Viaggio in Portogallo

Dicono che le vacanze di settembre siano quelle preferite dai ricchi e
dai pensionati: non potendo essere annoverato nella prima categoria,
mi autoinserisco -anche se in fieri- nella seconda.
Questo viaggio in Portogallo era programmato per Giugno 2020,
quando ho compiuto 60 anni, ma per via della pandemia e delle
frontiere bloccate, è stato rinviato fino a che la situazione si è
stabilizzata.
Il Portogallo è tra i paesi europei quello che ha riaperto prima degli
altri per via dell’altissimo tasso di vaccinazione, e della quasi completa
scomparsa del virus. E meglio così. Sorvolo sui dispetti che ci ha fatto
Alitalia, tanto da costringerci a raggiungere Roma in auto per non
perdere la coincidenza per Lisbona. Due notti a Faro, per esplorare
l’Algarve-paradiso dei surfisti e non solo-due a Oporto e tre a Lisbona.
Un gran numero di località visitate, grazie al fatto che abbiamo
noleggiato una vettura all’aeroporto di Lisbona: avviso importante a
chi volesse ripetere l’esperienza, le autostrade portoghesi sono tutte a
pedaggio, ma la maggior parte hanno porte automatiche, perciò
chiedete al noleggiatore se sulla vettura è presente l’apparecchio che a
mo’ di telepass -segna i pedaggi, altrimenti saranno mazzate.
Il Portogallo si gira facilmente grazie a un capillare sistema di
autostrade, ricordatevi che gasolao e gasolina non sono la stessa cosa,
e che parcheggiare non è difficile, anche perché ci sono un sacco di
parcheggi sotterranei anche sotto le piazze centrali delle città.
Le città sono pulite e generalmente poco trafficate, in divieto di sosta
non troverete nessuno!
Non si spende molto per mangiare, il cibo è genuino e non ci ha
provocato nessuno dei fastidi del viaggiatore: scordatevi la pasta e
considerate il pesce come pressoché unica forma alimentare!
E poi c’è una luce fantastica, che favorisce i fotografi: la nostra fortuna
è che il clima ci ha aiutato, non ha fatto caldo e non c’è stato freddo,
l’ideale per viaggiare. Portatevi un obiettivo tuttofare, un grandangolo
spinto e tante schede di memoria, non mancano motivi per riempirle!
Abbiamo visitato Faro, Porto, Lisbona, Coimbra, Tavira, Porto Novo,
Fatima, Aveiro, Ericeira, Sintra e altre piccole e deliziose località. Ora
basta chiacchiere, lascio che parlino alcune fotografie: penso che ci
ritorneremo.

Aveiro, una città separata dal mare da una laguna e una rete di canali, nella quale i pescatori si sono riciclati a tassisti d’acqua.
Aveiro, i murales spesso di grandi dimensioni e molto curati rappresentano sovente artisti o scienziati portoghesi.
Cabo de Sao Vicente, uno dei tanti luoghi dove il continente europeo si protende e termina nell’Atlantico, qui accanto a falesie altissime, una spiaggia ospitale.
Cabo de Sao Vicente, selfismo estremo sul finis terrae.
Cabo de Sao Vicente, il Portogallo è una meta anche del turismo da Erasmus: decine di bus hanno scaricato centinaia di ragazzi da tutta Europa, tutti o quasi con la fissa del selfie estremo.
Cacela Vehla, fortini come questo sono diffusi sulla costa.
Cacela Vehla, è un borgo nel quale vivono pochissime persone, con una chiesetta a strapiombo sull’Oceano, set ideale per lo shooting matrimoniale.
Coimbra, la classica città universitaria, austera ma popolata di giovani molto meno austeri, che ti fermano per scroccarti soldi con le scuse più fantasiose.
Ilha Tavira, dove, a pochi minuti di barca dalla terraferma, fare un bagno nell’Oceano Atlantico e incontrare uccelli limicili come i piovanelli che passeggiano tra i piedi dei bagnanti, senza sentirsi disturbati.
Lisbona, il Fado: nel ristorante dove abbiamo assistito ad una maratona abbiamo percepito di come il Fado è anche una questione di famiglia.
Lisbona, forse una delle capitali mondiali dei murales.
Lisbona, un tramonto sull’Atlantico, mentre una guida racconta di quando il Portogallo era potenza coloniale.
Porto, il surfista che cammina nel parcheggio è una presenza costante.



Strange days

Mary-Jo
Mary-Jo ha scelto da sola il suo nome e il suo nuovo avatar ha
iniziato a comporsi in base alle specifiche scelte sul catalogo, e
alla personalizzazione-con supplemento-gestita da lei stessa.
Ora Mary-Jo ha un ologramma nuovo, molto attraente, che
prende docilmente il suo posto se non le va di uscire di casa.

Vetrina
Nei negozi specializzati, dal tetto pendono i fermentatori in cui,
illuminati da luci fredde, galleggiano i feti, costruiti secondo le
specifiche di chi li ha ordinati.
In linea di massima, anche i neri vogliono figli bianchi, con
grandi occhi azzurri e capelli biondi.
In linea di massima, scelgono quasi tutti il modello baby angel,
nelle sue ventiquattro varianti somatiche.
In linea di massima, il mondo sta avviandosi a diventare banale,
un mondo in cui i desideri dei genitori finiranno per
condizionare definitivamente i figli, che si assomiglieranno
tutti, ed il futuro della specie.

Scarpe
Mary-Jo desiderava un paio di scarpe adatte alla serata, ne dettò
le caratteristiche al sintetizzatore materiale, il biomisuratore
calcolò la taglia esatta, in pochi minuti furono scolpite dentro la
stampante tridimensionale.
Mary-jo indossò le scarpe, dopo averle lasciate raffreddare sul
condizionatore, pensando con soddisfazione interiore a quando
era costretta ad andare in giro nel traffico congestionato della
metropoli, perdendo un sacco di tempo nei negozi a cercare le
scarpe che le piacevano. Per non parlare della delusione
derivante dagli acquisti online: problemi con i materiali, con i
colori, con le taglie.
Mary-Jo prese una lastrina di psicofarmaci liofilizzati, dosati
secondo le esigenze della sua condizione emotiva, la mise sotto
la lingua, si guardò le gambe fasciate nelle calze fluorescenti,
rimirò le scarpe nuove, si sentì pronta alla festa.

Fiera
Alla Fiera della Psicoanalisi, gli stand sono arredati in maniera
sobria, si nota la prevalenza di chaise-longue d’autore, spesso
provenienti da collezioni private.
Scrivanie fine ottocento, manufatte in legni ormai estinti, e i
venditori di felicità ben pettinati e con il loro sicuro sorriso
sereno, dello stesso tipo di quello che saranno capaci di traslare
sul vostro viso. Denti bianchissimi inclusi, una équipe di
igieniste orali ora pronta a rifarvi la luminosità del ghigno,
a n c h e s i n t e t i z z a n d o u n a f o r n i t u r a d i d e n t i d a
installare, completamente nuovi.
Tutte le carte di credito sono accettate, pagate anche con il
vostro terminale palmare, la Banca Mondiale vi ricorda la
comodità di associare al pass digitale di accesso alla fiera un
conto con plafond illimitato, spendi oggi e paga dopodomani,
questo recitano gli ologrammi fluttuanti negli stand della fiera.
E se non volete partecipare di persona, potrete prenotare un
appuntamento online con il terapista desiderato, pagando anche
con criptovalute.
Fuori, negli ordinati parcheggi, branchi di Figli di Nessuno
aspirano idrogeno dagli scarichi ecologicamente corretti delle
limousine in attesa dei ricchi padroni.

Ratti
Il cielo brulica di astronavi, che lasciano scie argentate sul
verde muschio dello sfondo.
Le cupole urbane, climatizzate con immissione di mix
bilanciati di essenza profumate e neurotrasmettitori,
garantiscono un eccellente livello di soddisfazione per gli
abitanti delle colonie.
Nel sottosuolo invece, gli indigeni divorano tonnellate di
spazzatura, rinforzandosi sempre di più.
Da lì a poco, senza che nessun guru comunicazionale lo abbia
previsto, inizierà l’era del Ratto Dominatore.
Settecento milioni di ratti ipernutriti sono pronti a dominare
alcune migliaia di cloni umani, indeboliti dalle troppe comodità
dispensate dai robot: le macchine avrebbero tradito la loro
fiducia, ma ancora gli umani non lo sanno.


Foto di copertina: © Antonio Musotto




Joleeee la bradipa: una storia della foresta tropicale

C’era una volta un bosco.
In effetti non era un bosco, ma una foresta tropicale, una di quelle foreste piena di animali, di uccelli, di alberi altissimi, di rumori e canti di ogni tipo.
In questa foresta vivevano tanti tipi di animali sugli alberi, alcuni volavano, altri saltavano, alcuni altri scendevano e salivano in continuazione.
In questa enorme ed operosa confusione viveva anche una famiglia di bestioline strane, pelose e tranquille, abbarbicate sui rami a testa in giù.
Erano calmi e tranquilli, forse troppo. Una volta un fulmine aveva colpito l’albero che li ospitava e ci avevano messo un mese prima di riuscire a trasferirsi su di un altro.
La famiglia era composta da diversi elementi, c’era il capostipite, Nonno Vecchio Alvaro Gutierrez, c’erano i guerrieri Josè Armando Eugenio Gutierrez e Paco Silva tre zampe (una l’aveva persa in un combattimento con un giaguaro).
Poi c’erano altri maschi giovani, altri maschi pigri e vecchi, le femmine ed i cuccioli.
Tutti molto calmi, era una famiglia dove la parola fretta era sconosciuta. Non si faceva mai nulla senza prima riflettere, valutare, ponderare, concertare, ragionare con tanta tanta calma.
E c’era anche Jole (Joleeeeee) Fernandez de Bahia, una delle componenti più rumorose della famiglia. Infatti se bisognava chiamarla si doveva urlare il suo nome per un bel po’, ecco perché dopo un po’ non la chiamavano più Jole ma Joleeeeee.
Ah, forse ho dimenticato di dirvi che animaletti erano mai quelli di questa famiglia così strana.
Ecco, erano dei bradipi. Bradipi e bradipe come Joleeeeee, ed anche bradipini come tutti i cuccioli della tribù.
La bradipa Joleeeeee da qualche giorno era in pensiero, e non riusciva a fare niente di rumoroso, se ne stava attaccata al suo ramo a testa sotto e rifletteva.
Aveva fatto un sogno. Un sogno strano. Lei era una delle poche bradipe che ancora non avessero messo in giro per la foresta un cucciolo, e le sue parenti più vecchie la guardavano da sotto le frangette pelose e pensavano “ma guarda che pigra…niente cuccioli”.
Nel sogno che aveva fatto la bradipa Joleeeeee cullava un cucciolo bruno, dagli occhietti vispi, e lo allattava e lo accudiva.

La notte dopo però il sogno era ancora più strano: non c’era solo Heriberto, il piccolo bradipo bruno che aveva sognato la notte prima, ma anche un altro cucciolo di bradipo, un po’ più grandicello.
Questo cucciolo era di un colore insolito per i bradipi, infatti era giallo come la buccia delle banane che a Joleeeee piacevano tanto.
Nel sogno il cucciolo nuovo le diceva “mamma, io sono Mustafà”. Passarono tanti giorni e tante notti, tanti soli e tante lune, e due stagioni dopo, quando le palme erano belle piene di banane, ed il sole splendeva forte sulle cime degli alberi alti della foresta, Joleeeeee ebbe un cucciolo, un cucciolo tutto suo.
Le bradipe vecchie dissero in coro” ma guarda…ha fatto un cucciolo” e tornarono ai loro affari di vecchie bradipe, cioè a stare attaccate ai rami a testa in giù a spulciarsi l’una con l’altra.
Joleeeeee allora si ricordò del sogno che aveva fatto tanto tempo prima, e ne parlò a Rosario Edmundo Cristobal Pereira do Rio Grande, il suo compagno, che a dispetto del nome era un bradipetto secco e legnoso, magro magro che stava tutto il giorno a guardare le acque del fiume che scorrevano.
Rosario Edmundo ascoltò il sogno e disse con calma “ va bene, lo chiameremo Heriberto”.
Così Joleeeeee, che nel frattempo non faceva più tanto rumore, passava le sue giornate a cullare ed allattare e spulciare il piccolo bradipetto bruno che le stava sempre attaccato e ronfava tutto il giorno. Gli altri bradipi continuavano a non fare nulla tutto il giorno ed a rimandare saggiamente al domani tutto quello che avrebbero potuto fare oggi…ma non era assolutamente il caso di stancarsi.
Heriberto cresceva, paffuto e placido come un bradipo, sempre attaccato alla sua mamma, che non lo mollava mai, e lo cullava, lo allattava e lo spulciava tutto il giorno. Se ne stavano lì nella foresta, attaccati all’albero a testa sotto, a sgranocchiare le gemme ed i fiori e gli insettini gustosi, e se non c’era troppa fatica da fare, anche qualche banana gialla. Una notte, Joleeeeee ed Heriberto furono svegliati da un rumore fortissimo, e poco dopo cominciò a piovere.
Una pioggia incessante, che bagnava tutte le pelliccette dei bradipi, i quali però non si disturbavano troppo, e continuavano a stare sugli alberi a testa sotto. Però non riuscivano a dormire per il rumore dei tuoni e per il bagliore dei fulmini.
E meno male che non dormivano, perché quando un colpo di vento più forte spezzò la cima dell’albero, Joleeeeee allungò le zampe verso un altro albero vicino, più basso, e riuscì a salvarsi insieme al piccolo Heriberto.

Piovve tutta la notte, ed anche l’indomani, ed i bradipi stavano a testa sotto con le loro pelliccette bagnate, ma non sentivano freddo, per fortuna, perché nella foresta amazzonica non c’è mai freddo. Piovve ancora per qualche giorno, e il sottobosco ormai era coperto dalle acque del fiume che aveva rotto gli argini. Gli alberi erano tante isolette, e su ognuna di queste qualche famiglia di bradipi, di coguari, di scoiattoli, di uccelli del paradiso. Finalmente smise di piovere, e tra le nuvole stanche venne fuori un po’ di sole.
Joleeeeee si spostò piano piano piano verso un ramo più esposto alla luce del sole, e si mise lì ad asciugarsi la pelliccetta sua e quella di Heriberto, che aveva sempre fame e ciucciava in continuazione, anche tutto bagnato.
Da questo ramo poteva vedere anche sotto, ed ogni tanto passavano degli animaletti su pezzi di legno, come naufraghi sulle loro zattere di salvataggio, ed ogni tanto passavano animali grandi che nuotavano preoccupati, ed ogni tanto passavano anche delle palle di pelo che non
nuotavano più.
Mentre se ne stava lì al sole, e la foresta era ancora silenziosa, con poco traffico perché tutte le bestie stavano al sole ad asciugarsi le pelliccette, ed Heriberto se ne stava appiccicato alla pancia della mamma a testa sotto a ciucciare pacifico, Joleeeeee credette di sentire una vocetta. La vocetta si fece sentire di nuovo, ed allora la mamma bradipa stette un attimo ad ascoltare, e diede un colpetto al cucciolo che smise per un attimo di ciucciare.
Adesso la poteva sentire, la vocetta, che veniva dal basso, giù sul tronco dai rami bassi, quelli vicini all’acqua. “aiuto mamma”, diceva la vocetta, ed ora poteva sentirla chiaramente. Joleeeeee si guardò la pancia, ed Heriberto era lì attaccato, “non sei tu che chiami la mamma”, disse lei, e stette ad ascoltare ancora.
I bradipi, si sa, non sono animaletti veloci, così la mamma bradipa cominciò a scendere piano piano ma con decisione giù verso i rami bassi, dai quali veniva la vocetta.
Arrivò ad un giro di rami belli larghi, vicini all’acqua, e la vocetta diceva sempre più stanca “aiuto, mamma, aiuto”.
Guardò bene, strizzando gli occhi dietro la frangetta bruna, e vide una palla di pelo biondo mezza in acqua mezza attaccata all’albero.
Joleeeeee si avvicinò, e vide che la palla di pelo biondo era un cucciolo. Un cucciolo di bradipo biondo. Stese la zampa ed afferrò la zampetta del cucciolo biondo, e lo tirò a sé. Il cucciolo biondo si tirò fuori dall’acqua, la guardò negli occhi e le disse di nuovo “mamma, aiuto”.
Joleeeeee si guardò la pancia dove c’era Heriberto, guardò il cucciolo biondo e guardò l’acqua che scorreva di sotto.
E mentre sto finendo di raccontarvi questa storia di foresta, Joleeeeee è ancora lì che sale verso il ramo più alto con due cuccioli attaccati alla pancia, che succhiano beatamente. “Mamma mi chiamo Mustafà”, disse durante la salita il cucciolo biondo. La mamma bradipa non disse niente, “lo so”, pensò dentro la sua testolina, e guardò ancora verso la sua pancia con due bradipetti attaccati ed abbracciati, uno biondo ed uno bruno, e guardò ancora verso quel ramo dove brillavano tante foglioline fresche verdi verdi.

Per Heriberto e Mustafà, dal medicineman della foresta.
15 ottobre 2001.
Non ricordo il motivo per cui scrissi, ormai vent’anni fa, questa storia.
Però mi piace ancora.

 

 


Foto di copertina © Antonio Musotto




Coppia in un interno

Piano attico di un edificio in una via centrale. Dal terrazzo si può, sorvolando serbatoi d’acqua ed antenne paraboliche, vedere il mare.

Entriamo da una finestra, con lo zoom della telecamera che trapassa i vetri della porta-finestra, e ci introduce in questo interno di un appartamento borghese.

La stanza è elegantemente arredata; tutto è molto sobrio, funzionale.

I quadri alle pareti hanno la propria illuminazione dedicata, alcuni sono olii, altri multipli d’autore, e sono perfettamente accoppiati a cornici di valore.

Su di un divano una coppia.

Una piccola foresta di kentie rende piacevole questa porzione di camera.

Lei legge un libro, ha gli occhiali da presbite leggermente scivolati sul naso, e con la mano libera si attorciglia i capelli.

Le gambe sono raccolte sotto al bacino, alcuni cuscini la sostengono nella comoda posa che si è scelta per andare avanti nella lettura del romanzo, il titolo non lo distinguiamo, ma sicuramente sarà un autore sudamericano. Forse la Allende.

Nella libreria a giorno molti titoli di Isabel Allende.

Lui guarda la televisione, il telecomando appoggiato sulle ginocchia.

Qualche anno fa avrebbe fumato la sua pipa preferita, ma il medico gli ha consigliato di smettere.

E lui ha smesso. Anche con i cocktail Martini, che gli tenevano compagnia davanti alla tivvù.

Ha un quotidiano ripiegato vicino alle gambe, lo ha aperto per controllare il titolo del programma che stanno trasmettendo.

Camera indietro, lentamente l’operatore riporta la scena all’esterno del palazzo, il sole è tramontato, il mare è colore dell’oro fuso, il traffico è impazzito, come sempre.

Lei alza un attimo gli occhi dal libro in cui era precipitata, e chiede “cosa stavi guardando?”

“coppia in un interno” risponde lui.

“ah, e di che parlava?” continua lei con una inflessione della voce che non tradisce nessuna particolare emozione.

“mah, niente di interessante, c’era una coppia in un appartamento borghese, sembrava quasi Palermo; lui guardava la televisione, lei leggeva un libro. Non si sono detti niente tutto il tempo”.

Lui spegne la televisione, lei riprende nella lettura, cambiando posizione alle gambe: un bottone del cuscino che ha sotto smaglia il collant, ma lei non ci fa caso, prima di andare a letto lo butterà nella spazzatura, ne prenderà uno nuovo dalla confezione patinata per l’indomani.

Scorrono i titoli di coda, lui riguarda sul giornale il titolo del film che stava distrattamente osservando.

Spegne la televisione e ricomincia a sfogliare il giornale.

Anch’io spengo la televisione, guardo lei che continua a leggere, non abbiamo nulla da dirci, è normale.

Vorrei dirle hai il collant sfilato, lei forse vorrebbe dirmi quando vai a letto metti il giornale nel sacchetto della carta da riciclare, ma non è il caso di turbare il perfetto equilibrio di questa sala da pranzo.

“quelli in tv sembravamo noi” dico piano.

Lei mi guarda per un istante poi riabbassa gli occhi sulle pagine del volume.

Macchina indietro, il piano di ripresa diventa panoramico, ora sorvolando le antenne paraboliche ed i serbatoi d’acqua si allarga fino a comprendere il mare, nel quale si specchia la luna, gialla da aura di scirocco, il traffico è scarso, anche stanotte nulla di nuovo sotto la luce del satellite.

Palermo, 15 dicembre 2002.

Questo racconto è tratto dal libro di Antonio Musotto intitolato Todo Mundo II, Storie umane e non, Qanat Edizioni, 2018


Immagine di copertina © Antonio Musotto




Dopo il Virus – terza parte

vai alla prima parte
vai alla seconda parte

Uscendo dalla base, non incontrai nessuno, per alcuni chilometri solo mezzi di trasporto abbandonati, case deserte, branchi di cani che pattugliavano il territorio.
Il dubbio che avevo – cioè che sulla Terra il virus avesse completamente eliminato il genere umano – diventava sempre più realtà mano a mano che i chilometri scorrevano sotto al mio mezzo di trasporto: il computer di bordo al momento della partenza indicava una autonomia di 2200 km. 
Per raggiungere la mia meta sarebbe stata sufficiente, ma come avrei fatto per tornare indietro nel caso non avessi trovato una fonte di ricarica? Rimpiansi di non aver provato a usare un elicottero di quelli – apparentemente integri – rimasti alla base: ormai ero in viaggio, non avevo alternative che tornare indietro o proseguire per scoprire cosa fosse successo.

Avevo
deciso, bisognava viaggiare.

Lungo l’autostrada automatica non c’era traffico, mi si consolidò la certezza che l’unico mezzo di trasporto in movimento fosse il mio, e che il feedback del mezzo con l’autostrada fosse garantito dall’energia solare, che alimentava gli impianti in maniera indipendente dall’intervento umano.
Calava la sera, un tramonto incendiario invadeva la pianura con i suoi bagliori infuocati, i pannelli luminosi a bordo strada si erano accesi regolarmente, interrogai il computer di bordo sulla possibilità di passare la notte in un motel piuttosto che sul divanetto del van elettrico che mi stava trasportando, ebbi conferma che a un’ora di distanza avrei deviato su una pista laterale e sarei arrivato al motel.

Chiesi di effettuare la prenotazione di una camera e di una cena, cosa che mi venne confermata. Immaginai che il sistema aveva continuato a funzionare anche in assenza di umani che lo controllassero, ma la solitudine non mi faceva paura, viaggiare nello spazio mi aveva abituato a periodi lunghissimi di distacco dalla realtà.
Il mezzo di trasporto automatico si fermò davanti alla porta del box numero 14, e si andò a posizionare sulla piattaforma di ricarica: allora il sistema elettrico funziona – mi dissi – e immaginai che in qualche centrale alcuni uomini sopravvissuti al virus mantenessero in funzione la produzione e la distribuzione dell’energia.

Uomini
o androidi? Mi risposi che in quel momento non importava, ciò che contava era
di non perdermi durante questo viaggio in uno spazio vicino, talmente piccolo e
vicino da sembrarmi irreale, quasi pericoloso.

La camera da letto era perfettamente pulita, feci una doccia ionica, lasciai gli abiti a decontaminarsi, indossai il kimono di carta che era a disposizione degli ospiti.
All’orario previsto un robot semiandroide venne a portarmi la cena che avevo ordinato durante il viaggio, era un modello dotato di volto e braccia, ma si muoveva su cingoli.
Provai a interrogarlo sulla situazione locale, ma mi rispose che non era in grado di fornire notizie per assenza di connessioni ad ampio raggio, si limitò ad augurarmi buona cena e buona notte, confermandomi la colazione “senza frutta fresca purtroppo” per l’indomani mattina all’ora prevista.
Disattivai l’oscuramento delle finestre e del tetto della camera, intorno al motel solo le luci delle piste automatiche, il cielo era scuro, probabilmente avrebbe piovuto.
Disteso sul letto antigravitazionale, guardavo attraverso il soffitto trasparente, il cielo era di un grigio compatto, poco dopo iniziò a piovere: le gocce si frammentavano senza far rumore, creando frattali di particelle d’acqua.

Lo spettacolo ebbe effetto ipnotico, senza accorgermene scivolai in un sonno vischioso, popolato da sogni dei quali persi memoria, fino al momento in cui le luci del mattino che si avvicinava cominciarono a sciogliere il torpore: ebbi ad un certo punto l’impressione che dei bambini mi osservassero dal soffitto trasparente, era un sogno vivido – di quelli del dormiveglia – o li avevo visti veramente?

Mi
alzai di scatto dal letto, aprii la porta della camera, ma fuori non c’era
nulla, a parte quella pioggia sottile, quasi impalpabile.

Tutto intorno, il giardino ad irrigazione automatica, i box con i numeri luminosi, il parcheggio vuoto tranne il mio mezzo di trasporto, la pianura e l’autostrada deserte.
Mi convinsi che era stato un sogno, rientrai nella camera, volsi nuovamente lo sguardo al soffitto trasparente, ebbi l’impressione che piccole orme si scomponessero sotto la pioggia “sarà la pioggia che con la polvere ha formato queste figure” mi dissi ad alta voce.
Recuperai il mio bagaglio, il mezzo di trasporto era davanti alla porta, mi accomodai, riprese il viaggio, mentre guardavo nello specchietto il motel che si allontanava alle mie spalle vidi una coppia di coyote su una altura. Immobili.

l’autostrada automatica presenta poco traffico, arrivo previsto all’ultima stazione in sei ore. Non sono disponibili informazioni sul percorso successivo”.

Avevo interrogato l’assistente alla guida sul percorso, suggerendogli di procedere alla massima velocità possibile, e in effetti “poco traffico” aveva significato che l’unico mezzo in viaggio era quello che mi trasportava, e che stavamo procedendo a oltre 300 km/h, a questa andatura il panorama diventava una banda di strisce colorate, dove a prevalere era il grigio.
Accesi il monitor di bordo, provai a cercare un canale di notizie ma non ce n’erano disponibili, solo programmi registrati con film, avvenimenti sportivi del passato, arte, natura, ecologia: poi un programma che raccontava gli ultimi mesi della pandemia.

Un emaciato cronista spiegava alla camera che lo riprendeva di come la scommessa di chi era rimasto sul pianeta – sperando in una attenuazione dell’epidemia – era probabilmente perduta, e che ormai pochi abitanti popolavano il territorio nel quale lui riusciva ancora a muoversi, e tutti erano stati contagiati.
“So che morirò anch’io, prima o poi, lascio il mio reportage su questo canale di notizie affinché chi dovesse tornare un giorno sulla Terra possa avere informazioni. Dopo che i volontari sono stati portati su pianeti compatibili con la vita, qui il virus ha preso il sopravvento. Presto la Terra sarà popolata solo da animali e foreste, la Natura ha deciso di prendersi la rivincita sull’Homo Sapiens, l’Antropocene ne è stata la scena finale: avere accettato che gli umani potessero continuare a detenere animali domestici è stata la loro fine, il virus li ha usati come ponte per raggiungere anche coloro i quali si erano isolati, non è stato più sufficiente chiudersi in casa e azzerare gli incontri, sfortunatamente”.

Poi nient’altro, solo documentari naturalistici piuttosto datati.
Quindi, non era rimasto – secondo le supposizioni del cronista – nessuno in vita sul pianeta, il mio viaggio era probabilmente inutile.
Dovevo verificare, avevo avuto mandato di effettuare l’ultima ricerca possibile, quella del laboratorio clinico dove mio padre stava sviluppando la terapia antivirale, e mi sarei spinto fino alla ricerca della verità. O di una plausibile verità.

Durante il trasferimento automatico, continuai a pensare a come muovermi una volta arrivato all’ultima uscita dell’autostrada, e come tornare indietro in caso di insuccesso, arrivando alla conclusione che avrei preso una decisione nel momento in cui il mezzo di trasporto mi avrebbe depositato sulla banchina e con soffuso rumore pneumatico mi avrebbe salutato chiudendo il portellone scorrevole.
Nel frattempo, dialogavo con la rete neurale della nave spaziale che stava effettuando in automatico le operazioni di ricarica e rigenerazione, era l’unica certezza che avevo, quella di potere ripartire e abbandonare la Terra per sempre, in caso di insuccesso.

Riconobbi lo skyline della città ultima destinazione, ci avevo vissuto un certo numero di anni quando avevamo aiutato nostro padre a sviluppare il laboratorio, poi le cose erano andate come erano andate.

Mi
ritrovai solo sulla banchina della piazzola di carico e scarico dell’ultima
fermata, il mezzo automatico si allontanò per posizionarsi su una piattaforma
di ricarica: sembrava funzionare, pensai che avevo sempre la possibilità di
essere ricondotto indietro, misi la sacca a tracolla, mi allontanai a piedi,
diretto verso il viale principale, dove una volta c’era una specie di garage
museo nel quale un appassionato esponeva e noleggiava automobili, motociclette
e altri mezzi con propulsione a scoppio, che erano stati completamente
soppiantati dall’avvento delle microcelle fotovoltaiche ad alta efficienza.

Le strade della cittadina erano deserte, finestre e balconi dei palazzi chiusi, nessuna traccia di vita recente, a parte la rete nevrotica delle rondini che sfrecciavano sopra i viali e tra gli edifici, lanciando le loro grida isteriche.
Ad un incrocio, una coppia di daini mi fissarono, poi si allontanarono al piccolo trotto, non li avevo turbati più di tanto, mi dissi che dovevo comunque stare attento poiché avrei potuto anche incontrare dei predatori, e nonostante l’abbigliamento in tecnopolimeri, potevo risultare ugualmente appetibile.

Arrivai al Joe’s Garage: la reception era devastata, ma il garage era apparentemente intatto. Decine di auto e moto mi scrutavano con i loro fanali spenti, come a chiedermi di essere rimesse in vita e ricominciare a emettere i loro gas tossici, motivo per il quale erano state bandite dall’uso comune.

Le moto erano ancora collegate ai rispettivi mantenitori di carica della batteria, le chiavi nel cruscotto, i serbatoi pieni.
Era una ottima notizia, recuperai da una jeep male in arnese una tanica di metallo e travasai benzina per fare una piccola scorta, fissando poi la tanica al portapacchi di una grossa moto da enduro che si era avviata a primo colpo, dopo chissà quanti anni di torpore.
Il carburante mi sarebbe bastato per andare e tornare, e ancora ne sarebbe avanzato, secondo un conteggio di consumo ipotetico. Ero ancora in grado di governare una motocicletta, è una di quelle cose che non si dimenticano mai, pensai, spinsi la moto fino al marciapiede, ci montai in sella, innestai la marcia e partii.
Guardavo spesso negli specchietti retrovisori, avendo la sensazione di essere seguito, anche se era abbastanza lampante che in quella landa non ci fossero esseri umani in vita, solo coyote e cani randagi che mi scrutavano da bordo strada, apparentemente senza allarmarsi troppo.

La strada era sgombra, lungo i bordi le erbacce erano cresciute invadendo anche parte del piano asfaltato, ero preoccupato di finire in qualche buca, essere disarcionato, ferirmi o rompermi qualche osso, cosa che avrebbe significato la conclusione della mia ricerca, perciò cercai di adottare uno stile di guida prudente nonostante l’urgenza immotivata che sentivo nel raggiungere la fattoria dalla quale si scendeva nelle grotte dove era stato edificato il laboratorio di genetica, tanti anni prima.

La
luce dorata del pomeriggio spandeva ombre lunghe sul terreno, che ora era
diventato una pista sterrata, l’asfalto che l’aveva ricoperta si era usurato e
nessuno lo avrebbe mai più potuto ricollocare, tuttavia alcuni cartelli
stradali indicavano la direzione del villaggio, seguiti da altri che
decantavano gli studi che erano stati intrapresi nelle minere di sale: mi stavo
avvicinando, sarei sicuramente arrivato alla fattoria prima che facesse buio.

Dopo avrei dovuto decidere se cercare il modo di passare la notte in superfice o provare a scendere immediatamente: anche in questo caso mi dissi che avrei preso una decisione sul momento, anche in funzione della valutazione della sicurezza di quel luogo.
La pista seguiva il fianco di una collina, con una moderata salita, arrivato in cima avrei potuto vedere la vallata, gli edifici della miniera, la fattoria di mio padre, la torre dell’ascensore.
Feci l’ultima curva con troppo entusiasmo, la moto derapò, poi per fortuna riprese la direzione e svoltai sulla sinistra, attraversando il cancello di quella che tanti anni prima era stata una miniera di sale; dopo pochi metri parcheggiai davanti al muretto della fattoria, la porta di ingresso era chiusa ma girando il chiavistello si aprì.

Dentro, tutto era in quell’ordine apparente che si lascia quando si deve abbandonare un luogo con urgenza, esplorai le stanze: a parte la polvere e l’odore di chiuso non sembrava che ci fossero stati altri visitatori, di recente.
Sul tavolo della cucina, alcuni volumi di narrativa impilati uno sull’altro, come se qualcuno li avesse scelti e poi avesse deciso di non portarli via con sé.
Di mio padre, nessuna traccia, né un appunto né un capo d’abbigliamento, doveva aver portato via proprio tutto, o qualcun altro si era occupato di cancellare tutti i segni della sua presenza.

Uscii
dalla porta di servizio, a qualche metro di distanza una automobile con gli
sportelli aperti, mi avvicinai finchè non vidi che sui sedili c’erano degli
scheletri mummificati, di diverse dimensioni: probabilmente una delle famiglie
dei collaboratori di mio padre, che non avevano fatto in tempo a intraprendere
un ultimo viaggio. Erano rimasti seduti con le cinture di sicurezza allacciate:
qualunque cosa avesse provocato la propria morte, doveva essere stato fulmineo.

Un
brivido scese lungo la mia schiena, non mi sentivo del tutto sicuro in quel
luogo, tornai dentro, attraversai la casa e uscito dal lato principale mi
preoccupai di mettere al riparo la motocicletta, era il mio unico biglietto di
ritorno. La spinsi dentro ad un capanno degli attrezzi, accostai le porte e mi
avviai verso la torre dell’ascensore.

Il sole era ormai scivolato dietro le colline, le rondini continuavano a sfrecciare isteriche nel cielo, incrociandosi senza mai scontrarsi – un software mirabile governava i loro voli – si accesero sul campo le luci notturne, alimentate dalla centrale solare installata sul tetto degli uffici della miniera.

La
cabina dalla quale si accedeva al vano dell’ascensore aveva una porta con
accesso controllato da lettore di iride, mi posizionai davanti allo scanner
oculare, mentre un microago prelevava un campione di pelle dalla mano.

Accesso consentito.

Dunque, qualcuno aveva inserito i miei dati genetici nel sistema di sicurezza che proteggeva l’accesso ai laboratori sotterranei, immagino che chi aveva effettuato la programmazione aveva supposto che prima o poi una parte di se si sarebbe ripresentata.
Premetti il pulsante di chiamata dell’ascensore, il pannello luminoso sulla porta si accese, un ronzio acuto segnalò il fatto che il meccanismo si stava allineando al piano per permettermi di accedere. Avrei iniziato un altro viaggio, senza la certezza di tornare indietro e senza sapere cosa avrei trovato laggiù.

La
porta scorrevole si aprì, un bambino vestito da marinaretto mi guardò fisso
negli occhi, mi sentii completamente spiazzato.

Non sono quel che vedi, non vedi quel che sono”. La voce era quella di mio padre, ma aveva parlato il marinaretto, che mettendosi il dito indice sul naso a intimarmi silenzio mi disse ancora “conosci le tre leggi della Robotica”, e la sua voce non aveva accento, non era una domanda, era l’accettazione dello stato di fatto.

La porta scorrevole si chiuse alle mie spalle con rumore pneumatico, il bambino – se era veramente un bambino – premette il pulsante di discesa.

Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno.
Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non vadano in contrasto alla Prima Legge.
Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché la salvaguardia di essa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge.

Ripetei
mentalmente le tre leggi della robotica, e poi cercai di interpretare la frase
del mio accompagnatore, non riuscendo a trovare una logica in ciò che diceva.

Epilogo.

Ho predisposto la sospensione vitale per il viaggio di ritorno, deve lasciare attiva quella parte di coscienza che mi permetta di raccontare quanto ho visto e sentito nella Miniera. Il Comitato che ha deciso il mio viaggio dovrà essere informato dettagliatamente dallo sbobinamento della mia psiche, le parole potrebbero non essere sufficienti.
Arrivato al livello operativo della miniera, altri bambini mi circondarono e mi portarono verso il lago sotterraneo, illuminato da una luce opalescente: senza che potessi opporre resistenza venni spinto dentro, mentre dicevano in coro “purificati”.

Affondai
nel perossido d’idrogeno, poi venni tirato fuori e portato in una sala di
rivestizione.

I bambini erano androidi modificati: mi raccontarono che altri androidi avevano deciso di applicare le Leggi della Robotica per tentare di salvare l’Umanità dalla scomparsa, e che per sicurezza avevano estratto materiale genetico dal corpo di mio padre, prima che morisse per cause naturali, per creare reti neurali umanizzate, ed erano anche riusciti a creare linee di produzione fetale.
In pratica, sarebbero stati reimmessi nell’ambiente dei semiandroidi in grado di ricolonizzare la Terra, e la popolazione sarebbe stata incrementata dalle linee di produzione. Praticamente ognuno di quei bambini era mio padre “non sono quel che vedi, non vedi quel che sono”.

I
motori magnetici dell’astronave ronzarono brevemente, si sincronizzò la
frequenza di trasporto sulla traslazione spaziotemporale, l’equipaggio prese
posto nelle capsule di sospensione vitale, presi un ultimo respiro, poi anch’io
mi affidai al neurocalcolatore, mi sarei risvegliato nella costellazione di
Pegaso, agganciato alla torre di ancoraggio della città di Terra Futura, sul
pianeta HR2550, dichiarato biocompatibile dopo le prime missioni traslazionali.

Lasciavo la Terra, non aveva più bisogno di me.
Sognai bambini elettrici con occhi azzurri bionici.

Nda: Le tre leggi della robotica sono prese in prestito dalla fantasia di Isaac Asimov, mentre per gli androidi basta saccheggiare la letteratura di fantascienza e i film del genere.


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright. Foto copertina ©Antonio Musotto




Il segreto della montagna

Sulla collina un uomo fuma

La macchina è stata vista

In pochi millesimi di secondo la combinazione rapida degli elementi chimici

Scatena l’inferno

Il vetro si sbriciola la lamiera si accartoccia la carne si strazia.

 

“Sono tua madre, Giovanni, ti sto aspettando.

Sono tuo padre, Giovanni, ti sto attendendo.”

 

Sulla collina il Diavolo fuma ancora un’altra sigaretta.

 

“Non posso fermarmi, ho ancora la testa piena di cose da dire.”

 

Sulla costola della montagna cieca, Satana ed i suoi servi scherzano

E premono un telecomando

Se la montagna avesse potuto vedere lo scempio

avrebbe rovinato su di loro cumuli di pietre.

 

Un rumore tremendo parte dal cuore della terra

Ed in pochi millesimi di secondo, dentro l’abitacolo

Il vetro si frantuma la lamiera si piega i corpi si dissolvono.

 

L’Angelo della Morte prende la mano di Giovanni

“vieni”

Giovanni dice: “non posso è ancora presto, il mio cuore

è ancora forte, la mia testa è piena di cose che non ho potuto dire”

 

va la Madre da Giovanni e gli dice:

“Giovanni, devi tornare, ricongiungerti a me”

Ma lui risponde:

“non posso, Madre, la terra, gli uomini e Francesca resterebbero soli.”

 

L’Angelo della Morte prende la mano di Giovanni e dice:

“così sia.”

Sulla costola della montagna sorda, Satana ed i suoi schiavi

Bevono alcool e fumano tabacco.

L’Angelo della Morte prende anche la mano di Francesca e dice:

“così sia”.

Madri prendono le mani dei figli che viaggiavano con loro e si sono dovuti fermare.

“noi non possiamo seguirvi, Madri, il nostro posto è accanto all’ombra ed al respiro 

di Giovanni, il nostro cuore è forte, la nostra mira sicura, le membra agili e giovani.”

“Così sia”, dice L’Angelo della Morte, e tutti i figli dal cuore forte e dallo sguardo sincero

tornano dalle Madri.

La terra rimane sola, e tutti gli uomini restano soli.

Quando si abbassa la polvere, siamo tutti più soli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non riuscirò a dimenticare.

Palermo 10 novembre 2002. Antonio Musotto.




Dopo il Virus – seconda parte

vai alla prima parte
vai alla terza parte

Ritorno.

Ero un comandante di missione, uno poco abituato a restare a lungo nello stesso luogo, cosicché non appena la mia presenza non fu più utile riprogrammai la nave per ritornare sulla terra.
Gli androidi di assistenza al viaggio, perfettamente ricaricati di gentilezza e resistenza allo stress con nuovi software, mi aiutarono a rientrare nella capsula di sospensione vitale, i motori traslazionali si riavviarono con un leggero ronzio, la mente ridusse il livello energetico al minimo, ero pronto per viaggiare nello Spazio Cosmico e tra i miei pensieri.

Sognai i volti degli umani
che avevamo trasportato sulla nave spaziale e lasciato su HR2550, sognai oceani
immensi che avevo attraversato in barca a vela con mio padre, sognai di essere
con lui.

Il viaggio traslazionale mi ricondusse sulla terra.
Alla base spaziale regnava una pace innaturale, sembrava non esserci traccia di presenza umana o androide. La procedura di sbarco era automatizzata, mi ritrovai a seguire i percorsi verso le uscite guidato dalle piste luminose che mi accompagnavano, con unico sottofondo il rumore dei miei passi e dei due androidi che erano scesi con me a terra.
Si aprirono automaticamente porte di ascensori, si misero in moto scale mobili e nastri trasportatori, tutto funzionava perfettamente alimentato dai generatori solari che assicuravano l’energia necessaria alla base spaziale.
Poi gli androidi si separarono da me, imboccarono un corridoio che portava alla zona dei laboratori e non li vidi più, mentre io passai attraverso i life detector, fui giudicato idoneo e mi ritrovai nell’unità delle abitazioni degli equipaggi.
Le piste luminose mi condussero all’appartamento che avevo abitato prima di partire, indossai abiti adatti alla vita sulla Terra, interrogai il personal assistant sulla disponibilità di un mezzo di trasporto terrestre nel parcheggio, presi dalla cambusa una scorta d’acqua e scesi nei garage sotterranei.
Non avevo ricevuto nessun bollettino di aggiornamento sulla situazione dell’epidemia, migliaia di domande mi ronzavano nella testa, alcune le ebbi indirettamente, non appena arrivai nel garage.
Era quasi completamente deserto, tranne qualche mezzo di trasporto visibilimente inadatto alla marcia, sentii le pulsazioni aumentare e azionai il comando di apertura dei box riservati agli ufficiali.
Dentro, sotto luci minime, alcuni mezzi erano collegati alle prese di ricarica. Ne scelsi uno di quelli che aveva la massima autonomia e che avrebbe potuto trarmi d’impaccio nel caso avessi incontrato strade in cattive condizioni.
L’idea era quella di partire alla volta della sperduta regione dove mio padre si era rinchiuso in un laboratorio. Il dubbio era che non ci fossero più le condizioni per raggiungere quella destinazione con mezzi di trasporto convenzionali.
Se la popolazione umana era stata dissipata interamente dal virus, come avrei potuto rifornire il mezzo di energia, quando se ne fosse presentata la necessità?

Presi posto al cockpit del mezzo di trasporto stradale, dettai al computer di bordo i miei desideri riguardo al viaggio, il motore prese vita, le ruote cominciarono a muoversi affrontando il pavimento del parcheggio e poi la rampa di uscita verso l’esterno. Non oscurai i finestrini, in modo da potermi rendere conto di cosa avrei incontrato una volta giunto sulla strada che collegava la base spaziale all’autostrada automatica e poi alla città più vicina.


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright. Foto copertina ©Antonio Musotto




Dopo il Virus – prima parte

vai alla seconda parte
vai alla terza parte

Era stato deciso tutto in poche ore.

Radunammo allo Spazioporto i componenti dell’Unità di Governo Mondiale, insieme a pochi altri rappresentanti di Etnie particolari, di quelle che avevano dimostrato migliore resistenza all’epidemia. I motori magnetici dell’astronave ronzarono brevemente, si sincronizzò la frequenza di trasporto sulla traslazione spaziotemporale, l’equipaggio prese posto nelle capsule di sospensione vitale, presi un ultimo respiro, poi anch’io mi affidai al neurocalcolatore, mi sarei risvegliato nella costellazione di Pegaso, agganciato alla torre di ancoraggio della città di Terra Futura, sul pianeta HR2550, dichiarato biocompatibile dopo le prime missioni traslazionali.

Lasciavamo la Terra, devastata dall’Epidemia, sperando di tornarci, un giorno. Lasciavo pezzi della mia vita, e mio padre – che non vedevo da mesi – cocciutamente chiuso nel suo laboratorio di genetica molecolare in una grotta a cinquecento metri sotto il livello del mare, dentro una miniera di salgemma nelle montagne della Cucotka.
Insieme a quella sparuta pattuglia di ricercatori che erano riusciti a superare o evitare il contagio, giovani mostruosamente determinati a combattere il Virus.

Era convinto di riuscire a sintetizzare un vaccino contro quel Virus che aveva ucciso 7 miliardi di persone in pochi mesi, e che aveva reso sterili la maggior parte degli animali.
Mio padre, mi aveva concepito con metodi tradizionali, prima che il Congresso Eugenetico decidesse di consentire agli uomini di riprodursi solo affidando oociti e spermatozoi alle fattorie umane.
Gli somigliavo, così diceva sempre, aggiungendo che da una testa di marmo non poteva nascere un figlio con una testa più morbida, non aveva torto.

Avevo avuto anche una madre, ma era morta mentre combatteva a testa bassa in un reparto di medicina d’urgenza, sopraffatta da uno dei Virus che avevano cominciato a flagellare l’umanità alla fine del XXI secolo.
Era stata una cosa improvvisa, la mattina era in Ospedale, la sera era morta, con i polmoni paralizzati, non ricordo le parole che ci eravamo scambiati durante la chiamata che le avevo fatto dal Cosmodromo, avevo pensieri che andavano troppo lontano nello spazio e nel tempo, semplicemente non avevo ascoltato cosa mi aveva detto quella mattina.

Nonostante la sospensione delle funzioni vitali, il flusso dei pensieri non si arrestò, continuai a ricordare quell’ultima volta nella quale ci eravamo salutati con la promessa reciproca di non arrenderci al virus, di non lasciare che la civiltà umana sul pianeta Terra diventasse solo polvere fossile.

Uno degli effetti collaterali del trasporto in sospensione vitale era che la coscienza profonda, liberata dal giogo dei sensi e delle convenzioni comportamentali, mandava in loop continuo tutti i ricordi più remoti, anche se la somministrazione di oligonucleotidi antisenso consentiva di bloccare quelli negativi e dolorosi: una scelta inevitabile dopo che una buona parte dei navigatori stellari avevano avuto turbe psichiche importanti al risveglio, causando il default di molte missioni e la perdita di vite.

Programmammo accuratamente gli androidi che avrebbero sorvegliato la nave spaziale durante la nostra assenza, inducendo in loro anche un certo livello di empatia per le nostre condizioni e istruendoli all’uso degli schermi di difesa da attacchi alieni, anche se non ci era mai accaduto durante le precedenti missioni di doverne fare uso. Gli androidi: per molti anni erano stati loro a costituire l’unico equipaggio delle navi spaziali in cerca di pianeti ospitali, la neuroprogrammazione eliminava dal boquet dei sentimenti che erano capaci di mimare dall’umano che dava loro un imprinting genetico, quindi non erano in grado di provare tristezza, nostalgia, rimorso, rimpianto. Forse.

Volontariamente avevo regolato la pompa di infusione del mix farmacologico necessario a mantenere lo stato di sospensione vitale sul minimo, volevo rileggere i miei pensieri nascosti.
Il sogno ricorrente della prima missione, quello di camminare nudo su una spiaggia e poi finire sugli scogli fino ad essere portato via dalle onde, era stato sostituito da quello che mi vedeva in giro per i garage della città della mia infanzia a cercare un certo numero di motociclette che dovevano essere in mio possesso ma che invece erano sparite.
Era un sogno piuttosto angosciante, anche perché non avevo mai posseduto una motocicletta, erano state abolite per ragioni di sicurezza da parecchi anni. Forse era un ricordo chiuso nel DNA, un ricordo che avevo ereditato, neanche gli psicologi del Servizio di Trasporto Spaziale erano riusciti a decrittarlo.


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright. Foto copertina ©Antonio Musotto




Casa lontana

Il signor Nakamura si svegliò di soprassalto; aveva sentito piovere. Era sicuro di aver sentito il rumore delle gocce d’acqua sulla tettoia di lamiera.

Scese dalla cuccetta e si avviò per il corridoio seguendo la pista luminosa sul pavimento.

Si fermò di colpo: “nello spazio non può piovere, non possono esserci nuvole”, si disse ad alta voce Nakamura, ascoltando il ronzio sommesso delle pompe.

Nella Stazione Orbitante Multinazionale, vanto della tecnologia europea (ed anche dei tangentisti che avevano spartito le mazzette), era un momento di sospensione delle attività scientifiche: gli ultimi specialisti erano stati rispediti a terra da un paio di settimane, ed i nuovi ricercatori stavano terminando il training, in attesa della navetta che li avrebbe condotti ai loro esperimenti in assenza di gravità.

Nakamura si occupava, in questi momenti di relativa tranquillità, di rimettere in ordine i materiali, di togliere le incrostazioni, di ripulire il disordine che i giovani esuberanti ricercatori delle migliori università erano soliti causare.

Ma l’operosa attività di Nakamura era, negli ultimi giorni, disturbata da problemi onirici che lo turbavano non poco.

La sensazione della pioggia era solo l’ultimo incubo che aveva dovuto subire, ed ora cominciava, leggermente, a preoccuparsi.

Undici anni di esperienza pressoché consecutivi sulle stazioni in orbita geostazionaria lo avevano reso insostituibile, infatti conosceva la funzione e l’utilità di ogni singolo componente, e sapeva risolvere i problemi diagnostici con capacità e competenza.

Mai avrebbe pensato di chiedere di essere sostituito per problemi medici, il minimo accenno a guasti psicologici lo avrebbe escluso definitivamente dalle missioni sulla stazione, che era la sua casa.

Un’altra notte cronologica, un altro turno di riposo, o almeno così sperava che fosse; per essere certo di dormire, Nakamura prese una compressa di un farmaco ipnoinducente a media durata d’azione, e si sistemò nella cuccetta.

Ma terminata la fase di sonno profondo, l’ingresso nella fase r.e.m. fu inaugurato dallo stormire di aceri giapponesi, nel pieno della foliazione, ed il rosso delle foglie era ben vivido negli occhi della mente: ciò che turbò Nakamura fu la sensazione, netta al risveglio, di avere sfiorato le foglie purpuree degli aceri e di averne sentito anche l’odore.

Sotto il cuscino antistatico, al mattino, Nakamura trovò un ciuffetto di foglioline rossastre, ancora fresche.

Stette ad osservare, sul tavolo del laboratorio di genetica, le foglie per alcune ore, dopodiché le introdusse nell’analizzatore molecolare.

Il responso fu una strisciata di valori illegibili, e la macchina concludeva l’analisi dichiarando di non aver trovato traccia di minerali conosciuti.

Nakamura tentò di chiamare il controllo a terra, ma una volta collegato si astenne dal segnalare il fatto: un pazzo in una stazione orbitale avrebbe passato il resto dei suoi giorni sotto le amichevoli cure degli psichiatri specializzati in smarrimenti spaziali, e questa prospettiva non lo attirava affatto.

Chiese l’invio con il prossimo cargo di una nuova fornitura per la farmacia di bordo, e dei materiali di routine che si erano consumati nel frattempo, e chiuse il collegamento con la base a terra.

Decise di restare sveglio, spostò due telecamere miniaturizzate sopra la cuccetta e si mise a riparare alcuni strumenti fuori uso da tempo, ma non per questo ancora inutilizzabili.

Restò sveglio per il corrispettivo di 48 ore terrestri, sempre tenendo d’occhio i monitor portatili collegati alle telecamere, ma non registrò alcuna attività al di fuori della norma.

Tutti gli strumenti indicavano ciò che era evidente, nessuna variazione nei parametri fisico-chimici misurabili.

Il sonno lo aggredì senza possibilità di resistenza, ed ebbe appena il tempo di arrivare fino alla cuccetta antigravitazionale, per sprofondare subito dopo nel torpore assoluto.

Dopo alcune ore di assenza di stimoli, si alzò per iniziare la routine dei controlli, passò al monitor di controllo, nessuna variazione apprezzabile negli standard di funzionamento della stazione orbitale, aprì il laboratorio con gli stabulari, ispezionando i topolini, i conigli, i ratti bianchi mutanti destinati ad ammalarsi di tumore per poi essere curati con i farmaci sintetizzati in orbita, le cavie intente a rosicchiare i mangimi sintetici.

Passò nell’altra camera, dove dietro una ampia vetrata si poteva osservare la stanza di Sheila, il suo computer, la sua amaca, l’albero secco.

Ma Sheila non c’era; Nakamura si avvicinò ai monitor, poi sbloccò la porta a vetri della stanza illuminata: pavimento pulito, luci diffuse, tavolo e posate in ordine, lettino al suo posto, ma dello scimpanzé nessuna traccia.

Poteva ispezionare tutti i cavi sotto il pavimento, controllare con microcamere tutti i passaggi dei liquidi e dei gas nel ventre della stazione spaziale, poteva fare un check completo di tutti i cablaggi elettronici, e farsi una bella stampa del risultato.

Però si era perso la scimmia. O meglio, la scimmia non era più dove avrebbe dovuto essere.

Pensò con raccapriccio alla segnalazione da fare al controllo a terra, gli avrebbero mandato dopo qualche ora un cargo con superefficenti bruschissimi operai galattici e magari lo avrebbero dimissionato su due piedi per inefficienza totale.

Spense il monitor di controllo della camera di Sheila, mise in tasca il tester che aveva usato per provare gli strumenti, la porta a vetri si richiuse con un rumore pneumatico e si spostò attraverso il corridoio, senza fatica, a gravità zero.

Sconfezionò il pasto liofilizzato, tentando di immaginare, come ogni volta, l’odore ed il colore del contenuto se lo avesse consumato in un ristorante, sulla terra; quella roba assolutamente asettica lo nutriva e lo faceva sopravvivere, fornendo i metaboliti e gli enzimi necessari alle sue funzioni vitali, e garantendogli l’apporto vitaminico bilanciato, e basta. Niente emozioni.

Nakamura pensò con disagio ad una scimmia in fuga, a tutti i danni che potevano succedere in un laboratorio orbitale, al rischio di dover smontare paratie e portelli per poterne recuperare il cadavere; si appoggiò alla cuccetta, ebbe la sensazione di infilare la testa in un sacco di tela scuro, fu catturato dai fantasmi del sonno.

Una strada ampia di un quartiere popolare, riquadri di cemento perfettamente disegnati sui marciapiedi, alberi di ailanto piantati da poco in fori regolari, con alti tutori per tenerli dritti, ed in quella strada, Nakamura ne è certo anche se non vi è mai passato, abita la sua prima maestra, una maestra che ha amato esageratamente, tanto da rifiutarne le coccole per vergogna. Si avvicina al portoncino bianco con piccole vetrate colorate, il giardino è spoglio e trascurato, si aspetterebbe di trovare aperto, invece deve bussare ed aspetta che qualcuno venga ad aprire. Ma invece della ragazza alta e bruna con lunghi capelli nerissimi apre la porta una anziana stanca; è vestita di nero e Nakamura cerca di parlare. La vecchia gli mette una mano sulla bocca e comincia a piangere; probabilmente la maestra è morta e lui ha fatto una passeggiata inutile, e vorrebbe gridare ma la voce non gli esce, e sente nel petto esplodergli tutte le parole che non ha mai saputo dire alla sua giovane maestrina, poi si mette a correre a casaccio, inciampa e cade.

Si risveglia sudato e sbatte, nello scatto che fa per rialzarsi, la testa nella volta della cuccetta. Nel monitor che copre la sala controlli vede del trambusto: è Sheila che si è arrampicata su un alto baobab e tira oggetti a due leoni che tentano di arrampicarsi sull’albero. Nakamura adesso è sveglio, ma crede di continuare a sognare, afferra a casaccio una torcia ed un martello e si dirige rapidamente verso la sala controlli, ed intanto nel corridoio tende l’orecchio, e li sente, i leoni che ruggiscono ferocemente.

Si ferma, e non sapendo perché, dal telecomando multifunzione smorza le luci dei corridoi; adesso sono illuminate solo le lucette gialle d’emergenza, che tracciano una pista interrotta sul pavimento.

È arrivato alla sala controlli, e crede di sentire un odore che non conosce, che non può conoscere, perché non è mai stato in Africa; l’odore acre della savana, e la puzza forte dell’urina dei grossi carnivori, ed il fetore delle carcasse in decomposizione.

Apre la porta blindata della sala controlli: la luce è accesa, e dentro è tutto in perfetto ordine, niente baobab, niente leoni, niente savana.

Acciambellata sulla poltrona girevole Sheila giocherella con un joystick, muovendo i carrelli dell’archivio degli esperimenti.

Nakamura si avvicina calmo allo scimpanzé, che lo abbraccia e gli sale in braccio, e quindi la riporta nella sua luminosa gabbia.

Mentre resetta tutti i computer e lancia la routine della  trasmissione automatica dei dati a terra cerca di non chiedersi il perché della sparizione e ricomparsa del quadrumane, e spera che i sensori non ne abbiano segnalato il muoversi lungo le paratie della stazione orbitale.

Non vuole darsi spiegazioni e soprattutto non saprebbe dare spiegazioni plausibili agli ingegneri di missione, e magari lo invierebbero ad un periodo di riposo e controllo per finire poi inchiodato al suolo. A terra non vuole ancora scendere.

Non vuole tornare alla casa di Kyoto, vuota dopo che la moglie lo ha piantato per fuggire con un lottatore di kendo, non vuole affrontare il dolore dei ricordi tra quelle pareti mobili, non vuole più nutrire i carassi giganti nella vasca del giardinetto.

La casa è lontana, pensa, ma la mia vera casa è qui, lontano dalla confusione e dal disordine, lontana da metropolitane sovraffollate e da bande di motociclisti rissosi, lontana da terroristi al gas nervino e da estremisti di destra con megafoni e catene, lontana dalla corruzione e dal consumismo indispensabile, lontana da quel genere umano cui appartiene solo per colpa del D.N.A.

Nakamura sintonizza il ricevitore digitale su una stazione in broadcasting dall’Australia; il segnale riflesso dal satellite diffonde nella sala riparazioni grandi pezzi musica varia, in prevalenza rock’n’roll e surf, e mentre lavora intorno ad un pannello solare guasto, batte con il piede il ritmo, seguendo il rullante del batterista.

Alcune ore dopo è di nuovo in trance onirica, ed addormentandosi ha avuto la sensazione di vedere altri uomini in giro per la stazione, ma è impossibile, cerca di dirsi, senza il rispetto dei protocolli di aggancio guidati dalla sala controlli nessuna nave spaziale può attraccare al pontile flessibile della stazione orbitale.

Stavolta, per sicurezza, ha ingerito dopo il pasto una compressa di benzodiazepina a lunga durata d’azione, poiché teme di dovere affrontare ancora uno degli strani sogni che lo hanno assillato, ultimamente.

Nakamura è fuori della stazione orbitale, sta rimettendo a posto una fila di pannelli solari sul fianco destro, ed il cordone ombelicale che lo tiene collegato pulsa di ossigeno ed acqua: Nakamura perde il primo cacciavite, continua il lavoro con quello che si è portato di scorta, perde anche questo, e nel movimento scomposto senza gravità si allontana troppo dal portellone aperto, ed il cavo che lo collega alla stazione orbitale striscia sui supporti delle parabole, si sfrangia la copertura, si taglia e dopo un secondo si accorge di essere perduto nello spazio.

Alla deriva mentre l’aria sfugge veloce attraverso il tubo tranciato, il fantoccio in tuta spaziale gira come un disco finito di suonare sul piatto giradischi, e poi si perde confuso nel nero uniforme del buio spaziale.

Alla deriva guarda la stazione spaziale illuminata dai fari di servizio, pensa che adesso la sua casa è veramente lontana, poi scompare perso nello spazio.

Alcuni giorni dopo, i tecnici arrivati sulla stazione dopo la scomparsa inspiegabile di Nakamura osservarono i filmati delle telecamere di servizio, e videro che si alzava, come addormentato, sonnambulo, dalla cuccetta, la scimmia lo aiutava ad indossare la tuta spaziale, mentre le diceva di voler raggiungere un luogo sulla terra, (parole non chiare, microfono difettoso), poi raggiungeva in fretta il portellone per il corridoio esterno, lo apriva e si lanciava nel vuoto senza agganciarsi al cordone di sicurezza ed al tubo dei rifornimenti di aria e acqua.

La scimmia teneva tra le mani una foto di una casa di Kyoto con giardinetto e vasca per i pesci rossi, e sopra era scritto, con pennarello rosso: casa lontana.

 

 


Foto copertina © Antonio Musotto




Il cane scappato

A un certo punto, mancavano pochi chilometri al raccordo anulare, mentre la radio suonava i Creedence Clearwater Revival, ho visto che il traffico sull’autostrada era fermo.

Le automobili che prima mi avevano sorpassato ora erano con i lampeggianti di emergenza accesi, e qualcuno era pure sceso dall’auto.

Ho rallentato fino a fermarmi a un paio di metri dalle ultime auto, ho acceso anch’io le quattro frecce, e siccome nello specchietto non vedevo altre macchine sopravvenire, ho aperto lo sportello e sono sceso, andandomi ad appoggiare sul guard-rail della piazzola per la sosta di emergenza.

Che se arrivava il solito Nicky Lauda e mi tamponava, almeno ero in luogo sicuro, forse: certo che se invece ci piombava addosso una autocisterna carica di gas, ma ho scacciato il pensiero fastidioso, uno con la cravatta e la camicia macchiate di sugo si era avvicinato e mi aveva domandato cosa fosse successo, perché eravamo fermi.

“non lo so, ora ci informiamo”, gli ho risposto.

“andiamo” ha ribadito quello macchiato di sugo, curioso di scoprire la causa del campeggio di lamiera improvvisato sulla A1.

Ho fatto scattare la chiusura centralizzata della utilitaria, il cicalino ha fatto bip, e abbiamo risalito la corrente congelata di carrozzerie, qualcuno era rimasto in auto a sbraitare nel vivavoce, che i cazzi suoi si sentivano a chilometri di distanza, qualcun’altro leggeva il giornale, altri scorrevano le notifiche dei social network.

Più o meno una sessantina di esseri umani assortiti intrappolati in duecento metri di autostrada, poco prima dello svincolo per un autogrill.

“potevano entrare e parcare lì dentro” disse il mio accompagnatore occasionale, con un accento inequivocabilmente romagnolo “evidentemente non ci hanno pensato” ho ribadito senza troppa convinzione.

Poi abbiamo sentito bambini che piangevano, un uomo che chiamava “Birillo, Birillo” e quindi abbiamo notato una truccatissima che fumava seduta sul cofano del suv con la stella, e che imprecava “col cazzo che Birillo torna”.

Siccome lavoro nella comunicazione scientifica mi sono sentito in diritto di chiedere alla truccatissima cosa fosse successo “è scappato Birillo” ha sibilato quella, buttando il fumo di lato.

“Un bambino che scappa in autostrada?” ha allora ribadito il mio accompagnatore occasionale.

“ma no, si figuri” ha esalato quella che non si era mossa dal cofano, con la mano destra a reggere la sigaretta in posa plastica, polso piegato a novanta gradi “Birillo è il cane”.

Praticamente si erano fermati per fare pisciare il cane, una specie di meticcio multicolor che stava abbaiando nella scarpata, e quello si era fiondato fuori dall’auto lanciandosi verso l’autostrada, poi era stato scansato da un furgone e si era più prudentemente spostato verso la cunetta, dove il compagno di quella che fumava era sceso per cercare di riprendere Birillo e riportarlo ai bambini che piangevano.

Ma per fare questo aveva convinto un paio di camionisti a fermare il traffico, per evitare che gli ammazzassero il cane.

Nel frattempo uno con la faccia da politico aveva preso lo smartphone e aveva detto “ora chiamo la stradale e mettiamo fine a questo scandalo, qui c’è gente che deve andare a lavorare” anche se non era per niente credibile.

Il tizio con la cravatta sporca aveva attaccato bottone con la truccatissima chiedendole una sigaretta, e siccome io non fumo mi sono spostato di qualche metro, indeciso se tifare per Birillo, che fiutava tutti i cespugli e schizzava piscio random, o per il marito di quella seduta sul cofano del suv, che si era anche inzaccherato le stringate di fango, e un po’ chiamava il cane, un po’ bestemmiava in aramaico antico.

Ho cominciato a guardare anch’io le notifiche sui social, i miei amici elettronici sfigati mandavano messaggi prenatalizi, con immagini di santi, alberi di natale, pacchi dono e altra paccottiglia del genere. Nel frattempo pensavo a Sante, un amico virtuale, lontano cugino nella realtà, che passava almeno venticinque ore al giorno seduto davanti al PC, certificando la propria esistenza in vita a se stesso e ai suoi contatti con qualche selfie  qualche idiozia linkata in giro.

Che glielo volevo dire a Sante: “Sante,  poi ti accorgi che la tua vita sta andando a fondo, stringendo in un balletto mortale anche quella delle persone che ti stanno accanto. Ma non anneghi, no: è come se avessi le branchie oppure una dose inesauribile di ossigeno nei polmoni, e continui ad affondare, con l’acqua che diventa più scura ma a poco a poco, lentamente. E le bollicine intorno. E tu invece stai davanti al computer a fare cosa”

Ho smesso di pensare perché il cane era uscito dal fosso e si era avvicinato a me, forse ha capito che non odio i cani. L’ho arpionato dal collare e siccome era anche arrivato il suo autista, con le scarpe sporche e la camicia sudata, gliel’ho riconsegnato.

Quello aveva iniziato a spiegare il perché e il percome ma io avevo fretta e me ne sono andato.

Le persone che erano scese dalle auto si sono affrettate a risalire, in pochissimo tempo avevamo il motore acceso, io ho guardato sul sedile posteriore il regalo incartato, ho ingranato la prima e sono ripartito “stasera è Natale, questo regalo deve essere consegnato”

 


Foto copertina: © Antonio Musotto.