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Articolo edito su CAI Monterotondo
“Il Ginepro” n.4 – gennaio 2020 

Il nome di Hector Berlioz forse non dirà molto a chi non è familiare con la musica sinfonica. Per coloro che ne fossero appassionati, invece, è senza dubbio un personaggio di prim’ordine. Pochi però sanno che Berlioz, oltre che essere stato un grandissimo compositore, fu anche un frequentatore assiduo ed amante della campagna romana e dei nostri Appennini! Ma come ci è andato a finire un musicista colto francese dell’800 in mezzo ai monti abruzzesi?

Generalmente ci immaginiamo i musicisti di una certa epoca con delle appariscenti parrucche, nell’intento di allietare qualche corte europea o a scrivere in solitario musica da presentare in teatro per un pubblico altolocato. E di solito ce li immaginiamo seriosi e tutti immersi nel proprio lavorio cerebrale.

Ecco, Berlioz non era esattamente quel tipo di musicista… Dopo aver ricevuto un’educazione musicale per niente ortodossa, nel 1830, a 27 anni, consegnò all’umanità quello che è considerato il suo più grande capolavoro: la Sinfonia Fantastica. Opera complessa, immaginifica e scritta per un organico mastodontico, la Fantastica è universalmente riconosciuta come una pietra miliare della letteratura sinfonica, che aprì la strada alle future generazioni di compositori romantici. E fu in questo anno che ottenne il prestigioso Prix de Rome. Questo riconoscimento, istituito dal Conservatorio di Parigi e in vigore dal 1663 al 1968, consisteva in una borsa di studio che prevedeva la permanenza presso l’Accademia di Francia a Roma, a Villa Medici, per un anno intero e veniva assegnata ai vincitori del concorso in cinque discipline artistiche: architettura, scultura, pittura, incisione e musica.

Quella che per molti sarebbe stata un’occasione unica di crescita artistica, di frequentazione di ambienti raffinati, di proficui confronti tra artisti, non fu per il nostro musicista un’esperienza così esaltante. Anzi, in quell’ambiente accademico non si sentiva per niente a suo agio e mal sopportava la vita nella città romana, all’epoca decadente e non cosmopolita come poteva essere Parigi. Fu così che Berlioz cominciò a passare sempre meno tempo in Accademia e a Roma, fino ad assentarsi per intere settimane! Ma dove andava tutto questo tempo lontano dalla città? Cosa faceva? Perché? Sono queste le domande che si devono essere chiesti all’epoca i frequentanti dell’Accademia e i responsabili della borsa di studio. Ma è lo stesso Berlioz a raccontarcelo visto che, oltre ad essere un musicista, amava scrivere e lasciò molti diari narranti le sue avventure in Europa, alcune delle quali racchiuse nel volume Viaggio musicale in Germania e in Italia del 1844. Questi diari rimangono dunque un interessante spaccato non solo della vita di quei tempi, ma anche un resoconto dei paesaggi appenninici e delle genti che li popolavano nel XIX secolo.

«Approfittando della libertà che ci era accordata, io cedevo alla mia inclinazione per le esplorazioni avventurose e quando mi sentivo morire per la noia mi rifugiavo negli Abruzzi»

È così che per contrastare quello spleen (termine indicante la tristezza meditativa o la melancolia, tanto decantata nella letteratura francese dell’Ottocento), iniziò a recarsi di frequente a Subiaco, grande villaggio degli Stati pontifici, a qualche lega da Tivoli. In breve, Berlioz cominciò ad esplorare altri villaggi d’Appennino, spesso per lunghe battute di caccia:

«…ricordo quell’aspro paesaggio degli Abruzzi, dove ho tanto vagato; strani villaggi, mal popolati da abitanti malvestiti dallo sguardo sospettoso, armati di vecchi fucili scalcinati […]. Luoghi strani, la cui solitudine misteriosa mi ha colpito così profondamente! Ritrovo una folla di impressioni perdute e dimenticate. Subiaco, Alatri, Civitella, Genazzano, Isola di Sora, San Germano, Arce. […] il convento di San Benedetto a Subiaco, dove si trova la grotta che accolse San Benedetto, dove fioriscono ancora le rose che lui aveva piantato. Più in alto, sulla stessa montagna, ai bordi di un precipizio in fondo al quale mormora il vecchio Anio [Aniene], il ruscello caro a Orazio e a Virgilio […]. Di fronte, sull’altra riva dell’Anio, una montagna a forma di dorso di balena […]. Al di sotto una caverna, che si può raggiungere solo lasciandosi cadere dalla roccia posta in posizione più elevata, con il rischio di atterrare a pezzi cinquecento piedi più in basso». 

Anche all’uomo dell’Ottocento, così come al camminatore moderno, capitava dunque di evadere dalla città e di immergersi nella natura per cercare quel senso di libertà:

«Libertà di cuore, di mente, di anima di tutto; libertà di non far nulla, persino di non pensare; libertà di dimenticare il tempo, di disprezzare l’ambizione, di ridere della gloria, di non credere più nell’amore; libertà di andare a Nord, a Sud, a Est, a Ovest; di dormire in mezzo ai campi, di vivere di poco, di vagare senza scopo, di sognare, di restare sdraiato per giorni interi, assopito al soffio del tiepido scirocco! Libertà vera, assoluta, immensa! O grande e forte Italia! Italia selvaggia!»

Ovviamente, da musicista sensibile e raffinato, Berlioz non poteva che trarre ispirazione per le sue musiche e, quando possibile, rubare qualche idea melodica sentita tra le genti. Crispino ad esempio, un mezzo brigante suo compagno di avventure in montagna, soleva salutare il compositore con una frase di benvenuto cantata a squarciagola e che Berlioz avrebbe riportato in seguito come serenata nell’ultimo Atto della sua opera Benvenuto Cellini.

Oltre a Subiaco, che considerava un po’ la capitale della zona, Berlioz era solito frequentare anche i villaggi circostanti:

«Il più interessante di tutti, Civitella, un vero nido d’aquila, posato sulla punta di una roccia quasi inaccessibile, è un posto miserabile e puzzolente. La vista magnifica di cui si gode è la sola ricompensa alla fatica di una simile scalata. La strana conformazione delle rocce, nel loro fantastico ammasso, affascina gli occhi degli artisti». 

I paesi di Vicovaro, Olevano, Arsoli, Genazzano appaiono più o meno tutti dello stesso aspetto, con case grigie tutte attaccate, sentieri che sono dei gradini informi appena abbozzati nella roccia. La gente è abituata a vedere lo straniero come un artista abbiente: «Ovunque si incontravano dei poveri bambini seminudi che inseguivano gli stranieri gridando: Pittore! Pittore! Inglese! Mezzo baiocco! (Per loro, ogni straniero che viene a visitare il luogo è pittore oppure Inglese)».

A forza di frequentare questi posti, Berlioz imparerà ad amare le genti del posto, apprezzando oltretutto l’avvenenza delle donne locali:

«Crispino conosceva tutte le ragazze ben pettinate, in un raggio di dieci leghe; conosceva le loro inclinazioni, le loro relazioni, le loro ambizioni, le loro passioni, quelle dei loro genitori e dei loro amanti; teneva un conto esatto dei gradi di virtù e della temperatura di ognuna, e quel termometro a volte era molto divertente da consultare».

Anche ai camminatori dell’Ottocento (e probabilmente molto più dei camminatori moderni, vestiti di tutto punto con abbigliamento tecnico) capitava non di rado di giungere alla mèta sfiniti e pieni di dolori causati dal lungo calpestio. Così poteva capitare che, giunti a S. Germano a Isola di Sora, un villaggio situato sul confine settentrionale del Regno di Napoli e notevole per un piccolo fiume che forma una bella cascata, i nostri eroi arrivassero con i piedi sanguinanti, […] accaldati, impolverati, esausti e resi furiosi dalla sete.

Nel suo peregrinare, Berlioz non mancò di visitare il convento di Montecassino, ma anche la città di Veroli (un grande villaggio che, da lontano, ha l’aria di una città e copre la sommità di una montagna) e Alatri, un altro masso abitato, più aspro e più selvaggio. Non doveva poi essere facile orientarsi tra i villaggi di quelle aspre montagne, il più delle volte privi di sentieri e senza attrezzature per orientarsi:

«Non c’erano sentieri segnati, seguivamo il letto dei torrenti, scavalcando con grande sforzo le rocce di cui erano ingombri. […] Più volte ci siamo persi in quel labirinto di rocce; bisognava allora inerpicarsi di nuovo su per la collina da cui eravamo scesi o gridare a qualche contadino, dal fondo di una gola: “Ohé!!! La strada d’Anticoli?”».

Arcinazzo Romano (da lui chiamato Arcinasso) appariva al francese come un grazioso villaggio, che si riduce a un’osteria, situata in mezzo a quelle steppe vaste e silenziose.

Tra le mille avventure di caccia con il fucile e la chitarra a tracolla, di frequentazioni di pastori e briganti e di conquiste di belle ragazze locali, uno dei luoghi visitati da Berlioz e descritto verso la fine dei suoi diari italiani è Isola Farnese: «Pare che sia il nome moderno dell’antica Veio, la capitale dei fieri nemici di Roma, i Volsci!».

Il periodo della borsa di studio a Roma, che doveva svolgersi in raffinati ambienti colti, si svolse dunque prevalentemente per monti e campagne, lasciando a Berlioz ricordi indelebili e molta tristezza:

«… Faccio un ultimo viaggio a Tivoli, ad Albano e a Palestrina; vendo il mio fucile, rompo la mia chitarra [ben prima di Hendrix…!]; scrivo su qualche album; offro un abbondante punch di addio agli amici; […] ho un istante di profonda tristezza al pensiero che, forse, lascio questa poetica contrada per non rivederla mai più. Gli amici mi accompagnano al Ponte Molle; salgo su di un’orribile carretta ed eccomi partito.

L’addio all’Italia aveva qualche cosa di solenne e irrevocabile e, pur senza riuscire a rendermi ben conto dei miei sentimenti, sentivo che mi lasciava l’animo oppresso».

 Le ultime tappe italiane del nostro protagonista saranno le grandi città che incontrerà nel suo viaggio di ritorno verso la Francia: Firenze, Milano e Torino.

A noi è rimasto l’appassionato ricordo di un uomo che amò profondamente l’Italia rurale, quella più selvaggia, quella più autentica e che passò momenti di vera libertà tra le nostre amate montagne!


 

 

Consigli per l’ascolto: 

Symphonie fantastique: Épisode de la vie d’un artiste, en cinq parties. Sinfonia a programma in 5 movimenti, considerato il capolavoro assoluto di Berlioz, esempio magistrale di orchestrazione e di inventiva melodica, armonica e timbrica.

Aroldo in Italia (Harold en Italie). Sinfonia a programma in 4 parti con viola solista, scritta sotto invito del celebre virtuoso violinista Niccolò Paganini

Benvenuto Cellini. Opera semiseria sulla vita dell’omonimo artista italiano del Cinquecento