Della presenza. La fotografia di Maria Cristina Comparato

Un tema delicato, una vicenda segreta nell’animo, che l’autrice ha voluto condividere in fotografia, conferendo a se stessa l’incarico gravoso di rappresentare tutte le donne che hanno subito la mutilazione di un seno o di entrambi, alle prese con un male che lascia poco spazio alla serenità, per non dire all’ottimismo.

Una donna  – giovane – che osserva il suo corpo trasformarsi in un “Altro” meno familiare e rassicurante; l’autrice osserva il cambiamento attraverso l’obiettivo della macchina fotografica, suoi scatti che testimoniano, silenziosamente, quello che il senso comune definirebbe un’esperienza lacerante.

Con questo portfolio di genere concettuale, Maria Cristina ha vinto la XVII edizione di Portfolio Italia – GRAN PREMIO fujifilm organizzato dalla fiaf – Federazione Italiana Associazioni Fotografiche.

Vorrei quindi riferire le mie impressioni su questo lavoro, in considerazione del tipo di rappresentazione che ne ha dato l’autrice, il registro adottato nel raccontare il suo vissuto, senza per ciò darne una valutazione di merito, perché non è questo lo scopo.

Il lessico è scabro, sono immagini fredde, anzi glaciali, una fotografia denotativa al limite del minimalismo, sterilizza l’emotività spogliando l’immagine di tutte le sfumature della pratica del dolore, privandoci delle icone confortanti della sofferenza.  L’autrice ha volutamente creato uno scarno catalogo di elementi, ossia gli oggetti della cura, corollario di un corpo ferito che si mostra in tutta la sua disarmante realtà:  una cicatrice esistenziale, difficile da dimenticare, una semiosi disturbante.

Avrà voluto, Maria Cristina Comparato, esprimere una deliberata protesta nei confronti degli stereotipi della femminilità, che ancora invadono lo spazio della nostra visione della donna, effige perfetta di un’estetica imposta culturalmente ?

Lo sfondo bianco accentua la sensazione di vita sospesa e il disagio dell’osservatore che non trova alcun appiglio per sviare lo sguardo: lo schiaffo lo sento arrivare.

Qui nulla è sfumato, accennato, tutto è evidente, lo straniamento non è celato e il fragile ramoscello simboleggia una caducità che si vorrebbe ridimensionare a favore della speranza.

Quale operazione ha voluto compiere questa giovane donna, offrendosi ai nostri occhi con cruda determinazione ? La risposta potrebbe essere contenuta nella penultima fotografia dello sfondo vuoto. Ma anche l’ultima immagine potrebbe contenere un indizio; a noi la conclusione, liberi di sentirla sotto la pelle.


Copyright immagini: Maria Cristina Comparato




ARTE IN CASA

Se non puoi venire da me, vengo io da te

La casa in primo piano durante la pandemia. «Restate a casa!»

Questa l’esortazione del governo a partire dal primo lockdown, lo scorso anno, e in parte ancora oggi, la prudenza ci accompagna.

In particolar modo per quanto riguarda gli anziani, soprattutto coloro che si sono visti chiudere i centri diurni dove trascorrevano le giornate in un ambito relazionale e di accudimento, un sostegno alle famiglie che non sono in grado di garantire una presenza soddisfacente, impegnate nel lavoro e nella routine quotidiana non sempre dilazionabile.

Ma c’è chi non si è perso d’animo, come vedremo. Data l’importanza della socializzazione per le persone non più inserite nel sistema produttivo del Paese e già avanti negli anni, la Diaconia Valdese fiorentina ha promosso un’iniziativa lodevole, volta a sopperire la mancata frequentazione del centro diurno il Gignoro, da parte dei suoi assistiti.

Il Gignoro, per mano delle sue animatrici, si è quindi fatto carico di promuovere l’ideazione e intermediazione al progetto Arte in casa – percorsi artistici individuali per anziani a domicilio, finanziato dalla Cassa di Risparmio di Firenze e sviluppato in collaborazione con alcuni soggetti pubblici e privati quali: il Museo dell’Opera del Duomo, il Quartiere 2 del Comune di Firenze, il Quartiere 3 del Comune di Firenze, il Museo Casa Rodolfo Siviero, il Museo Horne, l’Associazione La Stanza dell’Attore, Silvia Logi Artworks, l’Associazione Culturale L’Immaginario.

Un percorso artistico ed educativo domiciliare al quale hanno partecipato piccoli gruppi di ultrasessantacinquenni, che hanno potuto usufruire gratuitamente di sette incontri tenutisi nella propria abitazione, gestiti da figure professionali specializzate nel lavoro assistenziale ed educativo, con l’obiettivo di esprimersi creativamente a contatto con l’arte, partecipando anche a visite virtuali nei musei che hanno aderito all’iniziativa.

«Ogni percorso artistico seguirà un programma codificato in fasi ed attività, che permetterà ai beneficiari di esplorare i diversi linguaggi artistico espressivi (fotografia, tecnica del collage, narrazione) e si concluderà con un momento di restituzione finale nel quale saranno presentati le produzioni artistiche dei partecipanti e un video collettivo che ripercorrerà l’andamento del progetto.»

Così raccontano le promotrici di questa bella iniziativa, consapevoli dell’importanza della socializzazione attiva dei senior che altrimenti finirebbero isolati nelle loro abitazioni: le bravissime Laura Biagioli – servizio di animazione Il Gignoro e referente progetto CoOpera-ività, Annalisa De Cecco – coordinamento centro diurno e domiciliare il Gignoro, Elisabetta Mantelli – ufficio comunicazione e sviluppo Diaconia Valdese fiorentina, Patrizia Minelli – assistente socio-assistenziale, Sara Pace – counselor e arteterapeuta.

Da una conversazione con Annalisa De Cecco, alla quale ho rivolto qualche domanda in merito all’attività ancora in corso: l’accoglienza del progetto da parte dei senior, le eventuali difficoltà incontrate, l’attenzione e partecipazione, i miglioramenti osservati e il successo dell’iniziativa, ho raccolto riscontri più che positivi in termini di entusiasmo dei partecipanti, anche quelli inizialmente un po’ diffidenti e loro pieno coinvolgimento nelle varie attività.

I miglioramenti a livello personale sono evidenti, a partire dal tono dell’umore, l’attenzione, la partecipazione, la minor diffidenza e l’ansia da prestazione. 

Dalle parole di Annalisa e colleghe:

«ci sentiamo davvero fortunate ad aver fatto un’esperienza così divertente e intensa. Per rompere il ghiaccio abbiamo iniziato con l’offrire questa opportunità agli anziani che frequentavano il nostro centro diurno, chiuso ormai da più di un anno, e in un certo senso abbiamo “giocato in casa” (per restare in tema!). Poi, dopo i primi tre cicli, abbiamo iniziato a inserire nel progetto persone anziane a noi perfettamente sconosciute: è stata una sfida, ma anche un grande privilegio essere “ammessi”, in questo tempo così complicato, nelle loro abitazioni.»

Penso sia meritevole di attenzione un esempio di lavoro eseguito durante gli incontri di Arte in casa; per rendere chiara la portata di questa iniziativa, vediamo nella pratica cosa ha realizzato Gianni P., assistito da Laura Biagioli, utlizzando del semplice materiale che aveva in casa.

Gianni si è ispirato alla tecnica del mosaico creativo dell’artista Silvia Logi. Partendo dalla fotografia del banchino di lavoro del padre orafo.

Racconta Laura Biagioli:

«osservando la foto, ci siamo lasciati suggestionare da un gioco di luci che si è venuto a creare in uno degli attrezzi, un cubo con le facce incavate che servivano a dare la forma curva alle lamine d’oro e d’argento: dava l’dea dello spazio con le stelle luminose. Così abbiamo immaginato una sonda spaziale, i pianeti e altri corpi celesti che abbiamo realizzato con materiali di recupero, molti dei quali messi a disposizione da Gianni stesso. Per me, di grande suggestione, è stato osservare il suo modo di procedere nella costruzione del mosaico: ha ripreso in mano le molle che usava in bottega e con maestria, cura e pazienza, per ogni pezzo cercava la giusta collocazione come se stesse incastonando pietre preziose.»

L’elaborazione del vissuto di Gianni si è resa palese nel contesto: dalla storia personale all’essere parte di un gruppo da lui definito affettuosamente aggregazione, toccando le tematiche ambientaliste fino a porsi le grandi domande sul senso della propria esistenza in rapporto all’universo.

Le operatrici del Gignoro impegnate nel progetto sognano una prossima riedizione di questa avventura così significativa dal punto di vista umano e di valore, in un tempo nel quale a causa della pandemia e non solo, le fragilità di chiunque non sia considerato “utile” in una società competitiva e divisiva, diventano ulteriore motivo di emarginazione, laddove la passività prende il sopravvento riducendo la già scarsa autonomia di questa fascia di popolazione.

Giusto un cenno a una precedente bella iniziativa del Gignoro che ho raccontato nell’articolo Dinamiche fotografiche in un centro anziani, con l’intenzione di ricordare a chi legge quelle che sono le alternative nobilitanti per chi si occupa dell’accudimento e intrattenimento delle persone anziane che meritano, dalla vita, una seconda possibilità.


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright © Patrizia Minelli, Annalisa De Cecco, Laura Biagioli, Sara Pace




ESSERE MONTAGNA di Davide Sapienza

Cari lettori di Diatomea, mi piace ricordare il senso profondo della geopoetica, ben rappresentata da Davide Sapienza, forse spinta da pressanti considerazioni sull’ambiente e i destini del pianeta, in particolar modo in un periodo così difficile per tutta l’umanità flagellata dalla pandemia.

Autore del bellissimo libro Il geopoeta – avventure nelle terre della percezione, Davide ripropone nel suo sito questa riflessione sulla montagna, la sua natura, la sua essenza vitale.

È necessario un richiamo al concetto di metabletica come trasformazione, spinta evolutiva che può produrre metamorfosi sul piano emotivo, cognitivo e relazionale per  innestarsi, di conseguenza, nel tessuto sociale. A questo riguardo è facilmente comprensibile quale può essere la nostra responsabilità di abitanti e co-creatori di un ambiente fisico e psichico che va oltre l’idea di territorio. In assenza di questo procedimento, si rimane in superficie, ancorati alle categorie di pensiero novecentesche e, parole come “orientare lo sguardo”, “promuovere il cambiamento” e altre locuzioni care alla politica rischiano di rimanere il solito cantiere di buone intenzioni che mai si realizzano.

È auspicabile per l’autore che la metabletica agisca da medium affinché lavori tra gli strati profondi della personalità, connettendo quelli latenti che il territorio rende vivi, chiedendoci il dolce sforzo di prestare attenzione a come siamo diventati.

Ciò significa essere montagna, promuovere la trasformazione, essere il cambiamento.

Profondo conoscitore della montagna, Davide Sapienza si impegna in un dialogo fitto e fecondo con se stesso e chi possiede la medesima sensibilità nell’indagare, tra cognitivo e sensoriale, il DNA della montagna e come ciò si riflette nell’immaginario umano.

Davide intende ribaltare i modelli culturali a cui siamo assuefatti: si sente spesso parlare di transizione ambientale senza che questo tema, con tutte le sue importanti implicazioni, sia considerato con l’attenzione che merita; sovente accade che grandi idee e ambiziosi progetti siano accolti distrattamente dall’opinione pubblica sfiancata da politiche fallimentari.

L’autore, infine, rivolge un invito alle giovani generazioni nate da una felice mutazione che le rende capaci di Essere Montagna, l’invito a riscrivere la storia futura partendo da questa consapevolezza.

Link al testo ESSERE MONTAGNA (reprise 2021)

INCONTRIAMOCI https://www.davidesapienza.net/2019/01/01/incontriamoci/


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright. Immagine di copertina © Davide Sapienza




IL CORTEO DELL’ACQUA, DI YOSHIMURA AKIRA

Il Corteo dell’acqua  di Yoshimura Akira (1927 – 2006), edito da Atmosphere libri, è una serie di tre racconti, il primo dei quali dà il titolo al libro. Buona narrativa giapponese che si legge con piacere, agevolati dalla prosa fotografica che valorizza i dettagli e conduce il lettore nei luoghi delle vicende tratteggiate e nell’interiorità dei personaggi.
Narrazione di grande efficacia descrittiva che mette in luce l’essenzialità dello spirito giapponese, poco incline al ridondante, anche nei momenti di intensa drammaticità. Nelle storie affiora un’impronta poetica che non cede all’esasperazione dei toni lasciando spazio al naturalismo opportunamente dosato.

Lo scenario del primo racconto è uno sperduto villaggio montano scoperto a seguito della caduta di un bombardiere durante la guerra. Qui si insedia il cantiere di un’impresa dedita alla costruzione di una diga situata sul fondo valle. Il protagonista, precedentemente detenuto in carcere per l’assassinio della moglie, si presenta come lavoratore nel cantiere.
Nel flusso della narrazione egli non esita a fornire, con lucida freddezza, il resoconto dell’uccisione della moglie fedifraga, fatto che gli procura una condanna lieve; le radici del gesto efferato sono rintracciabili in un’infanzia sofferente e un’adolescenza solitaria. Un’acuta sofferenza alimenta la coscienza inquieta di un adulto che, con razionale distacco esibisce il suo macabro feticismo consistente nel conservare parte dei resti scheletrici della defunta moglie.

Credevo che avere sempre con me le sue ossa avrebbe affievolito la mia collera nei suoi confronti.

Il turbamento del protagonista si manifesta in un’amalgama rivelatore di un animo rassegnato al tormento accolto con doverosa forza d’animo.

Nel duro lavoro alla diga la morte è un accadimento che non desta alcuna sorpresa.

Nel computo dei costi di progettazione lavori pareva fosse contemplato anche il risarcimento alle vittime commisurato alla potenza massima in kilowatt.

Una natura battuta dalla pioggia e rigogliosa fa da cornice agli avvenimenti.
La storia è animata dal dialogo silenzioso del protagonista che osserva la reazione degli abitanti del villaggio provati dalla presenza del cantiere; l’uomo agisce per delega del lettore: noi conosciamo i fatti filtrati dalla sua coscienza e osservazione turbata, e non si può dire che gli accadimenti non contribuiscano ad accentuare il suo turbamento. Una coscienza a tratti autoaccusatoria ma distaccata.

Nel secondo racconto, La ferrovia sulla schiena, il protagonista, altro io narrante, insiste sistematicamente nella sua ossessione per le ossa. Durante un intervento chirurgico ai polmoni, il chirurgo estrae cinque costole che l’uomo pretende di riavere indietro e conservare, affascinato in parallelo dalle orate scarnificate, ridotte a semplici lische – dirà la moglie – presenti in fotografia sulla rivista Graph.  Le lische costituiscono l’evidenza che sollecita in lui il desiderio di osservarle da vicino. Parte per un breve viaggio esplorativo lasciando a casa la moglie incinta e il figlio di due anni.

Mentre osservavo la pioggia dalla finestra mi sono tornati in mente gli occhi luminosi delle orate che mi guardavano dal vaso e le lische in trasparenza. E spontaneamente ho rivisto il colore delle mie costole che rilucevano in un contenitore dopo l’operazione.

Delle costole asportate ne otterrà una, conservata con cura per una decina d’anni, sottratta poi dal fratello minore dell’uomo, infastidito da questo comportamento morboso.

La cicatrice sulla schiena è occasione di gioco per il figlio piccolo del protagonista.

Mi sono immerso nel futon e ho chiuso gli occhi. Nitida come non mai ho percepito la cicatrice sulla mia schiena. Curve rotaie di ferro. Immaginavo un trenino con su il mio bambino avanzare mezzo storto su di loro, cigolando sulle piccole ruote, lungo la mia schiena.

Qui la finzione si mescola alla realtà, infatti Yoshimura Akira fu sottoposto a intervento chirugico ai polmoni a ventuno anni; lo veniamo a sapere  dalla postfazione a cura della traduttrice Maria Cristina Gasperini. L’intervento chirurgico  fu elemento cruciale nella scelta definitiva della carriera letteraria dell’autore.  Ashimura non mancò di incontrare Yukio Mishima [1] durante gli studi universitari, come riportato nell’autobiografia Watashi no bungaku hyoryu.

Inseguire le proprie ossessioni è un tratto distintivo osservabile in questa serie di racconti di fattura accurata, unitamente a elementi fattuali tratti da svariate materie fra cui la storia, con un’attenzione particolare alla storia della guerra, la medicina, la geografia, l’ingegneria e la zoologia. Puntare sulla ricerca meticolosa in questi campi, funzionale alla stesura delle trame, è la cifra stilistica dello scrittore, apprezzato nel mondo della moderna letteratura giapponese.
Da alcuni suoi lavori anche risalenti agli anni dello studio universitario sono stati tratti radiodrammi, sceneggiati e film trasmessi da radio e televisioni giapponesi a partire dagli anni Settanta.

Anche se metto al centro i fatti, io scrivo romanzi. Tolto il superfluo, scrivo la storia che ho in mente: noto come lo scrittore che fa ricerca, Yoshimura Akira è considerato un innovatore della kirokubungaku, la letteratura di genere documentario basata sulla raccolta dei dati e l’aderenza al fatto (dalla postfazione di Maria Cristina Gasperini).

Nel terzo racconto, La Fila, la morte torna ad affacciarsi persecutoria nelle ansie del protagonista. Durante viaggi di lavoro anche brevi telefona a casa per ricevere rassicurazioni sullo stato in vita dei parenti afflitti da una salute precaria. Infausti ricordi d’infanzia tempestano la sua memoria rendendolo incline a tali preoccupazioni.

Neppure con il matrimonio ero riuscito a liberarmi dall’angoscia che accadesse qualcosa in mia assenza. In effetti mia figlia da piccola si era procurata una grande ustione dalla guancia all’orecchio mentre ero fuori una notte, e mia moglie era stata investita da un’auto, aveva perso conoscenza ed era stata ricoverata in ospedale sempre una volta che ero via per lavoro.

Successivamente l’attenzione si concentra sul giovane nipote Shunsuke, la cui “stranezza” è conseguenza della visita di commiato alla defunta nonna. Stranezza aggravatasi a seguito della sua partecipazione a due funerali. Shunsuke assimila l’idea della morte come evento ineluttabile.
A seguito del peggioramento del bambino, lo zio gli fa visita ascoltando il suo ragionamento al limite della presa di coscienza circa la fila:

Al secondo episodio di stranezza, mio nipote aveva pronunciato la parola “fila”. «Gli uomini muoiono tutti?» mi aveva chiesto con gli occhi impauriti» (…) «Allora stiamo tutti in fila verso il giorno in cui moriremo…» «È vero, è una fila. Dici una cosa molto appropriata. Una fila, è proprio una fila» convenni, e per la prima volta sul suo viso era affiorato un sorriso.

La conversazione fra zio e nipote è il sigillo che chiude il racconto lasciando al lettore le considerazioni sulla naturalezza di un rapporto costruito sull’ascolto del bambino da parte dell’adulto, rispettandone la delicata percezione della sorte non negoziabile che ci accomuna tutti.

[1] Di Yukio Mishima non possiamo non ricordare il suicidio rituale e l’estetica della morte, ossessione che ricorre frequentemente nei racconti de Il Corteo dell’acqua.


Yoshimura Akira (1927-2006) è un pluripremiato scrittore giapponese. Ha scritto, tra gli altri, Hagoku, 1983 (da cui è stato tratto il soggetto del film Unagi, L’anguilla, Palma d’Oro al festival di Cannes nel 1997), Mizu no soretsu (Il Corteo dell’acqua 1967), Hasen, 1982.

Dopo il catastrofico tsunami dell’11 marzo 2011, il suo Sanriku kaigan otsunami (Il grande tsunami della costa del Sanriku, 1970) fu ristampato in 150.000 copie. Sposato alla scrittrice Tsumura Setsuko, è stato presidente della Nihon bungeika kyokai (Japan Writer’s Association) e membro del PEN Club.





GREGORY CREWDSON

What I am interested in is that moment of transcendence, where one
is transported into another place, into a perfect, still world.

I’m monomaniacal about almost everything

Gregory Crewdson

Gregory Crewdson

Esponente di spicco della Staged Photography, [1] Gregory Crewdson nasce a Brooklyn nel 1962 da madre insegnante e padre psichiatra.

La professione del padre pare abbia favorito il suo interesse per la psicoanalisi, disciplina che ha avuto un’influenza nella sua attività di fotografo immaginifico.

Si narra che, a dieci anni, il padre lo portò a visitare una mostra della fotografa Diane Arbus: esperienza fondativa in vista delle scelte future.

Dopo un esordio musicale come chitarrista in una rock band, The Speedies, lo studente Gregory Crewdson frequenta la Scuola d’Arte Purchase Collage dal 1981 al 1985; durante questo periodo suo padre acquista una vasta porzione di terreno in una zona lacustre nel Massachussetts occidentale, nei pressi della città di Lee.  In un luogo isolato ai margini della proprietà, il giovane artista costruisce una capanna di legno, eletta a rifugio personale per elaborare i suoi ambiziosi progetti fotografici.

Nel 1988 il nostro si laurea all’università di Yale con una tesi avente per tema le case degli abitanti di Lee, da lui ritratte, primo indizio di quella che diventerà la sua arte, nello stile della Staged Photography.

Il mondo campestre e selvatico della provincia americana, per nulla rassicurante ma oscuro e inquietante, è lontano dall’icona del sogno americano che non riesce  a mascherare l’evidente nevrosi dei suoi abitanti. Crewdson ci presenta un mondo privo di riferimenti paesistici che siano di conforto per l’osservatore colto di sorpresa di fronte alle ossessioni dei personaggi raffigurati.

L’artista costruisce scenari nei quali si percepisce nettamente il perturbante, ispirandosi al saggio freudiano Das Unheimlilche, ciò che percepiamo come alieno e familiare allo stesso tempo e che non è insolito incontrare nell’ordinario quotidiano: un tipico esempio sono gli  oggetti inanimati che ci confondono per la loro ambigua apparenza: il classico automa con sembianze umane troppo definite, bambole dotate di lineamenti corporei estremamente precisi, ecc.; il perturbante qui è il non vivente troppo simile a ciò che è vivo.

Il perturbante in Crewdson è riscontrabile nell’iconografia dell’any town, sopraffatta dall’inautenticità insita nella superfetazione dell’arredo urbano e degli interni.

La luce, lungamente studiata,  è elemento chiave della fotografia di questo autore e contribuisce a conferire quel carattere di sogno lucido alle sue composizioni, volutamente stranianti; un buon contributo è dato anche dall’evidenziare nel dettaglio tutti gli elementi della scena allestita con cura maniacale: se ne ricava un opprimente senso di iperrealtà che definirei angosciante.

Nel mettere in scena l’America tormentata della piccola borghesia soffocata da idoli e stereotipi e pallida imitazione dell’inarrivabile upper class, Crewdson si avvale di un folto gruppo di collaboratori e un budget cospicuo, coinvolgendo come interpreti dei suoi lavori anche star del cinema, fra cui il compianto Philip Seymour Hoffman, Tilda Swinton, Gwyneth Paltrow, Cate Blanchett, protagonisti delle scene ritratte.

Una vera e propria macchina teatrale messa in moto per dare corpo a progetti fotografici di grande effetto e significato.

Twilight, Dream house, Cathedral of pines, Beneath the roses e il più recente An eclipse of Moths,  sono i più noti progetti di questo artista che scava nell’insolito, talvolta celato  ai nostri occhi, rintracciabile nell’ordinario paesaggio suburbano, mostrandone l’aspetto livido, ansiogeno e misterioso.

TWILIGHT

Untitled, 2001

DREAM HOUSE

CATHEDRAL OF THE PINES

The Haircut, 2014

BENEATH THE ROSES

AN ECLIPSE OF MOTH

The taxi Depot, 2018-2019

I’m trying to explore what, on the surface at least, seems to be everyday life, and trying to find within that some unexpected anxiety, or fear¸ or wonder¸even.

Gregory Crewdson

Preferisco astenermi dal citare romanzieri e registi del cinema ai quali Crewdson può essersi ispirato; lascio questo piacere al lettore invitato a eseguire una sua ricerca, incuriosito dal fascino di queste opere da scoprire e gustare nella loro apparente eccentricità.


[1] Non mi convince il termine tableau vivant  impiegato da altri commentatori, perché lo  considero inappropriato in questo caso.

Fonte: https://gagosian.com/artists/gregory-crewdson/


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo e sono soggette a copyright © Gregory Crewdson




FRANCESCA WOODMAN

Francesca Woodman è una delle figure più emblematiche e significative della fotografia del Novecento, nonostante il suo breve ma promettente percorso creativo e fotografico che lei stessa decide di interrompere prematuramente togliendosi la vita.

Francesca Woodman era solita fotografarsi, quasi in maniera ossessiva e ne spiegava così il motivo a un’amica, con ironia mista a una buona dose di pragmatismo:

È una questione di convenienza: io sono sempre disponibile.

Francesca Woodman (1958-1981) giovane fotografa americana morta suicida a 23 anni, forse a causa di quel mal di vivere che sovente affligge le persone intelligenti e inquiete.

Quando il disagio travolge gli argini, il gesto estremo può erompere tragicamente. Un’artista di talento e grande sensibilità che ha vissuto la fotografia come mezzo espressivo asservito alla sua visione del corpo. Un corpo che l’autrice voleva fondere con l’ambiente circostante per farne parte, o un tentativo di annichilimento della sua identità? Di sicuro una personalità complessa e profonda dal punto di vista creativo.

Figlia di un pittore e di una ceramista, inizia la sua carriera di fotografa a 13 anni (Self portrait at thirteen); tra il 1975 e il 1979 frequenta la Rhode Island School of Design (RISD) dove si appassiona alle opere di Man Ray, Duane Michals e Arthur Fellig Wegee. Si reca anche nel nostro paese per seguire i corsi europei della medesima scuola, a Roma. Qui dimostra interesse per le opere di Max Klinger.

A Roma conosce, fra l’altro, Sabina Mirri, Edith Schloss, Giuseppe Gallo, Enrico Luzzi e Suzanne Santoro. Frequenta anche l’ambiente artistico della Transavanguardia italiana.

Nel gennaio 1981 pubblica la sua rassegna fotografica dal titolo Some Disordered Interior Geometries e nel corso dello stesso mese si suicida gettandosi da un palazzo di New York.

Francesca Woodman pone un’attenzione maniacale alla costruzione formale delle sue fotografie. La sua opera sembra essere un’equazione da risolvere. Nel libro Some Disordered Interior Geometries compone infatti una serie di fotografie che interpretano i principi di geometria scritti in un vecchio libro della nonna.

These things arrived from my grandmother’s they make me think about where I fit in this odd geometry of time. This mirror is a sort of rectangle although they say mirrors are just water specified.

Un’artista provocatoria e irrituale, sulle cui opere ci si sofferma con quell’interesse curioso volto alla ricerca degli indizi anticipatori del suo tragico gesto.

Nelle sue creazioni osserviamo la rappresentazione di uno schema corporeo sapientemente trasfuso in quelle disordered interior geometries per mezzo di lunghe esposizioni e doppie esposizioni meticolosamente studiate, per rendere quell’effetto di assorbimento nello spazio che lei prediligeva.

Uno spirito tormentato volto all’arte, un’autrice affascinante che ha lasciato il segno. Dei suoi lavori c’è chi ne ha ricavato una lettura femminista. Non concordo con questa tesi perché la sua arte non era formulata sugli aspetti di rivalsa di un corpo negato, questione lungamente indagata all’interno dei gruppi femministi, almeno qui in Italia. Per quanto interessata alle tematiche del secondo sesso (cit.), non sono propensa a generalizzare in chiave femminista tutti i fenomeni che coinvolgono le donne, nè incline all’astrazione semplicistica.

In effetti la Woodman, più che promuovere il corpo femminile come soggetto politico, era  impegnata in una sua personalissima ricerca dell’interiorità racchiusa in un corpo come  estensione del suo ego, in relazione con lo spazio circostante; quindi nessuna dimensione sociopolitica nei suoi lavori. In realtà è il surrealismo ciò che influenza la sua produzione artistica, col quale viene in contatto durante il periodo romano.

Il corpo si protende e si confonde entro scenari disadorni, nitidi ma naturalmente essenziali, dove la figura umana (lei stessa è sovente il soggetto delle sue immagini), non tradisce la staticità tipica della posa, quando non è il mosso l’aspetto prevalente.

 Ho dei parametri e la mia vita a questo punto è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza da caffè e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate.

Francesca Woodman




ISTANTI DI LUOGHI

Cominciando a capire il mondo attraverso l’immagine,
capivo l’immagine, la sua forza, il suo mistero

Michelangelo Antonioni

Ritrarre stanze e scorci di ambienti rientra nell’ampia casistica della fotografia universale, dai grandi autori ai fotografi amatoriali.

La fotografia d’interni la incontriamo prevalentemente  nelle riviste di arredamento, dove appaiono simmetrie confortanti, composizioni eccellenti che raffigurano equilibri impeccabili che si riscontrano in spazi ben progettati.

Ma qui siamo alla ricerca di una visione più calda degli ambienti, che si contrappone a quella degli spazi ripresi nella loro fredda staticità.

La relazione fra gli oggetti è l’elemento chiave di questo genere di fotografia, che ci porta  nel mondo interiore dell’autore dello scatto, colui che vede e porta a galla, con un colpo d’occhio, ciò che affonda nella sua immaginazione, riscontrabile negli oggetti di uso quotidiano.

Sia detto per inciso, mi spingo a volte in vertiginose correlazioni tra cinema e fotografia: Michelangelo Antonioni nei suoi film indugiava nel riprendere gli oggetti di un interno, invitando lo spettatore a godere di una semiosi del tutto intenzionale.

Patrizia Minelli è una buona interprete di questi istanti di luoghi, e ci trasporta nel suo  mondo di piccole cose, nel suo sogno. Gli oggetti si riscattano dalla passività che viene loro abitualmente assegnata e diventano protagonisti di una storia da ricostruire partendo dai frammenti di un ambiente.

Per ricordare un nome altisonante, Diane Arbus, celebre fotografa del Novecento, nota prevalentemente per i suoi freak, eseguiva anche foto di  interni, espressione di quell’enigmaticità che le era propria, interprete della fotografia senza data scadenza.

Nella società della fotografia di massa privilegio queste esperienze più singolari, che si differenziano dall’opacità di visione derivante da un uso inconsapevole del mezzo fotografico.

Detto e ridetto da tutta la letteratura critica sulla fotografia, la scelta di un soggetto ha un’intenzionalità che oscilla tra il vissuto dell’autore e la cultura di appartenenza, le esperienze di vita, la concezione estetica.

Vi lascio ora alle fotografie di Patrizia, con l’invito a soffermarvi sulla  sua narrazione: cercate le risonanze se ve ne sono per voi.


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono soggette a copyright © Patrizia Minelli

 

 




DUE MINUTI CON PAUL McCARTNEY di Friedrich Christian Delius

Don’t be afraid she’s a coward

Recensione secondo l’enciclopedia Treccani: esame critico, in forma di articolo più o meno esteso, di un’opera di recente pubblicazione. Detto fatto mi accingo a svolgere il compito proposto dall’Associazione Diatomea.net, ossia scrivere una recensione al volumetto citato sopra; accolgo l’invito con curiosità, una volta compreso l’argomento e il costrutto di questa gradevole opera di Friedrich Christian Delius, scrittore tedesco nato a Roma nel 1943, non molto noto nel nostro Paese [1]; preferisco quindi basare il mio commento sulle notizie riportate nel libro, edito da Le Lettere, a cura di Susanne Lippert.

Due minuti con Paul McCartney, inevitabile calco del bellissimo Esercizi di stile di Raymond Queneau, testo amato e riletto di tanto in tanto, mai sazia del gustosissimo gioco di variazioni di un tema banale, tra figure retoriche e generi letterari; ora si rende necessaria una precisazione: la versione italiana del libro di Delius è esperimento di traduzione compiuto dagli studenti del corso di Lingua e Traduzione Tedesca dell’Università degli Studi di Roma.

Salta
subito all’occhio l’audacia sia dell’autore, impegnatosi nella stesura di 66
versioni di una storiella ordinaria, alla maniera di Queneau (il suo Exercises
ne conta 99), sia degli studenti del corso di traduzione, emuli del virtuoso Umberto
Eco che curò la traduzione e l’adattamento in italiano di Esercizi di stile,
nel 1983, consapevole delle regole del gioco.

In
effetti Susanne Lippert ci informa che chiese a Delius se per il suo libro si
fosse ispirato a Queneau, e lui, non molto contento della domanda implicante
una supposta somiglianza, rispose affermativamente.

Dall’introduzione
della Lippert:

Una
breve descrizione del libro Due minuti con Paul McCartney, tratta direttamente
dalla homepage di Delius, recita così: “Un pallone, un cane, un Beatle,
due giovani e sette ragazze a Regent’s Park a Londra, il giorno in cui la
canzone Getting Better viene registrata per l’album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts
Club Band.” Un incontro strano, raccontato e inquadrato in tanti modi
diversi, un gioco divertente con prospettive sempre nuove e belle varianti.
Sessantasei variazioni, un ventaglio colorato di stili e tonalità, di
composizioni letterarie, giochi di parole e modi di scrivere.
[…]

Ho
letto con piacere le sessantasei variazioni della storiella definita
insignificante, apprezzando l’impegno dei giovani traduttori, tuttavia sarebbe
stato ancor più interessante trovare nel libro anche il testo originale, per
meglio considerare come le sfumature e le particolarità di una lingua, il
tedesco in questo caso, sono state trattate e adattate nella versione italiana,
nel rispetto dello schema ludico proposto dall’autore.

Posso solo tentare un’ipotesi: Delius non voleva presentare nella forma una pedissequa riproduzione dell’opera di Queneau  riportando il testo fonte; di fatto il tedesco è lingua poco praticata in Italia e per nulla orecchiabile. Come siano andate le cose non è dato saperlo.

Utile
addentrarci nei misteri della traduzione, in appendice, con le  Pillole di traduzione di Susanne
Lippert.

Lippert ha ritenuto opportuno fornire ai lettori un breve saggio di traduttologia, giacché questa materia ha le sue teorie, regole e strumenti utili a svolgere un buon lavoro di traduzione. Nel compendio è citato anche Dire quasi la stessa cosa  di Umberto Eco il quale, con la consueta prosa  avvincente, sottolinea le criticità, le false credenze e gli errori, a volte fatali, nei quali si rischia di incorrere quando non si è sufficientemente abili nel difficile mestiere di traduttore.

A
coronamento del tutto, nel breve saggio della Lippert troviamo uno spassoso
esempio di traduzione automatica.

Tornando
allo scopo di questo mio commento, riporto 
l’invito indicato in seconda di copertina:

Un
libro da regalare a persone intelligenti, soprattutto ai fan dei Beatles, agli
amanti del calcio e della letteratura, agli insegnanti di lingua, agli
appassionati di Londra e in special modo agli aspiranti scrittori in cerca di
una palestra stilistica.


[1]  Delius è autore famoso in Germania anche per gli argomenti trattati nei suoi romanzi che quasi sempre riguardano temi di attualità e storia:
–  La passeggiata da Rostock a Siracusa, 1998, Sellerio
–  La ballata di Ribbeck, 2012, Mimesis
–  Il mio anno da assassino, 2008, Edizioni Spartaco.


Dello stesso autore anche libri ambientati in Italia:
Ritratto della madre da giovane, 2009, Archinto e Die linke Hand des Papstes, 2013, Rowohlt





L’OSPEDALE DI BEELITZ-HEILSTÄTTEN TRA FOTOGRAFIA, MEMORIA E ATTUALITÀ

Nella
nuova normalità generata dall’evento pandemia, si riscopre in una forma nuova e
inattesa ciò che si è per molto tempo considerato immutabile.

Una
mia banalissima visita al laboratorio di analisi per degli esami di routine ha
mostrato qualcosa di inedito legato alla nuova condizione: dalla misurazione
della temperatura con termoscanner svoltasi all’ingresso, da parte di una
persona addetta all’accoglienza dei clienti, all’igienizzazione delle mani
guantate, alla diversa disposizione delle sedie in sala d’attesa e altri segni
denotativi del cambiamento imposto dalla pandemia ai nostri comportamenti.

Chi
mi legge si deve abituare alle incursioni delle mie catene associative nel reale,
che anche in questo caso non sono mancate; in questo strano periodo di
adattamento a una vita ancor più protetta e controllata, in una transizione che
il cervello deve elaborare, i ricordi scoppiettano nella mia mente come
popcorn.

Mi sono proiettata nelle immagini di un portfolio realizzato da Stefano Barattini, relativo a una struttura abbandonata, situata a circa 70 km a sud-ovest di Berlino, cioè il complesso ospedaliero di Beelitz-Heilstätten. Di Barattini voglio qui ricordare anche gli ottimi lavori sul Bauhaus e il Brutalismo architettonico.

Una breve scheda sull’edificio oggetto di questo portfolio, dalle
parole del suo autore:

Nel 1898 circa sorse a circa 70 km a sud-ovest di
Berlino un imponente complesso sanatoriale, Beelitz-Heilstätten, distribuito su una superficie totale di circa 200 ettari. Più architetti presero parte al
progetto, tra il 1898 e il 1930
.

Si tratta di una città ospedale per la cura della tubercolosi, composta da una sessantina di edifici, completamente autosufficiente. Il complesso comprendeva, oltre agli spaziosi padiglioni per la degenza e le terapie del caso, anche una propria centrale elettrica, la stazione ferroviaria, campi coltivati e allevamenti.

Durante la Grande Guerra, Beelitz venne
utilizzato come ospedale militare ed è qui che, verso la fine del 1916, fu
ricoverato anche il diciassettenne Adolf Hitler ferito nella battaglia della
Somme.

Caduto il Terzo Reich, il complesso venne
inglobato nei territori della DDR diventando il principale ospedale militare
sovietico,  fino alla caduta del muro di
Berlino e la riunificazione delle due Germanie. L’esercito sovietico lasciò
definitivamente Beelitz nel 1995.

Oggi questo comprensorio versa quasi totalmente
in stato di abbandono, solo un paio di padiglioni sono ancora in attività
mentre altri sono stati nel tempo oggetto di vandalismi e oggi sono vuoti e
pericolanti. Però la sua storia e la particolare architettura richiama ogni
anno decine di fotografi che lo esplorano alla ricerca delle emozioni di un
passato memorabile.

Oggi più che mai, in tempo di pandemia e di necessità di reperimento
di infrastrutture indispensabili, viene spontanea una riflessione sul tema del
riuso di spazi anche vetusti, e non solo per la loro bellezza intaccata dalla
mancanza di manutenzione, ma ancora visibile.

Non si può ignorare che la giustificazione sovente addotta al recupero
di vecchi spazi abbandonati è l’elevato costo degli interventi di
ristrutturazione; senza entrare nel merito delle questioni tecniche implicate
da tale operazione, perché non è mia competenza, piacerebbe a molti di noi
osservare maggiore entusiasmo, da parte degli investitori, dei destinatari,
degli amministratori e dei soggetti politici, nell’intendere il  riuso come opportunità non velleitaria.
Naturalmente il ragionamento che qui abbozzo e che meriterebbe una trattazione
più approfondita, che vada oltre la semplice visionarietà, deve anche tenere
conto degli aspetti legati alla sostenibilità e tutela dell’ambiente, ormai non
più trascurabili. Il tutto inquadrato in una indispensabile prospettiva che non
sia limitarsi a soluzioni più o meno improvvisate dettate dall’emergenza.
Impariamo a guardare oltre.

Sappiamo che a Milano, per la cifra tutt’altro che modica di più o
meno venti milioni di euro, i padiglioni della ex Fiera sono stati convertiti
in un ospedale destinato ai malati di Covid-19, 
struttura che ha ospitato in tutto una ventina di pazienti e poi chiusa.

Privati o pubblici che siano, sono molti soldi che si sarebbero potuti
spendere in maniera più efficace.

Non potendo fare altro, per il momento, torno a sognare la vita e
l’animazione dei luoghi in fotografia, immaginandone le vicende umane e
l’impronta lasciata all’umanità erede di quella storia.


Stefano Barattini, classe 1958, ha iniziato a fotografare nel 1979 unendo dall’inizio la passione per la fotografia a quella per i viaggi. Ha collaborato per quattro anni con la rivista Mototurismo  raccontando con testi e foto i suoi viaggi in moto. Dopo una pausa di riflessione ha ripreso l’attività fotografica nel 2006, periodo in cui il digitale cominciava ad apparire sulle scene, accogliendo il cambiamento con l’adozione di reflex digitali. I viaggi sono sempre stati al centro del suo interesse, analizzando luoghi e popoli, cogliendone l’essenza attraverso la fotografia. A partire dal 2013 ha scoperto e approfondito il mondo dei luoghi abbandonati, con particolare interesse per gli insediamenti industriali, in Italia e all’estero. Questi luoghi rappresentano un mondo scomparso che fu, un tempo, portatore  di progresso economico, benessere e valore per l’essere umano. Insediamenti che oggi sono, purtroppo, soggetti a degrado, valori perduti a seguito di una mancata riqualificazione. Gli studi di Architettura lo hanno da sempre portato a rappresentare i contesti urbani e il loro rapporto con l’essere umano. A questo riguardo è d’obbligo soffermarsi su un tema importante, quello delle periferie che, più di altre realtà, inducono gli abitanti ad accettare, se non addirittura subire,  una sorta di convivenza con spazi non sempre a misura d’uomo. Grande appassionato del periodo modernista e razionalista, va alla ricerca degli elementi architettonici che rappresentano forse l’ultima vera corrente stilistica di quel contesto.





OMAGGIO A ROBERT CAPA

Oggi ricorre il sessantaseiesimo anniversario della morte di Robert Capa, pseudonimo di Endre Ernö Friedman (Budapest 1913 – TháiBinh, Vietnam 1954).

La storia della fotografia lo ha venerato, e con ragione, per
l’originalità del segno che ha caratterizzato la sua vasta e straordinaria
produzione; da alcuni commentatori considerata un vero e proprio lascito per la
generazione di reporter venuti dopo di lui e dediti al fotogiornalismo che ha
caratterizzato la cultura fotografica di buona parte del Novecento, un secolo
ricco di figure carismatiche in molti ambiti.

Conosciuto come uno dei maggiori esponenti del fotogiornalismo, è sua
la famosa affermazione: “if your pictures aren’t good enough, you
aren’t close enough
”. Una convinzione che gli costò la vita in
Indocina, colpito dall’esplosione di una mina. Una perdita grave negli ambienti della
fotografia internazionale. Una sorte simile subì la compagna Gerda Taro,
fotografa, che morì travolta da un carro armato durante guerra civile spagnola.

Capa fu co-fondatore della Magnum Photos Inc., assieme a Henri Cartier-Bresson, George Rodger, David Seymour e William Vandivert.

Fu anche reporter per la rivista Life, che pubblicò i suoi reportage sulla presenza delle truppe anglo-americane nel nostro Paese.

Uomo apolide e giramondo, ebbe una vita personale intensa e
appassionata. Seguendolo su e giù per gli scenari di guerra è possibile
cogliere l’essenza  di un fotografo
audace, che non esita a mettersi in gioco con l’azzardo di un vincente per
rendere al mondo testimonianze di grande spessore fotografico, fino al fatale
momento in cui esplose la mina; una fine beffardamente coerente per un uomo che
scelse di vivere fino in fondo, con grande integrità, il mestiere di
corrispondente di guerra.

Capa asseconda il cambio di passo nella fotografia di guerra, di cui
diventa riferimento emblematico, facendosi partecipe di un nuovo modo di
vedere, deideologizzato, degli atti bellici. E ciò avviene fra la Guerra civile
spagnola e la Seconda guerra mondiale.

Infatti la tradizione di epoca precedente, fino alla Prima guerra
mondiale, imponeva un linguaggio fotografico vincolato a un monopolio formale.

Nel 2015 visitai a Milano una mostra dedicata all’autore in occasione del centenario della sua nascita, ed è proprio di questa esposizione che vorrei parlare per ricordarlo.

Una mostra incentrata sul periodo italiano. Gli anni sono quelli della Seconda guerra mondiale: una raccolta di scatti datati 1943-44.

Una rassegna di 78 immagini che trattano dello sbarco degli alleati in
Italia: Monreale, Anzio, Cassino, Palermo, Agrigento, alcuni dei luoghi toccati
dall’evento.

Un bianco e nero di qualità indiscutibile al servizio di un realismo
limpido nelle scene ritratte, dove la guerra si mescola alla vita quotidiana
della gente, della povera gente che accoglie i soldati americani con grandi
sorrisi di sollievo e sorpresa; alcuni tendono le mani verso di loro, con la
massima apertura tipica della gente del nostro meridione, gente che non aveva
più nulla da perdere.

Foto di un’epoca nella quale la fatica di vivere era dominante, lo spaccato di un’Italia misera, nella quale la ricchezza era poter esibire un paio di pani, tenuti in mano quasi come un trofeo, passeggiando in piazza Luigi Pirandello ad Agrigento con indosso l’abito buono.

Uno sguardo concentrato sulle milizie alleate; giovani ritratti nei
loro bei volti ben nutriti della ormai vittoriosa America, i portatori di aiuti
insperati, protagonisti dell’attrazione verso lo straniero venuto a liberare
una terra lacera e affamata.

Suggestive, data l’insolita collocazione e i chiaroscuri sapientemente
distribuiti, le immagini dell’unità chirurgica allestita dagli alleati
all’interno di una chiesa.

Nel nostro mondo moderno, ve l’immaginate un’equipe chirurgica che
opera nella sagrestia o di fronte all’altare di una chiesa sconquassata dalla
guerra?

Forse oggi sì, ce lo immaginiamo data la grave emergenza sanitaria che
stiamo vivendo a causa della pandemia. Estreme misure per far fronte a estreme
necessità.

Il dolore, la distruzione e la morte sono il nucleo tematico di questa
raccolta, eppure nelle foto di Capa ho intravisto un profondo senso della vita;
una grande forza compositiva anima le persone e i luoghi con l’ausilio di
un’enfasi storicizzante ma nessuna retorica.

Ancora un cenno sulla dimensione culturale della fotografia di guerra di Capa: come rappresentare la violenza e la morte “in diretta”. L’autore lo fece con il “Miliziano“, e fu il primo a mostrare la morte in battaglia dandone la visione più cruda.

Robert Capa / Magnum Photos, SPAIN. 1936. Spanish Civil War © International Center of Photography

Dalle parole di  Luigi Tomassini:

La fotografia del miliziano, ma anche e forse
ancor più le fotografie dello sbarco in Normandia o della campagna d’Italia,
introducono l’aspetto relativo all’annullamento della distanza fra evento e sua
rappresentazione Quando J?nger affermava che l’azione del soldato e quella del
fotografo  erano assimilabili, ma
“chi spara non può fotografare”, intendeva dire che la distanza fra
la vera esperienza di guerra e la sua rappresentazione appariva ai suoi tempi
incolmabile
[…] i fotografi come Robert Capa, che cercavano per primi di
fotografare da dentro l’esperienza di guerra, aprono la strada a un processo
nuovo, in cui anche quel confine appare valicabile, determinando quindi l’avvio
di una ridefinizione dei rapporti fra reale, virtuale, immaginario, con
conseguenze che ad oggi, forse, non siamo ancora pienamente in grado di
valutare.

Ancora, lo scrittore americano John Steinbeck:

Capa sapeva cercare, e poi sapeva usare ciò che
trovava. Sapeva, ad esempio, che la guerra, fatta in così larga misura di
emozione, non si può fotografare; ma egli spostò l’angolo, e la fotografò. Su
un volto di bambino sapeva rivelare l’orrore di tutto un popolo. Il suo
apparecchio coglieva le emozioni, e le conservava. L’opera di Capa è da sola,
tutta insieme, l’immagine di un grande cuore e di una irresistibile pietà.
…Capa era in grado di fotografare il moto, la gaiezza, la desolazione, Era in
grado di fotografare i pensieri. Ha creato un mondo, che è il mondo di Capa.


Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright. Foto copertina Robert Capa / Magnum Photos, SPAIN. 1936. Spanish Civil War © International Center of Photography