducendo la già scarsa autonomia di questa fascia di popolazione.

Giusto un cenno a una precedente bella iniziativa del Gignoro che ho raccontato nell’articolo Dinamiche fotografiche in un centro anziani, con l’intenzione di ricordare a chi legge quelle che sono le alternative nobilitanti per chi si occupa dell’accudimento e intrattenimento delle persone anziane che meritano, dalla vita, una seconda possibilità.


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright © Patrizia Minelli, Annalisa De Cecco, Laura Biagioli, Sara Pace




14 maggio 2004. Arte come resistenza

A Seattle si tiene la prima conferenza Art as Resistance, nata per iniziativa di gruppi di artisti e attivisti impegnati nei movimenti spontanei di protesta nati dopo la ‘battaglia di Seattle’ del 1999.

Nel 1999, i lavori del WTO (World Trade Organization) riunitosi a Seattle dovettero chiudere anticipatamente senza che le varie delegazioni avessero raggiunto un accordo finale, a causa delle massicce manifestazioni di protesta dei movimenti No-global che animarono la città nei giorni dell’evento. Nonostante le manifestazioni di  rabbia distruttiva delle tattiche black bloc e la risposta eccessiva della polizia abbiano consegnato un’immagine di  quelle giornate come violente e contrassegnate dallo scontro continuo, gran parte delle proteste prevedevano forme di guerrilla art con pupazzi giganti, parate in maschera, stendardi con immagini e messaggi di forte immediatezza visiva e forme di teatro di strada che avevano contribuito enormemente a dare un impatto senza precedenti alla protesta e che avevano avuto presa su quanti volevano manifestare il loro dissenso in forme pacifiche ma insieme efficaci in tutto il mondo.

Nel 2003 l’invasione dell’Iraq aveva dato una nuova motivazione alla rabbia dei movimenti di protesta e l’imminente campagna presidenziale del 2004 diventa per molti artisti politicamente impegnati l’occasione per affermare il valore sociale, culturale e politico dell’arte, che diventa componente fondamentale delle tattiche di comunicazione all’interno delle manifestazioni di massa.

La conferenza di Seattle nasce con l’intento di creare un senso di comunità e condivisione tra gli artisti e i movimenti civili radicali, dove l’arte può assolvere un ruolo propulsivo e decisivo nelle forme di resistenza all’imperialismo neoliberista attraverso azioni concrete da portare avanti durante le varie conventions politiche che si devono tenere per le presidenziali per tutto il 2004. Organizzata grazie alla collaborazione tra volontari e finanziatori, la conferenza prevede vari incontri e dibattiti, ma anche una serie di laboratori sulle varie tecniche artistiche funzionali alla protesta: serigrafia su pellicola, design grafico, teatro performativo, fotografia e sculture di pupazzi nella tradizione del teatro radicale della compagnia Bread and Puppets. Le sale della vecchia birreria che ospita l’evento alla periferia di Seattle accolgono una mostra di lavori portati o inviati da artisti da tutti gli Stati Uniti e diventano lo spazio per performances musicali, poetiche e teatrali che dimostrano il coinvolgente potere comunicativo delle arti e il loro potenziale politico.

 

Grazie all’impegno degli artisti, dei volontari dei movimenti attivisti e dei finanziatori privati la conferenza viene organizzata con il minimo dispendio di soldi e le forme d’arte create rispondono all’imperativo dell’utilizzo di materiali di recupero riciclati. Un punto cardine stabilito dalla conferenza è che l’arte politica deve sfuggire a qualsiasi logica commerciale capitalista. Il sottotitolo scelto per la conferenza è Fast Growing Grassroots (Movimenti dal basso in rapida crescita) e riflette la volontà di funzionare, in una collaborazione collettiva che usa l’espressione artistica come linguaggio comune, proprio come l’erba (grass) che penetra la terra con le sue radici intricate (roots) e crescendo forma un tappeto impenetrabile.

 

 

Nel corso della conferenza si tiene la performance Shadows of Exile di Edward Mast, che mette in scena il dramma degli esiliati e dei rifugiati nel mondo, in particolare in Palestina. Il reading Poets against the War e l’incontro Making Dances that Matter offrono agli oltre 200 partecipanti l’esempio di come le varie forme artistiche sappiano risvegliare le coscienze sulle urgenze collettive. Per la prima volta l’African American Writers Alliance unisce le forze col gruppo Pakistani Women Artists nel dibattito Voices of Women Group.

Tra i partecipanti a Art as Resistance ci sono anche gli ideatori della Backbone Campaign, studiata proprio come manifestazione di protesta creativa da utilizzare nel corso dei mesi futuri in occasione delle varie conventions elettorali dei partiti democratico e repubblicano. Si tratta di una lunga spina dorsale realizzata in fil di ferro e tessuto in cui ogni vertebra porta uno slogan che riguarda problematiche specifiche di natura pacifista, ecologista, per i diritti. Da questa iniziativa originaria il gruppo Backbone Campaign evolverà per offrire nel futuro tattiche espressive spettacolari e metaforiche ai movimenti progressisti che verranno utilizzate capillarmente in tutte le manifestazioni di protesta successive.

 

Art as Resistance ha inaugurato la volontà programmatica degli artisti di contribuire in maniera concreta e sostanziale a manifestare le proteste politiche con armi pacifiche, gioiose e altamente spettacolari che, per la loro capacità di coinvolgimento e per il loro impatto comunicativo non potranno più essere ignorate né confuse col rabbioso dissenso distruttivo da contrastare con la forza, nonostante le forze governative e parte degli organi di stampa continueranno a farlo negli anni successivi.

 

RIPRESO da www.bizarrecagliari.com ovvero «Storie della Beat Generation, della Controcultura e altro»: da gennaio racconta OGNI GIORNO vicende, persone, movimenti che il pensiero cloroformizzato e sua cugina pigrizia preferiscono cancellare. 





“Primer retrato de cromo-holograma cilíndrico del cerebro de Alice Cooper” “First Cylindric Chromo-Hologram Portrait of Alice Cooper’s Brain”*

… per sempre a squassare gli immaginari pigri e le etichette appiccicose

* Il titolo è volutamente nelle due lingue madre dei protagonisti, in riferimento anche all’uso di più lingue mescolate da parte di Dalì

Il musicista Valerio Michetti, per accompagnare e definire la lettura, ha creato una esclusiva playlist dedicata a Dalì & Cooper: 

Dalì’s Hell
Dalì Hologram of Alice Cooper

“La tagliente performance di Alice Cooper del 1972 “School’s Out” in Top of the Pops” ha segnato la fine dell’obbrobrio Mary Whitehous 1 e un camion che trasportava un cartellone pubblicitario di Alice che indossava solo un serpente misteriosamente si ruppe ad Oxford Circus, causando il caos” attirarono la vivace attenzione di Salvador Dalì.

Cooper: “I collaboratori di Dalí chiamarono il mio manager e spiegarono che aveva visto uno dei miei show” spiega Cooper. “Disse che gli sembrava di aver visto uno dei suoi quadri prendere vita, e che quindi voleva che lavorassimo insieme.

Il Maestro invita Alice Cooper ad una cena e gli propone di posare per un servizio fotografico, vuole realizzare uno dei primi ologrammi al mondo, facendolo posare con “un cervello di gesso ricoperto di formiche sormontato da un éclair di cioccolato” posto su un cuscino di velluto dietro la testa di Cooper, che “sedeva su un giradischi rotante con addosso oltre un milione di dollari di diamanti dai famosi gioiellieri di Harry Winston sulla Fifth Avenue” e brandisce una statuetta con il “shish-kebabbed” della Venere di Milo come microfono.

Dalí fin dall’inizio compie un’azione artistica, interpreta il suo surreale vissuto emotivo e la sua concezione del mondo, che supera il ruolo del pittore. È il Dalì che afferma: “Ogni mattina mi sveglio e, guardandomi allo specchio provo sempre lo stesso ed immenso piacere: quello di essere Salvador Dalì” a presentare il “Primo cromo-ologramma cilindrico del cervello di Alice Cooper“ in una lingua puramente inventata.

Cooper stesso racconta: “Una parola era in italiano, una in francese, una in spagnolo e una in portoghese. Non aveva senso in alcun modo. Riuscivi a capire un quinto di quello che diceva!“, ma Cooper era l’ascoltatore perfetto, da anni condivideva con Dennis Dunaway, bassista della sua band, una vera ossessione per il Maestro: “Dalí era il nostro eroe”.
Dunaway: “Prima che arrivassero i The Beatles, lui era tutto ciò che avevamo. Guardavamo i suoi dipinti e ne discutevamo per ore. Al loro interno era contenuta anche una buona dose di ironia. Quindi, quando formammo la nostra band, venne piuttosto naturale prendere alcune delle sue immagini – come la stampella – e usarle nelle nostre performance.“

Si compie così l’inevitabile destino di uno dei più surreali e stupefacenti sodalizi artistici del XX secolo tra una 25enne rockstar destabilizzante, che concludeva i suoi macabri concerti con la sua decapitazione sulla ghigliottina, e il già grandissimo e celebrato Salvador Dalì, che vuole rendere entrambi i “sovrani dell’assurdo del pianeta Terra”.

L’incontro si svolse all’Hotel St. Regis di Manhattan, un edificio del 1904 frequentato da grandi nomi come Marlene Dietrich ed Ernest Hemingway, dove Dalí passava tutti gli inverni sempre nella stanza 1610, e dove nel 1971 aveva incontrato l’artista Selwyn Lissack , da cui apprese le nuove tecniche olografiche e la possibilità per l’arte di superare lo spazio lineare, ottenendo figure volumetriche. Dalì aveva già lavorato con la lente di Fresnel per ottenere immagini stereoscopiche, ma è il Premio Nobel del 1971 a Dennis Gabor per la sua ricerca sui laser, lo spinge definitivamente verso l’olografia.
Con gli ologrammi riesce a dare il movimento all’opera in tre dimensioni, il dipinto esce dalla sua sede naturale e si pone sullo stesso piano dimensionale dello spettatore, creando un nuovo stato di aggregazione tra l’artista, l’opera e il pubblico.

Lissak scrive: “Sapevamo che per introdurre l’olografia nel mondo come mezzo artistico, avremmo avuto bisogno di un artista noto che potesse comprendere gli aspetti tecnici dell’olografia. Sono stato affascinato da Salvador Dalì sin da quando ero bambino. La sua ossessione per la ricerca e la creazione in altre dimensioni e la sua grande comprensione della simmetria tridimensionale e della prospettiva su un piano piatto lo hanno reso la scelta perfetta.”. ( Testo completo, english version )

Per Cooper è l’epifania di se stesso come alter ego di quel Vincent Damon Furnier che scende dal palco per tornare a casa dopo un concerto, e della propria visione artistica, benedetta dalla geniale follia del Maestro del surrealismo integrale. “Alice Cooper”, con quel “nome che in qualche modo mi si era appiccicato addosso, evocava l’immagine di una ragazzina con un lecca lecca in una mano e un coltello da macellaio nell’altra”, materia dell’assurdo perfetta nelle mani di un visionario “che sa dipingere pazientemente una pera in mezzo ai tumulti della storia”.

4 Aprile 1973, Dalí si presenta nella sua personale singolarità surrealista e celebra definitivamente il premeditato addio alla psicoanalisi freudiana e al “Metodo paranoico-critico”. L’intera realizzazione fa da palcoscenico all’ego smisurato di un artista poliedrico, che accoglie i mutamenti del tempo e muta se stesso in nuove forme d’arte, dove i confini tra cultura elitaria e cultura popolare si rimescolano, l’artista è primo attore e l’arte diventa spettacolo.

Arrivò al King Cole Bar dell’Hotel St. Regis su una limousine bianca, che doveva abbinarsi alla sua candida veste ricamata in oro. Cooper, che arrivò con un ampio rifornimento di birra Michelob, racconta: “All’improvviso queste cinque ninfe androgine vestite di chiffon rosa fecero il loro ingressoErano seguite da Gala, la moglie di Dalí, che indossava un tuxedo da uomo con coda, un cappello a cilindro e portava un bastone d’argento. Poi arrivò Dalí. Lui indossava un gilet animalier (tipo pelle di giraffa), scarpe da Aladino dorate, una giacca blu di velluto, e calzini viola scintillanti che gli furono regalati da Elvis Presley.

Sempre totalmente liberato dalle regole del senso, Dalì entrò per ultimo pronunciando distintamente le sillabe “Da-lí è qui!“. Ordinò per gli ospiti uno Scorpion servito in una conchiglia. Per sé chiese un bicchiere di acqua calda, lo appoggiò su un piedistallo e cominciò a versarvi del miele, da una tasca estrasse un paio di forbici con cui ne tagliò il filo. Cooper: “Io e il mio manager ci guardammo esterrefattiRealizzai a quel punto come tutto riguardasse Dalí! Il mondo girava intorno a lui. Io non lo stavo semplicemente incontrando. Stavo entrando nella sua orbita.

Un uomo con cappello a bombetta arrivò con la una valigetta nera contenente la preziosa tiara e la collana di diamanti. I gioielli furono presentati da una modella protetta da una guardia del corpo armata di pistola. Dalí disse poi a Cooper di togliere la maglietta, indossare i gioielli, sedersi a gambe incrociate sulla pedana rotante e cantare usando il microfono-kebab-Venere di Milo.

Dalí regala a Cooper l’opera “Il cervello di Alice”, la scultura di ceramica raffigurante un cervello umano con un pasticcino di cioccolata sul retro, su cui erano disegnate le formiche che componevano le parole “Dalí e Alice”.
“The Alice Brain” è scomparso: “Cerco da sempre questo cervello” dice Cooper. “È il mio Santo Graal. Si può credere che qualcuno lo stia usando come fermacarte per quanto ne so. Pagherei qualsiasi cosa per averlo.

21 aprile 1973, l’opera fu presentata alla Knoedler Gallery (una delle più antiche concessionarie d’arte di New York, fondata nel 1846, venne chiusa nel 2011, dopo 165 anni di attività). Excerpt of The Dali & The Cooper

Annie Leibovitz – “Dalì et Alice Cooper”, 1973

Oggi, “First Cylindric Chromo-Hologram Portrait of Alice Cooper’s Brain” si trova esposta al Dalí Museum a Figueres, in Spagna. Il Marchese Salvador Domingo Felipe Jacinto Dalí i Domènech ci ha lasciato il 23 gennaio 1989 ad 84 anni. Alice Cooper, che oggi è diventato “un cristiano che gioca a golf”, lo ricorda così: “Era il personaggio più bizzarro che io abbia mai incontrato, e ancora oggi dopo tanti anni ti senti vicino a lui. Lavorare con lui fu uno dei più importanti momenti della mia vita.”.

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Questo articolo esce in simultanea su La Bottega del Barbieri 


1- Mary Whitehouse – all’anagrafe Constance Mary Hutcheson – fu una celebre attivista inglese che si impegnò per imporre moralità e decenza, secondo la sua idea (bigotta al massimo) di “cristianesimo”.