Ragazzo spazzola. Una storia vera. Parte prima

… vai alla seconda parte

 

Italia 1945. Quadro salentino. Provo a immaginare.

Una guerra finita da poco e tanto da fare o rifare. Dai suoi occhi verdi di bambino, Nicola si riempie lo sguardo da parte a parte nell’orizzonte. È un balcone a scivolo la sua fantasia dove tutto è possibile. Nicola sente il profumo della vita che sboccia e vola irraggiungibile sulla sua bici tra lecceti e muri a secco. Nel sole della campagna pugliese i sogni di un bambino crescono limpidi e beati.

Certo, però, Nicola ha già le idee chiare: a 11 anni lui vuole fare il barbiere. Quinto di sette figli, Nicola vuole fare proprio questo, perché è la barberia da Nino il posto del paese dove si viaggia e, se vogliamo, si sogna di più. Le storie che si raccontano lì lui non le aveva mai sentite da nessuna altra parte ed è proprio lì che lui vuole stare. Si, il barbiere, che però non basta. Nino il titolare, arriva a bottega sempre tardi. Le prime ore del mattino le trascorre a bordo della sua bicicletta coi freni a bacchetta, di casa in casa a prendere le pagnotte lievitate ma ancora da cuocere per portarle poi al forno comunale. Nino carica il pane su una lunga palanca di legno, quindi sulla testa, e poi, come un equilibrista, via sul pedale.

Nicola lo ammira, arriva prima a bottega e la tiene in ordine come ogni buon ‘ragazzo-spazzola’ avrebbe detto qualcuno. Nicola guarda, ascolta e impara. Bambino vispo con ancora la guerra negli occhi, lui ha la mano delicata e aspetta la sua occasione che, come ogni occasione, un giorno finalmente arriva. C’è da andare a casa del signor Alfonso a fargli la barba. Un tempo, in certi posti, chi se lo poteva permettere non si spostava da casa manco per farsi la barba. Nino il titolare è in ritardo e la signora Luisa attende davanti alla bottega già da un po’. La donna ha e mette fretta.

E allora: “dì un po’, Nicó, Tu la sai fare la barba?” fa con aria risoluta la donna al bambino. Nicola ha un attimo di incertezza. A pensarci bene, lo sa anche un moccioso, radersi non è una cosa banale. Peggio ancora farsi radere. In un certo senso, quando ci si fa radere, si mette la propria vita nelle mani di un’altra persona. È un atto di fiducia estremo. E chi è mai quell’uomo che affiderebbe la propria incolumità alle malferme mani di un bambino? Nicola ci pensa ma non esita. Decide che è giunta l’ora di fare il salto, e accetta.

Così, presi gli arnesi del mestiere, inforca la bici e parte alla volta di Casa Leone, la dimora di Alfonso Leone, un ricco notabile del posto. Strada sterrata, qualche chilometro tra i campi di grano e gli ulivi, poi finalmente il vialone tra i muriccioli a secco dell’enorme bianchissima masseria. Nicola appoggia la bici subito prima dell’entrata, un grande arco in pietra sempre aperto, e si presenta: “buon giorno, Nicola sono, per la barba del signor Alfonso…” La signora Luisa è già lì, arrivata poco prima a bordo del suo veloce calesse. Alla vista del luogo, Nicola resta impalato per qualche istante. Per lui è la prima volta. Un accecante bianco che balugina nei suoi occhi scuri socchiudendogliene uno. Quell’eterna, spietata battaglia tra luce e ombra, che trova pace solo nei finestroni di legno color verde bottiglia infissi negli stipiti di pietra viva di questa enorme casa bianca.

La signora Luisa gli si fa incontro. Lei è la giovane moglie di Don Leone, la moglie di seconde nozze. È qui da qualche anno, viene da Reggio Calabria. Raramente si vede in paese, qui lei è straniera. Ma è bella: fisico filiforme, incarnato moro, sottili capelli lisci e castani sulle spalle, occhi scuri e profondi, viso dolce da Madonna, gesto elegante. Oggi ha un abito fiorato chiaro che guarnisce con scialle di lino bianco dal delicato panneggio. “Vieni Nicó, ti accompagno da don Alfonso” fa al bambino seriosa la giovane signora prendendolo per mano. La donna lo conduce in un largo atrio senza tettoia con al centro un tavolino accompagnato da due sedie non uguali, in un bianco senza fine. Il luogo è aperto ma curato dall’ombra di ristoro di un grande, gigantesco albero di fico. La masseria sembra essergli stata costruita attorno. Infine, delle larghe scale che costeggiano parte delle pareti e portano verso le stanze alte, quelle private.

Ma la signora si ferma all’inizio delle scale: “va’ Nicó, su troverai delle altre signore ed il signor Alfonso che ti aspetta” fa la donna accarezzandolo teneramente. Nicola le sorride e fa come lei dice. Poi, con due balzi sale verso la sommità e d’un baleno è già sulla porta appena abboccata. L’apre, si infila e trova un lungo, fresco corridoio. Un pavimento a quadri bianchi e neri, lucidissimo. Nicola avanza con cautela. Si sentono delle persone parlare, una signora fa capolino dalla porta di una delle grandi stanze che su quel corridoio si affacciano. Poi lei si accorge della presenza del bambino. “Sono qui per la barba al signor Alfonso, Nicóla sono, il barbiere” l’anticipa lui. “Sì, vieni vieni, Don Alfonso è qui” fa la signora più anziana uscendo dalla stanza in compagnia di un’altra giovanissima, una ragazza. “Tu fai, e quando è tutto a posto ci chiami che continuiamo a vestirlo… Intanto lui ha già l’asciugamano caldo sulla faccia. Sapevamo che eri a minuti…” conclude la signora anziana.

La donna gli parla impalata insieme alla ragazza davanti la porta della stanza, velando sul resto lo sguardo curioso del bambino. Nicola riesce solo ad intravvedere che sul letto c’è sdraiato un uomo in pigiama. Ma non capisce. Le donne gli parlano mentre escono e Nicola rispettoso le ascolta e le segue con gli occhi mentre lui entra nella stanza voltando però le spalle a Don Alfonso.

Un curioso balletto.

…continua