Un passo alla volta per riprendersi la vita

Nel caos della vita moderna, le dipendenze possono impadronirsi della vita di qualsiasi persona, senza avvertimento, lasciandola intrappolata in un labirinto oscuro.

Secondo il Rapporto Mondiale sulle Droghe 2023 redatto dall’ONU, c’è stato un aumento del 23% di persone che fanno uso di droghe rispetto a dieci anni fa, mentre ammontano a 500mila le persone decedute per overdose o per cause legate alle sostanze stupefacenti.

Spesso le persone dipendenti vengono stigmatizzate e allontanate dai meccanismi sociali, per vergogna oppure per ignoranza, in un momento in cui dovrebbero essere supportate dagli esperti e dai loro cari.

Proprio in questo discorso si inserisce “Un passo alla volta. La vita oltre le dipendenze” (Giunti 2023), il libro di Vincenzo Aliotta, ideatore e fondatore del Centro Recupero Dipendenze San Nicola, curato dalla giornalista Barbara Bonomi Romagnoli.

Il volume ha un taglio corale perché, oltre a raccontare l’esperienza di Vincenzo Aliotta e del team multidisciplinare che gravita attorno al Centro San Nicola, riporta le testimonianze di persone che sono state dipendenti e che ora hanno ritrovato la propria bussola.

Quello che Vincenzo Aliotta chiama il “mal di denti dell’anima”, ossia la dipendenza patologica da sostanza (alcol e droghe) o comportamentale (ludopatia, dipendenza affettiva/sessuale), è trasversale e può affliggere anche persone insospettabili.

La persona dipendente manca del principio di realtà – sostiene Aliotta – è come un pendolo impazzito che oscilla fra il senso di colpa per ciò che ha fatto e il senso di euforia perché pensa di non farlo più. Non riuscendo più a stare nel qui e ora, il passato la conduce alla depressione e il futuro le dà una finta sicurezza.

Ma un passo alla volta si può uscire dalle dipendenze, proprio come enunciano i dodici capitoli del libro che ripercorrono i principi guida del Metodo dei 12 Passi, ripreso dagli Alcolisti Anonimi, a cui si ispira l’approccio terapeutico del Centro San Nicola. Qui grazie al percorso di breve residenzialità, nell’arco di due mesi si può riprendere in mano la propria vita, con un programma terapeutico personalizzato che si svolge in una struttura immersa nelle colline marchigiane; seguito da dieci mesi successivi di follow-up che prevede anche la messa in rete con i gruppi di mutuo aiuto nei territori in cui si vive.

La dipendenza, spiega Aliotta, non è semplicemente un problema per la singola persona, ma coinvolge anche la famiglia e gli affetti. La partecipazione attiva alla terapia di gruppo aiuta anche i membri della famiglia ad aumentare la consapevolezza dei modi in cui la dipendenza li ha influenzati e di come affrontarla, con l’obiettivo di recuperare e rafforzare i rapporti interpersonali.

Aliotta ha sempre adottato un approccio inclusivo, riconoscendo che le dipendenze possono manifestarsi in molte forme diverse, nel volume sceglie di condividere con lettrici e lettori storie di persone che hanno trovato la forza di combattere le proprie fragilità. Come nel caso di Morena, prima paziente del Centro San Nicola che fin da giovane inizia a bere alcolici in una cittadina di provincia. Prima con gli amici e poi da sola, sempre di più. Perfino una volta diventata mamma non riesce a smettere di bere perché, come sostiene in un passaggio del libro, “la mia vita mi piaceva e avevo l’illusione di gestirla, con una mano dai il biberon al bambino e con l’altra mandi giù in pochi sorsi un bicchiere di rosso, magari a stomaco vuoto per cui poi dài di stomaco e ricominci”.

È dunque un messaggio potente quello che arriva dal testo di Aliotta ma anche un messaggio di fiducia: è possibile trovare il proprio passo per uscire dalle dipendenze o aiutare altre persone a farlo. Per questo è stato scritto in chiave divulgativa, per renderlo accessibile a tutti, anche a chi lavora in questo ambito e vuole approfondire con il racconto di una esperienza unica in Italia.

 

 

 

Vincenzo



Laura Conti: ma chi ha detto che non c’è?

Ha passato la notte a scrivere Laura Conti. Ha quasi 100 anni e dunque è comprensibile che «tutte le 206 ossa in corpo e le relative 68 articolazioni» le facciano male. «Un’affascinante signora dai capelli bianchi, piena di acciacchi ma sempre una bastian contraria: divisa, nei confronti della cultura ambientalista di questi ultimi anni, fra la collera e la stupefazione».

Siamo all’inizio di «Laura non c’è» ovvero «dialoghi possibili con Laura Conti» inventati con maestria da Barbara Bonomi Romagnoli e Marina Turi. Non c’è più Laura Conti perché è morta il 25 maggio 1993 ma «non c’è» anche perché di lei quasi nulla si parla. Possibile? Purtroppo sì. Il suo pensiero e l’agire politico, i tanti libri sono quasi assenti «nei grandi discorsi ambientalisti ed ecologisti della sinistra italiana negli ultimi 30 anni». Se si fosse chiamata Giorgio «sarebbero tutti a onorarla». È tornata invisibile, «una condizione tipica per molte donne».

Eppure… ma chi ha detto che non c’è? «Laura è qui, a disposizione di chi avesse voglia di conoscerla attraverso i suoi tanti testi» scrivono le autrici. E c’è ancora Laura, grazie agli incontri immaginari con donne e ragazze di oggi in questo libro vivace, persino divertente in qualche passaggio. Costruire una storia del genere era difficile, al confine fra presunzione e incomprensibilità: non bastava avere tutte le citazioni giuste sottomano, occorreva ricostruire una credibile Laura centenaria in un verosimile contesto. Lode alle due autrici ché ci sono riuscite, inventando 7 donne e gatta di contorno. Luba è quasi una comprimaria: un’insolita badante che dalla biblioteca di Leopoli finisce nel “manicomio” di Laura passando per umiliazioni e disavventure. Invece Enza lavora in ospedale e pur essendo un’amica di vecchia data per Laura ancora si scandalizza per le sue “irriverenze”. Poi ci sono le giovani donne e una ragazzina che dialogano con quella “vecchia e strana signora”: la ricercatrice Emma, Rita (contadina alternativa), la diciassettenne Anna che vuole salvare il mondo al più presto e la giornalista Ilaria.

All’interno delle micro-storie incontreremo Seveso e l’aborto, Rachel Carson, la biologia e l’ambientalismo scientifico, i libri di Laura Conti (soprattutto «Questo pianeta» e «Una lepre con la faccia da bambina»), la Resistenza e il Pci, la scuola e la fabbrica, i danni sconosciuti dell’agricoltura, «il senso del futuro», le tre leggi dell’ecologia (più una: in natura «non si distribuiscono pasti gratuiti»)…

Nell’ultimo capitolo si esce dalla fiction – pur così realistica – e le due autrici ricordano «come le donne sono capaci di spiegare il mondo, soprattutto quando non è loro richiesto…». E ci gettano nell’oggi dove «un virus ha sfruttato l’organizzazione sociale, economica e politica del capitalismo per sconvolgere il pianeta» rendendo «ancora più evidente che siamo in bilico fra una catastrofe ecologica o l’inizio di un mondo diverso». Poi le utilissime note, condite con un bel pizzico di ironia.

Citazione finale per un documento che Laura Conti scrisse (con altre/i) poco prima di morire: «Abbiamo avuto una pratica politica che non ha saputo o spesso non ha voluto aggredire i meccanismi forti del modello dio sviluppo capitalistico che sono alla base del degrado ambientale». Il risultato è sotto gli occhi.

Barbara Bonomi Romagnoli, Marina Turi.

«Laura non c’è – Dialoghi possibili con Laura Conti»

Fandango Libri

128 pagine, 12 euri

 





I segreti di cui abbiamo bisogno

Arrivi alla fine del romanzo, e la domanda sorge spontanea: perché abbiamo bisogno di segreti? Elvira Seminara, giornalista e scrittrice, autrice del divertente e vivace I segreti del giovedì sera [Einaudi, 2020], è sorpresa e ride: “Non mi è stata mai posta questa domanda, non ci avevo mai pensato in questi termini. Ne abbiamo bisogno perché tutto è troppo manifesto, esibito, senza la possibilità di avere qualcosa di preservabile dall’esibizione. Ne abbiamo sempre meno di segreti e invece cerchiamoli, anche con noi stessi. I segreti abitano uno spazio ambivalente e misterioso, il più raro che esista perché apre allo spazio necessario del dubbio”. E della penombra, che forse tutte noi fondo in fondo reclamiamo, per riprendere fiato e ridere di gusto ogni volta che si può. Soprattutto quando si arriva ad un certa età di mezzo, fra i 50 e i 60, un po’ depresse e un po’ disincantate, eppure vive. E con la voglia di vivere, nonostante tutto. Per questo un gruppo di amiche e amici si incontra, insieme o anche solo a due a due, come racconta la voce narrante Elvis, alter ego dell’autrice e trait d’union della compagnia, che funziona come una sostanza reagente rispetto agli altri personaggi, è colei che fa parlare in un intreccio di elementi biografici e di escamotages narrativi fra un capitolo e l’altro. Donne e uomini si ritrovano in un circolo degli affetti, per dibattere di piccole cose del quotidiano e dei massimi sistemi, per condividere anche solo in parte dei segreti, consapevoli di essere su una soglia pericolante: quella dell’età, del tempo che passa, della Sicilia in cui si abita. E ancora la soglia dello sguardo dalla costa, che sorregge quando si ha paura di perdere l’orizzonte e al tempo stesso si ha un senso febbrile per il futuro, perché a voler essere sinceri come uno dei protagonisti “noi adulti proviamo una schifosa invidia per i giovani, un’ambigua e languorosa invidia, ma per accettarla la convertiamo prima in autoindulgenza e poi in un sentire più nobile e sociocompatibile, chiamato trasmissione di saperi”. Su questo non ha dubbi Seminara: “l’invidia esiste anche se ipocritamente diciamo di no, per questo Elvis, che sono io, dice quello che nella vita reale ci nascondiamo. Non amo la retorica o il rimpianto per il passato, e non nego questa forma di gelosia per chi è più giovane di noi, che non significa regredire ma voler restare giovani nel tempo”. Per questo tutte le voci che si rincorrono nel testo in un flusso veloce di parole, rapido come il modo di parlare dell’autrice, tengono insieme il peso specifico dell’età adulta e l’ironia e la leggerezza di chi conosce, abbastanza bene, i propri limiti e sa quanto possono pesare dolori e delusioni, lutti e separazioni. Sanno che non è possibile salvarsi da soli, che abbiamo bisogno delle relazioni, anche quelle incerte o casuali del sorriso che ti rivolge il panettiere perché non possiamo non rifletterci nello sguardo delle altre e degli altri, ed è sano pensarlo, soprattutto nel tempo pandemico in cui indossiamo la mascherina per entrambi, per me e per te, per tutti noi.

E per la città che, pagina dopo pagina, vorremmo raggiungere in un balzo, quella Catania descritta nella sua ambivalenza e nei suoi colori, nei sensi che stimola soprattutto a novembre, quando “nei trenta giorni di cui dispone, è capace di ondeggiare a caso dai dodici ai trenta gradi, e può capitare che domenica fai una nuotata e lunedì un salto sulla prima neve dell’Etna”. Pur non sentendosi ‘siciliana’ in senso classico, Seminara in questo romanzo narra le siciliane e i siciliani a tutto tondo, li conosce e  vuole loro bene, al punto da pensare che “quando un giorno improvvisamente provi nostalgia dei tuoi amici, anche se sono davanti a te, se li vedi ridere e provi tenerezza, poi gelosia e colpevolezza, e poi apprensione come se fossero in pericolo, in pericolo di felicità, lontani e intimi come mai, vuol dire solo una cosa, che quella storia sta finendo. E io devo prepararmi, allestire un congedo che non sia una fine”. E infatti non c’è una fine in questo romanzo, ma solo un ciuffo di capelli che spunta da un basco, quasi a voler dare aria al prossimo segreto.

Questo articolo esce in contemporanea con La bottega del Barbieri (http://www.labottegadelbarbieri.org)





Rossana Rossanda e il giornalismo militante

20 settembre 2020

(articolo già pubblicato su http://www.barbararomagnoli.info)

In ricordo di Rossana Rossanda, ripubblico qui di seguito un testo contenuto nel volume “Scritture di Frontiera – Tra giornalismo e letteratura” a cura di Clotilde Barbarulli, Liana Borghi e Annarita Taronna, 2007, edito da Università degli Studi di Bari in collaborazione con Sil Società italiana delle letterate.

In questo lavoro ho inteso tracciare gli aspetti più importanti della figura di Rossana Rossanda con un breve accenno a «Il Manifesto», giornale quotidiano di cui lei è stata cofondatrice. Del lavoro di Rossanda ho messo in risalto un aspetto particolare, ossia il suo essere giornalista ‘militante’, dove per giornalismo ‘militante’ o ‘impegnato’ ? che è per definizione una scrittura di frontiera ? si intende l’uso della scrittura come scelta politica e strumento per trasformare il mondo.


Ho evidenziato questo aspetto anche per tentare di ragionare attorno ad un fenomeno che è sempre più presente in Italia nel campo della comunicazione e che veicola lo stereotipo della ‘donna-velina’. Ritengo, infatti, che il cliché della donna-velina non solo veicoli uno specifico sguardo sul corpo femminile, ma sia anche metafora di una maniera di intendere l’informazione, in particolar modo nei media mainstream che preferiscono la spettacolarizzazione della notizia a scapito dell’approfondimento, della ricerca e dell’esercizio della critica da parte di chi svolge questa professione. Mi sembra che il giornalismo praticato da Rossanda possa essere preso come modello ? o almeno come spunto per una critica costruttiva ? in contrapposizione al cliché della donna-velina imperante nell’attuale panorama mediatico e culturale italiano.

Comincio dal principio, chi è Rossana Rossanda. Non è un mito, né vuole esserlo, come lei stessa precisa all’inizio della sua autobiografia, ma credo possiamo tutti concordare nel considerarla una delle più grandi intellettuali e saggiste italiane del XX secolo. Rossanda nasce a Pola, città di frontiera, nel 1924 e la sua famiglia di estrazione medio-borghese venne travolta dalla crisi del ’29. Quindi, si trasferì prima a Venezia e poi a Milano, dove all’università fu allieva del filosofo Antonio Banfi ma, soprattutto, dove la sua vita fu radicalmente cambiata dallo scoppio della seconda guerra mondiale. È la guerra che le fa scoprire la politica fino a quel momento tenuta distante dal suo ambiente familiare che era tuttavia intellettuale, come ricorda Rossanda nella sua autobiografia: poca politica ma molti libri.
A chi le domanda perché, vista la sua origine familiare, è diventata comunista e non antifascista liberale, risponde:
Volevo fare un’altra vita, ma la guerra che cadde come qualcosa di mostruoso e imposto, mi fece pensare che dobbiamo cambiare il meccanismo di funzionamento del mondo. La libertà ha delle condizioni necessarie. Dal ’39 al ’46 avevamo solo la libertà di essere vivi. E neanche quella. La scelta di campo nasce dall’evidenza che troppa gente viene al mondo e non può essere padrona della propria esistenza. Non lo accetto e il comunismo è questo: la possibilità di prendere in mano la propria vita, è intollerabile che ci sia chi non lo possa fare.

Decide così, giovanissima, di partecipare alla Resistenza partigiana e, al termine della seconda guerra mondiale, si iscrive al Partito Comunista Italiano. In breve tempo, viene nominata da Palmiro Togliatti responsabile della politica culturale del Pci e viene eletta nel 1963 alla Camera dei Deputati.
Arriva il 1968, un anno di svolta anche nella biografia lavorativa di Rossanda. La giornalista pubblicò un piccolo saggio intitolato L’anno degli studenti, in cui affermava la sua adesione al movimento della contestazione giovanile che era deflagrata in tutto il mondo. Con un percorso di riflessione condiviso con altri, Rossanda in quegli anni si dichiara anche contraria al socialismo reale dell’Unione Sovietica. Nasce l’idea di una rivista di critica e riflessione e viene così fondato «Il Manifesto», esperienza che fu sia una rivista mensile e un giornale quotidiano, sia un partito. Anche per questo motivo, poco dopo Rossanda fu radiata dal partito, insieme ad altre e altri.
Questi brevi accenni alla sua biografia sono già sufficienti a cogliere la peculiarità del suo sguardo sul mondo e l’influenza che questo ha avuto sul suo lavoro giornalistico. Ma ci dicono anche che per Rossanda la politica è stata l’essenza di una vita e nel suo essere donna non si è mai occupata di questioni specificatamente femminili, tutt’altro. Quando lo ha fatto, ha sempre tenuto presente l’orizzonte complessivo nel quale anche le tematiche più vicine al movimento delle donne si inscrivono. Rossanda non scrive unicamente per se stessa ma per cercare «di capire e di informare su quel che avviene nel mondo attraverso una griglia di interpretazione di sinistra, comunista, libertaria, laica». Come lei stessa afferma: «Poiché nessuno di questi termini è di moda, il mio giornalismo è senz’altro militante». Per giornalismo militante intendo qui riferirmi a chi, come Rossanda, svolge questo mestiere con un approccio che unisce il rigore e il rispetto della tecnica giornalistica (ossia attenersi, pur nella discrezionalità di chi scrive, alla ricerca della verità dei fatti) alla passione civile che utilizza lo strumento giornalistico per modificare/trasformare il mondo e la politica che lo gestisce (che non significa alterare o limitarne l’immagine, ma restituire al lettore la pluralità e la conflittualità che il mondo contiene).
È questo che Rossanda ha fatto in trentacinque anni e più di lavoro, anche considerando come lei stessa dice che
c’è sempre un rapporto tra politica e giornalismo. In generale il giornalista risponde, in modo più o meno mediato, all’idea di società difesa dalla sua testata, che in genere è anche quella di una grande proprietà. Non esiste un giornalismo ‘oggettivo’. Che vorrebbe dire? C’è la selezione delle notizie a monte, a cominciare dalle agenzie, sennò neppure sarebbero discernibili; ma non è innocente. La selezione è retta da un criterio che è poi un giudizio. Secondo me [aggiunge Rossanda] la cosa più onesta è far cosciente il lettore di questa scelta e del punto di vista dal quale si scrive, giudizi e pregiudizi inclusi.

È proprio con questa filosofia che Rossanda (insieme a Luigi Pintor, Lucio Magri, Valentino Parlato, Luciana Castellina e altre e altri) decide di dar vita ad un progetto editoriale indipendente, un giornale che vuole essere «provocatoriamente solo politico, e per politica si intendeva in senso stretto il movimento anzi i grandi movimenti della storia». La novità de «Il Manifesto» è il non essere legato a nessuna proprietà specifica che possa influenzarne la politica editoriale. È gestito da un collettivo di giornalisti e si è costituito in cooperativa, cosicché si trova a non avere una proprietà davvero distinta dalla redazione, con giornalisti che sono editori di se stessi.
«Il Manifesto» è nato come voce comunista fuori dal partito, indubbiamente un’esperienza insolita, e nel corso degli anni, tra le varie cose, si è sempre schierato contro ogni guerra come modello militare di gestione dei conflitti. Il giornale ha scelto, infatti, sempre di parlare anche delle tante guerre dimenticate e lo ha fatto in maniera non embedded, termine entrato di recente nel nostro vocabolario. Con embedded si faceva riferimento agli inviati speciali nella guerra del Golfo, poi è diventato un modo per definire chi svolge questa professione attenendosi a “ciò che si vuole venga detto”. Per dirla con le parole di Rossanda:
Perlopiù il giornalista è embedded al sistema dominante. Il ‘dominio’ non è fatto solo di comandi o quattrini, possibilità o no di essere assunti, ma di molte sottili seduzioni: ci sarà una ragione se questo piace o interessa, se questo attira il lettore e quest’altro no, se il gossip fa pubblico, se si dà fastidio ricordando di continuo i mali e le sofferenze del mondo ecc. La spirale di connivenza tra quel che il giornalismo dà, il pubblico ama ricevere e il sistema dominante è molto stretta. In questi anni è passata la tesi che il liberismo [non il liberalismo] è il meno peggio, che ogni tentativo di mutamento sarà disastroso o sconfitto, che l’equilibrio è garantito solo dal mercato. Ne derivano anche una mercificazione e un ‘consumo’ delle idee.
Qui Rossanda ci dice qualcosa di importante anche sulla scelta dei contenuti che spesso sono una discriminante fondamentale per capire la differenza tra giornalismo militante e giornalismo mainstream.
Infatti, il XX secolo ha visto passaggi storici importanti e su questi si è focalizzato il lavoro di Rossanda. Faccio riferimento al fatto che alle due guerre mondiali è seguito un dopoguerra caratterizzato dalla divisione del mondo in due blocchi, la successiva fine della guerra fredda e la disgregazione dell’ex Unione Sovietica, la globalizzazione neoliberista che ha accelerato molti processi di trasformazione, l’avvento di Internet, la “guerra permanente” entrata con la tv nelle case di tutto il mondo, l’antico controllo politico e religioso sul corpo e l’immagine delle donne che ha assunto nuove forme (la guerra in Afghanistan è stata giustificata anche come liberazione delle donne dal velo talebano), fino ad arrivare all’11 settembre e a quello a cui stiamo assistendo oggi. Tutte queste tematiche, da me solamente accennate, sono state il contenuto privilegiato da Rossana Rossanda per i suoi scritti, articoli e saggi, spesso lungimiranti e in alcuni casi ancora molto attuali ? mi riferisco in particolar modo ad esempio alla raccolta di articoli che è stata pubblicata nel volume Note a margine.
Quindi Rossanda viene da questa storia, ne è stata testimone e l’ha poi raccontata, anche se, come lei stessa più volte ricorda, è diventata giornalista non per scelta professionale: «Avrei fatto dell’altro», dice, «ho fatto la giornalista come forma della politica dopo la radiazione dal Pci, il movimento del 1968, e poi la crisi crescente dei partiti…». Non è un caso che Rossanda abbia preso le distanze dalla professione giornalistica intesa come status symbol e che abbia rifiutato di essere iscritta al’Ordine nazionale dei giornalisti, istituzione italiana che non ha simili in Europa e che tutt’ora continua ad essere una organizzazione prettamente gerarchica e maschilista.
Inoltre, è importante ricordare che in Italia il sistema dei mass media non è di fatto pluralista (anche se nell’ultimo decennio sono notevolmente cresciuti i media indipendenti, via Internet, radio e stampa, spesso di carattere militante, che restano però esperienze di nicchia. Per fare un esempio che faccia capire la situazione, «Il Manifesto», indipendente, vende circa 40mila copie al giorno, mentre il «Corriere della Sera» legato a gruppi di potere specifici vende circa 900mila copie). Il sistema informativo italiano è fortemente dominato da lobby e/o interessi politici ? basti solo dire che il premier Berlusconi da solo controlla tre televisioni.
Rossanda nel suo lavoro ha dunque affrontato tutti questi nodi e complessità a cavallo tra due secoli e la particolare situazione italiana. Nel farlo, ha più volte puntato il dito, come dicevamo poco fa, sul mito del mercato e conseguente «mercificazione e “consumo” delle idee», un consumo di idee che ha, tra l’altro, l’obiettivo di veicolare stereotipi e immagini che riguardano la donna, sostenendo il modello di una donna-corpo come merce al pari di tutte le altre.
Secondo Rossanda,
anche a noi donne viene suggerito che, raggiunti alcuni innegabili diritti [votare, possedere o ereditare, non essere obbligate a sposare il tizio o il caio, potersene andare di casa, insomma una certa parità] conviene restare ‘femminili’, seduttive, moderatamente materne, signore del privato [salvo essere fatte fuori dal consorte], fuori dalle responsabilità del pubblico ed efferate consumatrici. Le donne si lasciano limitare con troppa facilità nelle loro ‘effettive capacità’. Finisce che neanche esse le conoscono più, perché poi uno è quel che fa. Il maschilismo resta imperante anche perché non ci sono più grandi battaglie contro di esso: siamo talmente tante donne nei media che, se davvero volessimo, potremmo imporre e imporci. Né si può dire che quelle fra noi che difendono un’altra immagine di sé rischiano la fucilazione. Resta perciò da vedere se il più delle volte non siamo complici della ‘velinità’ cui ci vogliono ridurre.
Rossanda, dunque, provocatoriamente chiede conto, in un certo senso, della “velinità” che c’è in noi e non è certo semplice dare una risposta. Credo sia interessante, per ragionare attorno a questo interrogativo, accennare brevemente alla storia del termine ‘velina’ in Italia, che è prima di tutto un tipo di carta molto sottile e trasparente.
Nella storia del giornalismo italiano si fa riferimento col termine veline ai dispacci del Ministero della Cultura Popolare, tramite i quali il regime fascista diramava agli organi di stampa e di informazione le notizie da rendere note (o meno) all’opinione pubblica. Ancora oggi, si usa “veline” per indicare i comunicati stampa che normalmente arrivano da governo o enti pubblici e che intendono suggerire al giornalista cosa e come scrivere la notizia. Ma è negli anni Ottanta, con la comparsa in Italia della tv commerciale che spunta la figura della donna-velina. La propone il programma televisivo “Striscia la notizia”, una sorta di telegiornale che vorrebbe unire satira, politica e varietà. Gli autori di “Striscia” decidono che le due ragazze “veline” sono le addette alla consegna delle notizie ai presentatori. Sembra che nell’intento degli ideatori ci fosse la volontà esplicita di richiamarsi in chiave polemica al periodo fascista per rivendicare l’inviolabile diritto alla libertà di stampa e di informazione, anche al di fuori dei canali ufficiali. Paradossalmente, dunque, negli anni Ottanta il corpo della donna-velina verrà usato inizialmente proprio come simbolo di una informazione che si definiva libera e indipendente ? un messaggio che credo però sia andato in un’altra direzione, se non addirittura opposta.
Le veline sono comunque sempre donne giovani e avvenenti che devono con la loro presenza e qualche performance richiamare l’attenzione e l’audience del pubblico. In poco tempo, grazie al successo della trasmissione, il termine “veline” è entrato nel modo di pensare comune e in senso lato viene anche utilizzato in modo spregiativo per indicare le giovani ragazze che vogliono entrare nel mondo dello spettacolo senza necessità di percorsi formativi o una graduale esperienza. La velina è diventata la pretesa di essere famosa senza saper fare nulla. Una sorta di rimedio universale alla disoccupazione. Attorno a questo ragionamento torna utile e anche suggestiva la provocazione di un gruppo femminista romano A/matrix che, riflettendo su questi temi, afferma: “Un mondo diverso è un mondo in cui anche la velina che è penetrata in ognuno di noi, donna e uomo, decide di scioperare. Siamo tutte e tutti veline. La velina è il paradigma della nostra dignità sociale perché nella società mercantile imperante è l’icona della conformità soggettiva ed esistenziale. La velina è il mordi e fuggi, l’usa e getta, il produci e consuma. Se l’immagine quotidiana venisse privata del nostro contributo, se le veline interrompessero i luccicanti sogni che i loro corpi e sorrisi promettono, se la velina si considerasse soggetto desiderante, saremmo già in un altro mondo”.
Credo che in questa imperante mercificazione del corpo femminile sia sempre più attuale il dibattito, iniziato con il femminismo degli anni Settanta e non ancora concluso, sul conflitto/confronto tra libertà-mercato-autodeterminazione della donna. Con l’evidente vittoria della mera emancipazione sulla liberazione e consapevolezza della donna.
Quindi, nonostante sia chiaro a quale stereotipo di donna rimanda il cliché della donna-velina, i media fomentano questo senso comune ed alimentano la “velinità” di cui parla Rossanda. Non c’è dubbio che sia maggiormente l’informazione mainstream rispetto a quella di carattere militante a scegliere una immagine di donna, e non solo, che preferisce l’apparire all’essere e che soprattutto, volendo utilizzare i termini di un vecchio dibattito femminista ancora aperto, attraverso il consolidamento di certi stereotipi, i media mainstream facilitano il lavoro di chi vuole il controllo sui corpi e sulle menti delle persone, in particolare sulle donne.
Appare invece evidente, rileggendone la vita e gli scritti, che Rossanda non si è mai piegata al modello del mondo maschile, lo ha certamente frequentato e ne ha preso parte attivamente, ma sempre nell’ottica di una modifica e di un miglioramento della società per tutte e tutti. Da un lato, quindi, abbiamo un modello di giornalista impegnata che non ha mai esitato a prendere parola sulle questioni del mondo e non ha mai perso la sua autonomia, dall’altro la donna-velina che pensa, mostrando il corpo, di essere libera e indipendente e che invece diventa simbolo di una informazione preconfezionata e funzionale ad un certo sistema. La questione è complessa e non certamente riducibile soltanto alle dinamiche interne alla società della informazione e comunicazione che, come ben sappiamo, riflette tutti gli aspetti di una società. Da tutto quello detto fin qui, la velina appare quanto più lontano possa essere dalla immagine di donna-giornalista che potrebbe invece rappresentare Rossanda la quale, tra l’altro, non può essere certamente classificata come femminista in senso stretto.
Non abbiamo in questa sede il tempo per approfondire il complesso rapporto avuto da Rossanda con il femminismo, ma con esso Rossanda ha intessuto negli anni un dialogo critico e fecondo, come lei stessa ricorda anche nella introduzione al volume Le altre, dove racconta l’esperienza radiofonica a fine anni Settanta, quando in una serie di conversazioni a Radiotre la giornalista si confrontò su alcune grandi parole-valori della politica (libertà, fraternità, eguaglianza, democrazia, resistenza, solo per citarne alcune) con donne che invece vissero in prima persona l’esperienza del femminismo degli anni Settanta (tra queste Lidia Campagnano, Letizia Paolozzi, Manuela Fraire).
In conclusione, vorrei ricordare proprio uno dei dubbi sollevati da Rossanda alle sue amiche e donne femministe. A queste donne che tanto si sono battute perché mutassero linguaggi e forme della rappresentazione della donna anche nei media, Rossanda ha più volte chiesto «cosa ha impedito al movimento delle donne di diventare intanto una forza capace anche di durare, di garantirsi uno spazio […] e soprattutto di generalizzare la propria cultura, farla passare…». Ossia, cosa impedisce ancora oggi alle donne di trasformare una cultura che le rappresenta in chiave sessista e discriminante.
A suo tempo, Rossanda disse che la grande forza del femminismo era stata l’aver portato allo scoperto e al centro della politica il corpo, la sessualità, l’esperienza dell’individuo in un’ottica di consapevolezza e riappropriazione della parola su se stessi. Il limite era stato quello di non riuscire a estendere questo modello fuori dal piccolo gruppo e delegare ad altri, spesso uomini, la lotta contro i “poteri reali”, gli stessi che cercano di dominare anche l’informazione e i media. Forse è da questo interrogativo che è necessario ripartire affinché anche nei media la donna possa essere se stessa senza omologarsi al modello maschile dell’usa e getta e con il riconoscimento delle sue capacità e responsabilità al pari di un qualsivoglia collega maschio.

Nota: le citazioni in corsivo sono frutto di una intervista a Rossanda a cura dell’autrice.

 





Tacciano le madri, ascoltiamo le figlie

Questa recensione esce in simultanea su La Bottega del Barbieri «perchè – spiega Barbara – con le amiche e gli amici di Diatomea e della Bottega del Barbieri siamo per la condivisione e il fare rete, e allora anche le riflessioni su libri, femminismi e cultura possono essere pubblicate in entrambi i luoghi senza aver bisogno di copyright».

Cominciare dalla fine, senza svelare la trama, per andare a leggere “la loro storia”: cinque donne, qualche uomo, un’isola su cui si ritrovano tutte, una voce narrante che infine recita “lei sa di cosa ho bisogno. Sa che per esistere, per avere la giusta consapevolezza di te, devi possedere una storia che ti precede (e che ti continua, ha detto una volta), perciò non ho mai dovuta pregarla. È stata lei a spiegarmi da dove vengo e perché e a raccontarmi della repubblica delle madri”.

È qui, nella storia che ognuna di noi ricostruisce, che risiede, almeno così mi è parso, il senso profondo dell’ultimo romanzo di Maria Rosa Cutrufelli, L’isola delle madri [Mondadori, 2020].

Una scrittura fantastica, come preferisce definirla Cutrufelli, non di fantascienza, perché non c’è nulla nel racconto che non accada già nel nostro presente.

Il pianeta terra estremamente sofferente per l’inquinamento, per lo sfruttamento delle risorse naturali e un turbocapitalismo che ha sfregiato i luoghi della cultura e quelli del vivere comune, alimentando disuguaglianze, riducendo diritti e reprimendo possibili ribellioni. Un intreccio di vite che si snoda in paesi mai nominati ma facilmente riconoscibili, fra l’Est Europa e il Mediterraneo, con un ritorno anche metaforico alle isole fondative della civiltà occidentale, a quelle mitologie che avevano tracciato un destino umano che sembrava irreversibile e che mai come oggi appare invece in continuo mutamento.

Uno scenario che, involontariamente, sfiora l’attualità della quarantena e della pandemia, ma qui la malattia è un’altra, è la sterilità umana considerata la ‘malattia del vuoto’ intesa “come qualcosa che si è prodotto nelle nostre cellule”, spiega Cutrufelli, andando a minare del tutto la riproduzione della specie.

Un fatto reale portato alle estreme conseguenze, così tanto che a volte nello scorrere delle pagine manca l’aria e ci si sente un po’ con le spalle al muro, quasi che la diminuzione delle nuove nascite sia da leggere solo come un enorme cataclisma e non, anche, come scelta di altre vite possibili.

Che fare dunque dinanzi al rischio del vuoto totale? Fra chi – anche nel romanzo – pensa che non sia così necessario riprodursi perché il mondo è pieno e chi ripete che è solo Dio a dare la vita, le personagge di questa storia propongono, se lo si vuole, di ricorrere alle biotecnologie e alla scienza. Una soluzione che spesso nella lettura appare come l’unica possibile, quasi non fosse invece auspicabile un cambiamento negli stili di vita che tanto influenzano anche la capacità, per chi lo volesse, di riprodursi.

Non è un tema casuale, per chi come Cutrufelli è impegnata in prima persona nei movimenti femministi e che ha scelto la narrativa come terza via – fra politica e dogma – per offrire alla discussione comune spunti di riflessione.

Sulla maternità, sulla gestazione per altre e altri, sulla difficoltà di definire oggi ‘la madre’ quando, afferma la scrittrice, è già in essere una scissione in tre figure: la madre donatrice, la madre gestante, la madre legale. Dovremmo forse dire donna, al posto di madre: donna che dona l’ovulo, donna che lo fa crescere nel suo corpo, donna che si prende cura del nuovo essere e lo fa diventare una persona, senza che il corpo sia minimamente chiamato in causa.

Un ripensamento complessivo dei ruoli e il riconoscimento che, non solo nella comunità umana, la differenza è nella relazione che si instaura. Relazione d’amore e di responsabilità, di rispetto e curiosità, di ascolto reciproco.

Ecco perché allora è arrivato il tempo di uscire da una discussione che nel mondo reale è solo fra madri, a fatica sono ammesse le non madri, per ascoltare la voce delle figlie e dei figli nati fuori dal tradizionale incontro fra uomo e donna, per dare parola a chi una condizione del tutto diversa la vive già e vuole raccontare la sua storia, a modo suo.

Chissà allora, suggerisce Cutrufelli, che non servano parole nuove, visto che quelle note non riescono a significare la realtà. Lei ne inventa alcune nel suo romanzo prendendo ispirazione dal linguaggio che si sta diffondendo fra chi nasce grazie alle biotecnologie, laddove gli intrecci familiari invitano a preferire il termine ‘zia’ per la donna gestante o cugina/o per le sorelle/fratelli non di sangue. Peccato, ma su questo con Cutrufelli ci confrontiamo da tempo, che la riflessione sul linguaggio non contempli del tutto anche il lessico sessuato e mi faccia sobbalzare nel leggere che “lei è un medico” o “caporeparto” riferito ad alcune protagoniste della storia. Cutrufelli ritiene che alcune parole sessuate siano ancora un inciampo per la lettura e che la scrittura romanzata abbia bisogno di tempi più lunghi per tenerne conto.

Senza dubbio la narrativa le ha permesso di tradurre interrogativi complessi in una storia che solletica pian piano chi legge e con accuratezza scandaglia l’anima delle protagoniste alle prese con “un sorriso che sembra affiorare da complicate negazioni interne”. È invece benevolo lo sguardo che la scrittrice posa sul ruolo del padre, che, come spesso nella vita reale, appare spettatore balbuziente, quasi giustificato se “è solo dentro i suoi pensieri che un padre (biologico o putativo che sia) può fare il nido per suo figlio, non è così?”. Del resto, per il momento, ricorda Cutrufelli, senza il loro seme ancora non c’è nascita possibile. Ma tutto il resto sì, considerato il prezzo pagato dalle donne prima, durante e dopo la nascita, in ogni epoca e ad ogni latitudine, chiamate poi a riparare anche i danni prodotti da quella metà del cielo che avvelena i pozzi e i fiumi.

Ed è proprio l’eco di un racconto sui pesci mutanti che nuotavano nelle acque avvelenate del fiume – racconta l’autrice in una breve nota finale – ad averla spinta a scrivere questo romanzo, non l’attualità ma piuttosto un lento lavorìo interiore suscitato dalle storie che le raccontava il padre scienziato a lei bambina sugli effetti dei cambiamenti climatici, dell’inquinamento, delle modificazioni genetiche dei cibi e l’uso di pesticidi.

Una storia di decenni fa che – a volerla ascoltare – lasciava già intravedere il futuro che stiamo vivendo ora.





Diritti al Cuore Onlus e Diatomea.net presentano: percorsi e dialoghi sui femminismi nel XXI secolo

Diritti al Cuore Onlus e Diatomea presentano

Sabato 7 dicembre 2019 alle ore 19:00 in Via Federico Borromeo 75 le associazioni Diatomea.net e Diritti al cuore presentano l’incontro “Percorsi e dialoghi sui femminismi nel XXI secolo”. Ingresso gratuito.

Oggi come non mai è necessario parlare di femminismo. Un termine a volte troppo abusato, schernito, screditato, usato in maniera distorta, circondato da stereotipi e manipolazioni. 

Ma cosa sono i femminismi oggi? Di questo parleremo con Barbara Bonomi Romagnoli e Marina Turi, autrici di “Non voglio scendere! Femminismi a zonzo” e Benedetta Pintus e Beatrice Da Vela, autrici di “Siamo marea. Come orientarsi nella rivoluzione femminista”.

Coordinano Raffaella Matocci di Diatomea.net e Francesca Caprioli di Diritti al Cuore Onlus.

Breve descrizione dei libri

Siamo marea. Come orientarsi nella rivoluzione femminista di Benedetta Pintus, Beatrice Da Vela, Villaggio, Maori 2019.
Un manuale che ripercorre la storia del movimento femminista e che ci guida attraverso la giungla dei vari temi e teorie, per capire meglio come reagire e lottare contro le discriminazioni di ogni giorno e conoscere da vicino il variegato mondo dell’attivismo contemporaneo.

Non Voglio scendere! Femminismi a Zonzo di Barbara Bonomi Romagnoli – Marina Turi, Golena, 2019.
Sei tragitti per andare a scovare femminismi felici e appassionati, (auto)ironici e pungenti, includenti e visionari, capaci di produrre un progetto politico nella cornice del tempo che viviamo, quando tutto sembra bloccato, stereotipato e ripetitivo.

 

 




Vancouver.

Vancouver città dei murales, opere d’arte a cielo aperto, insieme a cavi elettrici confusi e pendenti, ti chiedi se fanno male alla salute mentre sotto ci passeggi.

Vancouver così grigia e colorata assieme, un concentrato di grattacieli che svettano – come Boston, Londra, Tapei – e piccole aiuole di fiori e piante officinali quando meno te lo aspetti, come le piccole arnie nella terrazza di un hotel, a pochi metri dagli ospiti che impavidi si tuffano in piscina.

Vancouver rilassata sul porticciolo che è mare ma non te ne accorgi, nell’insenatura che prima o poi sfocia nel Pacifico, così lontano e ad un tratto così vicino, come i mitili che giri lo sguardo e sono lì ad asserragliare i pali della banchina.

Vancouver, sullo sfondo le montagne innevate, in metropolitana un ragazzo in canottiera con gli sci sottobraccio, l’eco dell’esploratore nel nome e la scritta sul marciapiede a ricordarci che “colonialism does not spark joy/il colonialismo non provoca gioia”.

Vancouver, ritrovo per senza fissa dimora da tutto il Canada: il clima è mite e, forse, la città accogliente o semplicemente indifferente. Del resto l’Economist sostiene che sia la città più vivibile al mondo. Di sicuro scivola via leggera, come i suoi ciclisti nel sali scendi delle sue colline.


Tutte le immagini contenute in questo articolo, lì dove specificato, sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright © Barbara Bonomi Romagnoli




Le donne hanno un posto per tutto

Mi sono avvicinata alla lettura di questo volume con prudenza e un po’ di sospetto, lo ammetto. Il tema della maternità è scivoloso e anche un po’ di moda, in un paese in cui si chiede alla maggioranza delle donne di essere buone madri e buone mogli e dove le aspettative sociali rispondono a modelli precostituiti che riducono la scelta [o l’impossibilità] di non riprodurre la specie a velleitari egoismi o commiserevoli imperfezioni. Con in sottofondo il solito paradossale leitmotiv: da una parte la santa mamma italiana che tutto vede e provvede, dall’altro politiche che negano diritti e possibilità alle eventuali future madri.

Da questa premessa e per di più essendo una ‘senza figli’, la lettura di Madri comunque di Serena Marchi si è rivelata invece una piacevolissima sorpresa, per lo stile asciutto mai enfatico, perché la carrellata di ritratti è davvero rappresentativa delle differenze e perché, come afferma Pedro Almódovar in epigrafe: “le donne sanno nascondere un cadavere e affettare i peperoni: hanno un posto per tutto”.

Hai scritto un libro senza filtro, parlano le protagoniste, almeno così sembra a chi legge. Mi racconti meglio come hai raccolto queste storie?

«Le storie le ho raccolte in 4 anni, partendo prima da quelle più “facili” da trovare come la mamma adottiva e la mamma di figli in affido per poi andare, via via, a cercare le maternità meno comuni, quelle più in ombra, quelle che la società lascia in disparte perché sono scomode. Vedi la mamma lesbica, la figlicida (sono entrata nel carcere giudiziario di Castiglione delle Stiviere, dopo un anno di attesa del permesso) ma ancora di più la donna che affitta l’utero e la coppia che ricorre alla surrogazione. Per questo, ho preso il volo e sono andata a Kiev, lo scorso ottobre, dove son rimasta tre giorni e ho parlato sia con la portatrice sia con la coppia. La scelta della prima persona è per dare voce al massimo solo alla protagonista. E questo crea più intimità tra chi racconta e chi legge».

In che modo hai condotto le interviste? Hai mai pensato ad aggiungere un commento, a entrare nelle altre storie e dire la tua?

«Il novanta per cento delle mie interviste è stata fatta di persona. Ho incontrato di persona tutte le protagoniste e ho iniziato con il farmi raccontare chi sono, la loro vita, le loro storie e poi la loro maternità. Sempre una lunga chiacchierata dove le domande mi venivano via via che si parlava. No, non mi è mai venuto in mente di entrare nelle storie e di dire la mia. Ho scritto questo libro per cercare il più possibile di far capire al lettore che le scelte non vanno giudicate, sia di maternità sia di non maternità. Entrare e commentare sarebbe stato tradire l’intento del mio libro. Credo che nessuno possa mai giudicare le scelte di una persona, figuriamoci se io mi sarei permessa. Non condivido e non sono d’accordo con tutte le mie protagoniste, ma credo sia giusto che abbiano voce. Mia è solo l’introduzione. Poi presto la mia penna e lascio la parole alle trenta storie».

Madri comunque”, anche chi per chi non è madre: non pensi che questo non faccia che rinforzare stereotipi e modelli che vogliono le donne sempre e solo come madri? Non si può essere donne e basta?

«No, al contrario, credo che serva per far capire ai benpensanti, a chi ragiona per stereotipi, a chi sa sempre ciò che è giusto e ciò che non lo è, che una donna non deve essere per forza madre. La negazione della maternità non deve essere tabù. Prima che madri, siamo donne, persone, tanto quanto gli uomini. Purtroppo la società questo non lo valuta. Credo che si possa essere donne e basta e non credo che la maternità ti faccia più donna, più completa. Ci sono donne complete anche senza essere madri. Ma questa è solo la mia opinione…»

Sei stata coraggiosa, hai affrontato un tema scomodo da qualunque punto di vista lo si prenda. Quali le critiche maggiori che hai ricevuto?

«Le critiche maggiori mi sono arrivate per la scelta di parlare solo delle madri, solo delle protagoniste, senza aver mai preso in considerazione i figli e le ricadute delle scelte di queste madri sui figli. Ho fatto una scelta ben precisa: dedicarmi solo ed esclusivamente alle donne. Dei figli, in questo libro, non mi importa. Viviamo in una società ‘figliocentrica’, in cui tutto ruota principalmente attorno ai figli. Sui figli ci sono milioni di libri, sulle madri pochissimi. Per una volta, volevo che il focus, la luce, l’attenzione fosse solo loro».

già pubblicato su LM – Letterate Magazine


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