Augusto De Luca fotografa Lina Mangiacapre

Lina Mangiacapre, scomparsa purtroppo nel 2002 a soli 56 anni, era un’artista a tutto tondo: regista, musicista, pittrice, fotografa, scrittrice e poetessa.
Sicuramente un personaggio molto singolare ed eccentrico, ribelle e fantasioso della scena artistica partenopea, continuamente alla ricerca di libertà, che aveva posto il mito al centro della sua ricerca e ideato la ‘psicofavola’ come metodo teatrale e di autocoscienza.
Femminista storica, laureata in filosofia, era una donna intelligente e colta, mai banale, che faceva dell’arte e della creatività forme di lotta politica per l’emancipazione femminile, così come politiche erano le azioni performative che conduceva con uno dei gruppi più importanti del movimento femminista, le Nemesiache, il suo collettivo fondato nel 1970, che, pur avendo un ampio raggio d’azione tra Milano, Roma e Parigi, era fortemente radicato sul territorio napoletano.
Mente geniale e creativa, riteneva il cinema la ‘sintesi di tutte le arti’. A lei dobbiamo, tra l’altro, l’ideazione della Rassegna del Cinema femminista di Sorrento ‘L’altro sguardo’, primo festival del genere in Europa, e l’istituzione del Premio cinematografico ‘Elvira Notari’ alla Mostra del Cinema di Venezia, divenuto, dopo la sua morte, il Premio ‘Lina Mangiacapre’.
Le tante delle sublimi metamorfosi di Lina sono state immortalate nel docufilm ‘Lina Mangiacapre Artista del Femminismo’ di Nadia Pizzuti, che ha curato il soggetto insieme a Tristana Dini, dedicandosi personalmente alla sceneggiatura, realizzato grazie ad una raccolta di crowdfunding e dopo un attento e lungo lavoro di raccolta di materiale di repertorio.
In circa 40 minuti, tra voci fuori campo, testimonianze delle Nemesiache, vignette, disegni e animazione originali e riprese nella casa dell’artista a Posillipo e in altre zone della città, indagando itinerari collegati fra loro e valorizzando la sua verve ironica e giocosa
Presente a tutti gli eventi artistici della città di Napoli, la incontravo spessissimo ovunque e quando qualche volta mancava ad un avvenimento artistico, cosa che accadeva raramente, la sua assenza si notava sicuramente.
Sorridente, con un look molto personale, provocatorio e senza tempo, caratterizzato da quei vivaci vestiti punk rock, dark o mitologici che amava tanto, bombette e cilindri, ciocche di capelli colorate, il suo aspetto androgino da queer ante litteram la rendeva riconoscibilissima.
Altro segno distintivo erano gli stupendi occhiali a farfalla, sempre diversi, che collezionava. Era molto affettuosa con me ed io la stimavo ed apprezzavo per la sua libertà e per il suo coraggio nella diversità. Lina diceva spesso che bisognava riprendere l’arte dell’amore come pratica di rivoluzione.
Un giorno le chiesi di ritrarla e lei ne fu felicissima.
Prendemmo un appuntamento ed andai nella sua casa studio, piena di oggetti particolari, cappelli e occhiali alati. Le chiesi di indossarne qualcuno e iniziai a fotografare.
Però mi attirarono in particolar modo un violino e un manifesto di Pier Paolo Pasolini che lei adorava.
Nel primo scatto misi insieme il profilo di Lina con il ritratto di PPP su cui avevo appoggiato i suoi famosi occhiali, in modo da unire ed intrecciare in qualche modo le loro vite e le loro personalità.
Nella seconda inquadratura, invece, la ritrassi come una guerriera che al posto di un’arma, impugna e brandisce uno strumento musicale.
Quando stampai le due foto, fui molto soddisfatto del risultato perché entrambe le immagini rispecchiavano il mio progetto e il mio intento.
A Lina è stata dedicata una sezione al National Museum of Women in the Arts di Washington e il Comune di Napoli, in ricordo delle sue lotte femministe ed anche del suo amore per la città, ha deciso di dedicarle un belvedere in via Posillipo, nei pressi di Piazza San Luigi.
Siamo tutti diversi ma nessuno più di Lina è stata una persona meravigliosamente unica e irripetibile.

Lina Mangiacapre – foto di Augusto De Luca
Lina Mangiacapre – foto di Augusto De Luca




Diritti al Cuore Onlus e Diatomea.net presentano: percorsi e dialoghi sui femminismi nel XXI secolo

Diritti al Cuore Onlus e Diatomea presentano

Sabato 7 dicembre 2019 alle ore 19:00 in Via Federico Borromeo 75 le associazioni Diatomea.net e Diritti al cuore presentano l’incontro “Percorsi e dialoghi sui femminismi nel XXI secolo”. Ingresso gratuito.

Oggi come non mai è necessario parlare di femminismo. Un termine a volte troppo abusato, schernito, screditato, usato in maniera distorta, circondato da stereotipi e manipolazioni. 

Ma cosa sono i femminismi oggi? Di questo parleremo con Barbara Bonomi Romagnoli e Marina Turi, autrici di “Non voglio scendere! Femminismi a zonzo” e Benedetta Pintus e Beatrice Da Vela, autrici di “Siamo marea. Come orientarsi nella rivoluzione femminista”.

Coordinano Raffaella Matocci di Diatomea.net e Francesca Caprioli di Diritti al Cuore Onlus.

Breve descrizione dei libri

Siamo marea. Come orientarsi nella rivoluzione femminista di Benedetta Pintus, Beatrice Da Vela, Villaggio, Maori 2019.
Un manuale che ripercorre la storia del movimento femminista e che ci guida attraverso la giungla dei vari temi e teorie, per capire meglio come reagire e lottare contro le discriminazioni di ogni giorno e conoscere da vicino il variegato mondo dell’attivismo contemporaneo.

Non Voglio scendere! Femminismi a Zonzo di Barbara Bonomi Romagnoli – Marina Turi, Golena, 2019.
Sei tragitti per andare a scovare femminismi felici e appassionati, (auto)ironici e pungenti, includenti e visionari, capaci di produrre un progetto politico nella cornice del tempo che viviamo, quando tutto sembra bloccato, stereotipato e ripetitivo.

 

 




NON VOGLIO SCENDERE! Femminismi a zonzo

Domenica 10/03/2019, presso la Casa Internazionale delle donne, a Roma, nel corso della Seconda Edizione di Feminism 2 (Fiera dell’Editoria delle Donne) si è tenuta la presentazione di  Non voglio scendere!Femminismi a zonzo, scritto a quattro mani da Barbara Bonomi Romagnoli, apicoltrice, e Marina Turi, informatica.  Entrambe giornaliste freelance e dopo quasi 18 anni di amicizia, condiviso il progetto A/matrix, decidono  di scrivere quello che definiscono un pamphlet , dopo aver ironizzato che l’uomo bianco non definisce libro uno scritto inferiore a 100 pagine; il libro ha  anche il pregio di essere “targato” da Golena Edizioni/Malatempora (www.golenaedizioni.com), casa editrice indipendente che fa della controcultura e della controinformazione il suo fiore all’occhiello.

Sono presenti, in questa giornata, anche Elvira Seminara, giornalista e scrittrice,  che dialoga e apre un dibattito con le autrici e l’editrice Maya Cecchi.

Ci dicono che la prefazione è stata affidata al Collettivo femminista di sex workers e alleat* Ombre Rosse. Un riconoscimento umano ma soprattutto politico importantissimo,  in un momento in cui alcuni femminismi hanno alzato dei muri, chiudendosi, forse, in modelli di autoreferenzialità o zone di comfort.

In tempi come questi che stiamo vivendo leggere Non voglio Scendere! Femminismi a zonzo  è importante perché delle conquiste che
ritenevamo consolidate sono state seriamente messe in discussione.

Così, con gioia, saliamo a bordo di questa metropolitana femminista, intuita grazie all’iconica copertina a cura di Gaia Guarino, che dispiega  “sei tragitti per l’autodeterminazione e la ribellione”, per poter andare e spaziare dove vogliamo, libere anche di fermarci per raccogliere i pensieri  per poi ripartire con curiosità. Questa apparente frammentarietà diviene metafora di mutazione, di movimento, di transizione e di provvisorietà.

http://www.golenaedizioni.com/page.php?192

Ci si sofferma sul tema del linguaggio, sull’urgenza che sia sessuato e non sessista. Di come sia un elemento centrale nella costruzione dell’identità. Ad ogni fermata troviamo un piccolo glossario con vocaboli che invitano alla riflessione. Si viaggia anche attraverso un po’ di storia del femminismo fino ai nostri giorni, attraversando i movimenti che oggi troviamo nelle strade del mondo, il tutto per mezzo di una comunicazione  scrupolosa ma attenta ad essere compresa anche da quelle persone che non sono strutturate sui concetti del femminismo.

Si parla del femminismo pop, che circola nei social network
o nelle serie televisive, si dice che i femminismi non dovrebbero parlare a
nome di altre donne e si smentiscono tanti luoghi comuni, tanti pregiudizi nei
confronti del femminismo stesso.

Si arriva al concetto di femminismo intersezionale delle differenti identità sociali (sesso, etnia, classe, religione, età), ma soprattutto presa d’atto dell’esistenza altrui. Un femminismo che diventa paradigma per combattere  ogni aspetto della discriminazione e dello stigma. Si parla del diritto ad esistere anche come trans. Tante voci, tante interviste, tante storie ognuna a suo modo unica ed illuminante.

Si parla di sesso, andando oltre “la mistica della
sessualità” . Forse uscirete da alcuni luoghi comuni e ridisegnerete l’idea che
avete dell’immaginario maschile sui corpi delle donne.

Insomma quello che Barbara e Marina ci stanno dicendo è che anche se il sessismo impera, la rivoluzione è a portata di mano. Sta a noi viverla.




Le donne hanno un posto per tutto

Mi sono avvicinata alla lettura di questo volume con prudenza e un po’ di sospetto, lo ammetto. Il tema della maternità è scivoloso e anche un po’ di moda, in un paese in cui si chiede alla maggioranza delle donne di essere buone madri e buone mogli e dove le aspettative sociali rispondono a modelli precostituiti che riducono la scelta [o l’impossibilità] di non riprodurre la specie a velleitari egoismi o commiserevoli imperfezioni. Con in sottofondo il solito paradossale leitmotiv: da una parte la santa mamma italiana che tutto vede e provvede, dall’altro politiche che negano diritti e possibilità alle eventuali future madri.

Da questa premessa e per di più essendo una ‘senza figli’, la lettura di Madri comunque di Serena Marchi si è rivelata invece una piacevolissima sorpresa, per lo stile asciutto mai enfatico, perché la carrellata di ritratti è davvero rappresentativa delle differenze e perché, come afferma Pedro Almódovar in epigrafe: “le donne sanno nascondere un cadavere e affettare i peperoni: hanno un posto per tutto”.

Hai scritto un libro senza filtro, parlano le protagoniste, almeno così sembra a chi legge. Mi racconti meglio come hai raccolto queste storie?

«Le storie le ho raccolte in 4 anni, partendo prima da quelle più “facili” da trovare come la mamma adottiva e la mamma di figli in affido per poi andare, via via, a cercare le maternità meno comuni, quelle più in ombra, quelle che la società lascia in disparte perché sono scomode. Vedi la mamma lesbica, la figlicida (sono entrata nel carcere giudiziario di Castiglione delle Stiviere, dopo un anno di attesa del permesso) ma ancora di più la donna che affitta l’utero e la coppia che ricorre alla surrogazione. Per questo, ho preso il volo e sono andata a Kiev, lo scorso ottobre, dove son rimasta tre giorni e ho parlato sia con la portatrice sia con la coppia. La scelta della prima persona è per dare voce al massimo solo alla protagonista. E questo crea più intimità tra chi racconta e chi legge».

In che modo hai condotto le interviste? Hai mai pensato ad aggiungere un commento, a entrare nelle altre storie e dire la tua?

«Il novanta per cento delle mie interviste è stata fatta di persona. Ho incontrato di persona tutte le protagoniste e ho iniziato con il farmi raccontare chi sono, la loro vita, le loro storie e poi la loro maternità. Sempre una lunga chiacchierata dove le domande mi venivano via via che si parlava. No, non mi è mai venuto in mente di entrare nelle storie e di dire la mia. Ho scritto questo libro per cercare il più possibile di far capire al lettore che le scelte non vanno giudicate, sia di maternità sia di non maternità. Entrare e commentare sarebbe stato tradire l’intento del mio libro. Credo che nessuno possa mai giudicare le scelte di una persona, figuriamoci se io mi sarei permessa. Non condivido e non sono d’accordo con tutte le mie protagoniste, ma credo sia giusto che abbiano voce. Mia è solo l’introduzione. Poi presto la mia penna e lascio la parole alle trenta storie».

Madri comunque”, anche chi per chi non è madre: non pensi che questo non faccia che rinforzare stereotipi e modelli che vogliono le donne sempre e solo come madri? Non si può essere donne e basta?

«No, al contrario, credo che serva per far capire ai benpensanti, a chi ragiona per stereotipi, a chi sa sempre ciò che è giusto e ciò che non lo è, che una donna non deve essere per forza madre. La negazione della maternità non deve essere tabù. Prima che madri, siamo donne, persone, tanto quanto gli uomini. Purtroppo la società questo non lo valuta. Credo che si possa essere donne e basta e non credo che la maternità ti faccia più donna, più completa. Ci sono donne complete anche senza essere madri. Ma questa è solo la mia opinione…»

Sei stata coraggiosa, hai affrontato un tema scomodo da qualunque punto di vista lo si prenda. Quali le critiche maggiori che hai ricevuto?

«Le critiche maggiori mi sono arrivate per la scelta di parlare solo delle madri, solo delle protagoniste, senza aver mai preso in considerazione i figli e le ricadute delle scelte di queste madri sui figli. Ho fatto una scelta ben precisa: dedicarmi solo ed esclusivamente alle donne. Dei figli, in questo libro, non mi importa. Viviamo in una società ‘figliocentrica’, in cui tutto ruota principalmente attorno ai figli. Sui figli ci sono milioni di libri, sulle madri pochissimi. Per una volta, volevo che il focus, la luce, l’attenzione fosse solo loro».

già pubblicato su LM – Letterate Magazine


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