1874-2024: centocinquant’anni di Impressionismo

Parigi, 1874: l’arte cambia e non sarà più come prima. 

Ebbene sì, siamo giunti all’anniversario della corrente artistica più apprezzata dagli osservatori per via delle scene allegre, vitali, rappresentate sulle tele: l’Impressionismo.                                                                                 

La Francia era appena uscita da un lungo conflitto con la Prussia e in questo contesto di crisi gli artisti ripensano a un nuovo modo di fare arte e a nuovi soggetti, tratti della vita moderna, o dalla natura come paesaggi dai colori chiari e dal tocco vibrante, il tutto abbozzato all’aperto. Gli artisti che dipingevano all’aperto e senza uso di un disegno preparatorio avevano preso a modello lo stile romantico di Delacroix, l’autore de “La zattera della Medusa”, il verismo di Courbet (”Gli spaccapietre”, o “Il funerale di Ornans”) e i paesaggi dei pittori della scuola di Barbizon, per i quali l’ambientazione naturale diventa il luogo giusto, umile, dove collocare personaggi semplici. Altre due caratteristiche importanti per la nascita della corrente sono la forte contrapposizione con la pittura accademica ufficiale e le teorie scientifiche sul complementarismo del colore, elaborate dal chimico di M-Eugene Chevreul.

JEAN LOUIS THÉODORE GÉRICAULT-La zattera della Medusa (Le Radeau de la Méduse) – Museo del Louvre, 1818-19

JEAN DESIRE’ GUSTAVE COURBET- a sn Funerale a Ornans (Un enterrement à Ornans) – a ds Gli spaccapietre (Les Casseurs de pierres) Museo del Louvre, 1818-19

Scuola di Barbizon – JEAN- FRANCOIS MILLET-Le Spigolatrici (Des glaneuses) – Musée d’Orsay, 1857

Acquisiti questi elementi, i nostri pittori portano sulla tela l’impressione che gli effetti di luce, producono sugli oggetti o sulle persone; negando la vita o la produzione dell’atelier ed ecco perché vince a tutti gli effetti la pittura en plein-air (all’aria aperta). Il risultato finale è una fusione fra natura e oggetto, senza linea di confine o di contorno.

I protagonisti di questa nuova avventura artistica sono E. Monet, E.Manet, J.-F. Bazille, A.Sisley, C. Pissarro, A.Renoir, E.Degas (anche se lui è l’unico a ritrarre i suoi soggetti negli ambienti chiusi), B. Morisot, M.Cassatt e altri.

Il giorno del battesimo è il 14 Aprile, quando alcuni artisti dopo esser stati rifiutati con le loro opere dalla giuria del Salon des Refusés del 1873, hanno deciso di presentare al mondo i loro dipinti nello studio prestigioso del fotografo Nadar sul Boulevard des Capucines e ad allestire la mostra è stata la pittrice e cognata di Manet: Berthe Morisot. All’evento sono state messe in mostra 175 opere di 30 pittori e tutt’oggi conserviamo il primo catalogo della mostra per eccellenza dell’Impressionismo. Il nome del gruppo viene dato dal critico Louis Leroy, giornalista della rivista Le Charivari, dopo aver visto il dipinto di Monet “Impression soleil levant”. Tuttavia, la stampa non è stata nell’immediato totalmente negativa nei confronti dell’esposizione, come potrebbe suggerire l’esempio di Leroy, bensì fu dalla seconda mostra che gli impressionisti ricevettero le critiche più forti, tanto che alcuni pittori avevano deciso di non partecipare più alle future esposizioni, anche a causa delle pressioni politiche francesi di fine Ottocento, alle difficoltà finanziarie in cui erano caduti gli stessi pittori e al disinteresse della borghesia di comprare le loro opere, ritenute brutte e poco affini al gusto dell’epoca, che era ancora vicino all’Accademia.          
Renoir e Sisley non avevano partecipato alla terza mostra del 1879, Monet aveva disertato la quarta del 1880 e alla quinta dell’anno seguente che venne evitata anche da Renoir e Sisley. In tutto sono state otto le mostre successive organizzate dagli artisti, che come si è visto non hanno avuto successo. L’ultima del 1886 mette in evidenza l’abbandono dell’importanza delle mostre collegiali a cui partecipare, per continuare ognuno a dipingere con il proprio stile impressionista. Lo stesso anno diventa anche l’anno della fortuna critica della corrente impressionista grazie alla pittrice americana Mary Cassat, che fa conoscere negli USA i suoi colleghi e amici francesi ed è da quel momento che a Boston si tiene la mostra sui pittori impressionisti e poi a New York, dove James Sutton, direttore dell’American Art Association invita Durand-Ruel, critico e protettore degli impressionisti, a realizzare una mostra su di loro. Questa aveva portato un tale successo fra il pubblico e la stampa ne aveva acclamato la fama sia dei pittori che dello stile artistico, che porterà lo stesso ad aprire una galleria d’arte nel 1887 a New York; questo spiega perché molte opere impressioniste si trovino nei musei americani. In Francia il tempio della cultura impressionista diventerà alla fine degli anni Ottanta del Novecento il Museo d’Orsey.

CLAUDE MONET- Impressione, levar del sole (Impression, soleil levant)- al Musée Marmottan Monet, 1872

La corrente impressionista può essere considerata come una fenice, muore e rinasce dalle sue ceneri, anche perché lo stile non muore con i pittori o perché sono venuti nuovi stili artistici come le Avanguardie di inizio Novecento, ma continua con nuovi pittori (anche contemporanei come Jeremy Mann ed Eduard Gordeev) e i dipinti in sé e per sé produrranno dentro i visitatori le emozioni e le gioie di chi ha realizzato le opere e dei soggetti ritratti (anche di chi non sapeva di essere ritratto). 

I pittori impressionisti sono stati i primi a utilizzare i tubetti dei colori in metallo morbido, inventati dal ritrattista americano John Rand nel 1841 proprio per sostituire ridurre il tempo di preparazione colori (prima il pigmento veniva ridotto in polvere con un mortaio e al momento dell’utilizzo si mescolava con l’olio, come legante e conservato nelle vesciche del maiale). Pertanto il tubetto ha reso più agile il trasporto consentendo a quei pittori che volevano ritrarre all’aria aperta per tutto il tempo necessario per completare l’opera.  





DA PARIGI A POISSY – Ville Savoye, Le Corbusier

Percorso in treno Parigi – Poissy, liberamente illustrato © Raffaella Matocci

« La vue est très belle, l’herbe est une belle chose, la forêt aussi : on y touchera le moins possible.
La maison se posera sur l’herbe comme un objet, sans rien déranger ». L.C.

«Bello il panorama, bella l’erba, bello anche il bosco; li toccheremo il meno possibile.
La casa si poserà sull’erba come un oggetto, senza disturbare nulla». L. C.

Queste sono le parole di Le Corbusier quando Pierre, ricco assicuratore francese, ed Eugéne Savoye commissionano nel 1928, a lui e al cugino Pierre Jeanneret, la casa di vacanza da costruire sul loro vasto terreno di sette ettari, situato sulla collina di Beau Regard, lungo la riva sinistra della Senna a Poissy.

Piccola e antica città della Francia, Poissy dista circa 30km da Parigi, a cui è collegata dalla stazione ferroviaria che serve i dintorni della Capitale, la Grande Ceinture. Fino al XIII sec fu una delle residenze dei Re di Francia e ad oggi conserva la collegiata di Notre-Dame, restaurata a partire dal 1844 dall’architetto Eugène Viollet-le-Duc.

Le Corbusier ha 41 anni e la commessa della famiglia Savoye è l’occasione per dimostrare e mettere in pratica i princìpi che sono racchiusi nel testo fondante del Movimento Moderno, la raccolta di saggi “Vers une architecture” (1923) in cui molte delle sue teorie architettoniche, racchiuse nei cinque punti, diventeranno il linguaggio di riferimento sin dalle sue prime espressioni.

“Les cinq points d’une nouvelle architecture”: Pilotis (pilastri in c.a.), plan libre (pianta libera), façade libre (facciata liberata dalla funzione strutturale), toit terrasse (tetto piano a terrazza), fenêtre en longueur (finestre orizzontali a nastro)

ph. © Raffaella Matocci

Ne “Il linguaggio moderno dell’Architettura” (1973) Zevi, in chiave provocatoria, così come gli si addiceva, pone l’esigenza di strutturare in lingua le teorie dell’architettura moderna così da non farla regredire una volta esaurito il ciclo dell’avanguardia; l’obiettivo è quello di fissare sette invariant dell’architettura moderna sulla base dei testi più significativi e paradigmatici.

Nella sesta invariant Zevi affronta il tema della “Temporalità dello Spazio” dove lo spazio continuo è uno spazio da vivere, sperimentato dallo spettatore attraverso la passeggiata architettornica e la concezione che lo spazio venga compreso pienamente solo quando lo si attraversa; il movimento nello spazio è accompagnato dal movimento del tempo espresso dal passaggio del sole, dai giochi di luce negli spazi interni ed esterni che cambiano nell’arco di una giornata e durante tutte le stagioni.

Gli esempi appropriati citati sono la Villa Savoye di Le Corbusier (1928-31) e il Guggenheim Museum di New York di Frank Lloyd Wright (1943-59)

È risaputo che Bruno Zevi fosse un sostenitore di Wright e non fosse un estimatore di Le Corbusier, tanto che lo stesso racconta un aneddoto che vede Corbu andare verso di lui e dire: “You’re Zevi. They all say you’re against me. But I know it’s not true” […]

Aveva ragione.

Villa Savoye è un unicum; il suo razionalismo vibra di poesia”…Bruno Zevi

Video Diatomea.net – realizzato con le immagini di © Raffaella Matocci

P.S. Per aggiungere una curiosità, secondo Zevi le sette invariant dell’architettura moderna sono reperibili contemporaneamente in alcune opere di Wright: in grado massimo nella Fallingwater (Casa sulla Cascata).

INFORMAZIONI UTILI

Telefono: +33 (0)1 39 65 01 06
Indirizzo: Ville Savoye à Poissy, 82 Rue de Villiers, 78300 Poissy, Francia
Come arrivare in RER:  linea A, fermata Poissy (zona 5 Paris visite)
Accessibilità: Rampa d’accesso per persone con mobilità ridotta con accompagnatore
Costo del biglietto: Adulti 7.50€ Ridotto 6.00€ Under 18 (Eccetto scolaresche e gruppi parascolastici) gratuito
Sito ufficiale: https://www.villa-savoye.fr/


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Il “68”. Zevi, Portoghesi e Rossi_ 3a Puntata

(Liberamente tratto dal libro di Giorgio Mirabelli La coerenza delle contraddizioni. Architetture 1984-2009″ , a cura di Cesare De Sessa – Edizioni Kappa)

Intanto c’è da dire che il Post-moderno non è stato un fenomeno nato improvvisamente senza nessun preavviso.

Già negli anni Sessanta ed ancor di più negli anni Settanta, cominciarono, in tutto il mondo, a manifestarsi quei “segni” precisi ed inconfutabili che annunciavano il declino del Movimento moderno.

Venturi, Moore, Graves e Rudolph negli Stati Uniti, Jencks in Gran Bretagna, Portzamparc in Francia, Hollein in Austria, Holzbauer e Boehm in Germania, solo per citarne alcuni tra i più famosi.

In Italia Ridolfi con le ultime opere, Gardella, Anselmi e Portoghesi con quelle della consapevolezza, ma soprattutto G. Valle (Residenze alla Giudecca a Venezia) e Quaroni (Teatro dell’Opera a Roma) con quelle della maturità, allontanarono decisamente la loro linea di ricerca dal Movimento moderno per aderire a questo nuovo fermento, a questa nuova cultura architettonica, con la speranza di trovare un nuovo equilibrio.

Tutto questo per dire che mi sembrava riduttivo, bollare con l’etichetta della semplice riproposizione e/o della citazione di forme storiche, facendo supporre anche una assenza di contenuti, quello che, a mio modesto parere, era invece il tentativo di riannodare o meglio ripristinare una comunicazione con la storia ed il nostro passato, anche quello recente, che il Movimento moderno aveva volutamente spezzato. Nonostante tutto c’era qualcosa in questo nuovo modo di porsi davanti ai problemi della nostra disciplina, che ancora non aveva saputo conquistarmi definitivamente.

In ogni caso, pur condividendone lo spirito, questo nuovo linguaggio espressivo non riusciva, però, a coinvolgermi emotivamente e le corde delle mie emozioni restavano in attesa di altre sollecitazioni.

Nel citare alcuni dei maggiori architetti italiani che avevano aderito a questa nuova linea oramai riconosciuta come Post-modern, ho tralasciato di menzionare Aldo Rossi, perché, secondo me, è stato in assoluto uno dei più grandi architetti del novecento, non solo italiano, e vorrei qui ricordarlo brevemente.

Il primo architetto italiano a vincere nel 1990 il Premio Pritzker, (Premio Nobel dell’Architettura), eguagliato solo da Renzo Piano nel 1998. Negli anni Ottanta non conoscevo molto bene Rossi e le sue opere, ed anche per questo, forse, nutrivo molte perplessità nei suoi confronti. Devo riconoscere che l’esperienza con Portoghesi prima, e le occasioni di lavoro con Giovanni Rebecchini dopo, contribuirono a smantellare la mia diffidenza dettata solo da un atteggiamento di pregiudizio, più che da una effettiva posizione di attrito verso la sua architettura.

L’invito di una coppia di amici a trascorrere un fine settimana a casa loro a Parma, fu l’occasione del mio primo incontro con le opere di Rossi. Con gli amici ci recammo al Centro Torri, un’opera considerata, da alcuni, tra le meno importanti, ma per me fu un’autentica rivelazione. Una sensazione molto forte di coinvolgimento e di vicinanza a quel modo di fare architettura che ho ritrovato e riprovato in seguito quando, sotto la spinta emotiva di questo primo approccio, ho sentito il bisogno di visitare altre opere in Italia ed all’estero. Il Teatro Carlo Felice a Genova, il Monumento a Pertini a Milano, gli Edifici di abitazione (IBA) e lEdificio residenziale e uffici in Schutzenstrasse a Berlino, le Case per l’area della Villette a Parigi. Opere, come tante altre, che spesso nascondono dietro la loro apparente semplicità, una intensa e creativa progettualità e, quindi, una grande capacità di visioni più complesse.

Aldo Rossi a Parigi ©Lucilla Brignola

Credo che proprio questa coesistenza di semplicità e complessità, che non poteva non emozionare chi come me vive quotidianamente di conflitti e di contraddizioni, sia alla base di quel senso del tragico che le opere di Rossi ci comunicano e che Arduino Cantàfora ha descritto, come meglio non si poteva, nell’introduzione al libro pubblicato due anni dopo la tragica ed improvvisa scomparsa di Aldo Rossi.

“…Non sono piccole o grandi trovate il repertorio della poetica rossiana, proprio niente di tutto questo. Non ci troviamo mai di fronte a suggestioni seducenti per cercare di simulare d’essere altro, ma al contrario sempre all’assunzione del peso di ciò che noi siamo.

Rossi ha sempre fatta propria la terribile verità nella quale la bellezza dell’arte si pone come ultimo baluardo sulla soglia dell’abisso della disperazione. L’architettura di Aldo Rossi è etica, per questo è tragica, ed è da qui che è nato il Teatro del Mondo, come più bello non si poteva immaginare. Ma i “Teatri del Mondo” erano già stati un tempo i teatri della vita, fatti per tentare di legare ancora una volta l’uomo alla natura”.

Non credo si possa aggiungere altro, tranne che ricordare come alcune opere e progetti hanno saputo riportare a galla momenti emozionanti della mia infanzia, come in un sogno ad occhi aperti, quando bambino giocavo con le piccole costruzioni di legno (cilindri, cubi, parallelepipedi, timpani di colore giallo, rosso e blu) regalatemi da mio nonno.

In questo sogno suggestivo pensavo che sarebbe stato semplice e divertente smontare, proprio come facevo da bambino, pezzo per pezzo, una di quelle architetture rossiane.

Aldo Rossi a Berlino ©Lucilla Brignola

Nessun altro architetto, fino ad oggi, ha saputo trasportarmi nei suoi progetti come ha fatto Aldo Rossi, affascinato dalla apparente semplicità della sua arte e della sua architettura ed intrappolato nella sua complessità di uomo.

Ho molti rimpianti per non averlo conosciuto e penso che sarebbe stato interessante vedere come avrebbe reagito oggi, lui che per certi versi potrebbe essere considerato una archistar ante litteram, all’avvento del cosiddetto star-system, e come avrebbe affrontato il tema della bio-architettura, delle energie rinnovabili e del risparmio energetico, che rappresentano sicuramente uno dei problemi più importanti che abbiamo davanti.

L’esempio di Rossi è stato per me, soprattutto crescita culturale e punto di riferimento nella ricerca, in ogni progetto, di qualsiasi tipo e/o dimensione, di quella qualità architettonica diffusa di cui le nostre città e la nostra vita hanno bisogno, e che secondo me rappresenta l’altro problema più importante del nostro tempo.

Fine della 3a ed ultima Puntata

vai alla 1a PuntataPer ricordare Bruno Zevi, uno dei miei “Maestri
…vai alla 2a Puntata “Il geometra e l’architetto, tra moderno e post-moderno”

 


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