Le città visibili

La
narrazione sulla città è ampia e ricca di trappole mentali nelle quali non
vorrei cadere: stereotipi in abbondanza, tesi pro e contro la definizione di un’identità
subordinata al sentire comune, la diffusa ignoranza sul tema dell’innovazione,
la mistica degli archistar e il potere delle amministrazioni locali in fatto di
scelte e visioni strategiche dello sviluppo urbano.

Premetto
che non faccio di mestiere l’architetto, ho altre competenze, quindi il mio
intervento è quello di una cittadina osservatrice auspicabilmente lucida, nel
considerare il “cosa” e il “come” per quanto attiene allo sviluppo delle città.
Quindi aspettatevi più quesiti che risposte confezionate per l’occasione.

La città di riferimento è Milano, dove sono nata e vivo tuttora e che conosco bene.

Da qualche tempo spuntano come funghi classifiche sulla vivibilità delle città; recentemente Milano si è guadagnata nientemeno che il primo posto, nonostante la qualità dell’aria che non può certo dirsi soddisfacente, stante la diffusione delle polveri sottili e qualche altro antipatico inquinante.

Vero
è che negli ultimi dieci, quindici anni la città ha fatto passi da gigante nel
miglioramento dei servizi: dal trasporto pubblico alla gestione dei rifiuti,
dalla volontà di sviluppo della mobilità dolce, alle politiche di accoglienza e
inclusione.

Pare che Expo 2015 abbia dato un buon contributo all’incremento del turismo e dell’offerta culturale in fatto di mostre d’arte e raffiche di eventi che dinamizzano la partecipazione cittadina.

Non tutti, però, sono d’accordo che ciò basti a trasformare una metropoli a vocazione internazionale, in una smart city. Già, cosa si intende per smart city ? Avere il  Wi-Fi libero in tutti i quartieri, finanche al cimitero ? Non credo proprio.

Cimitero di Greco, Milano.

La
prima questione riguarda il cosiddetto “modello di città”. Ha senso parlare di
modelli, quando si sa per certo che non esiste una città ideale,  spesso fondata sul confuso concetto di
organismo?

La
città è l’insieme non ordinato di frammenti, parti separate che per lo più non
hanno legami, e che appartengono indifferentemente alla città antica o alle più
recenti espansioni.”

I frammenti della città e gli elementi semplici dell’architettura,
G.Motta, A. Pizzigoni, ed. Clup

Secondo
questi autori, la città è vista come una combinazione di particelle e non come
un insieme coerente: “È questa attenzione al particolare che caratterizza
oggi la rappresentazione della città; un marciapiede, una vetrina, la scala di
una casa, un balcone, la panchina di un giardino pubblico, […] sono le immagini
che hanno permesso di rappresentare la città nel modo più convincente.
L’analisi dei frammenti non cerca di ricreare un insieme coerente, ma accetta e
persino celebra la complessità della situazione.

 Milano dopo il miracolo, John Foot, ed. Feltrinelli

Date queste premesse, mi corre l’obbligo di introdurre l’annosa questione delle periferie, cavallo di battaglia dell’attuale giunta comunale che ha varato il Piano Quartieri, un grande progetto di riqualificazione delle periferie, covato con discreta ansia dai gruppi di opinione pro e contro, per esempio, alla riapertura dei Navigli e considerato con attenzione dai comitati cittadini che praticano la democrazia partecipata in fatto di rigenerazione urbana.

Insomma quello delle periferie è storicamente considerato un vulnus al quale si deve porre rimedio per rendere più organico l’assetto urbano e meno stridente il divario tra centro e periferia. Questo nelle intenzioni e nell’immaginario collettivo.

Allora
proviamo a definire la periferia, in contrapposizione al centro urbano. Una
zona ai margini del centro storico, una cintura esterna, un’area urbana ben
definita, per così dire, che è poi il termine tecnico di periferia. Francamente
inesatto, poiché la periferia continua a spostarsi.

Se consideriamo, ad esempio, i quartieri Isola e Garibaldi che fino ai primi anni novanta erano prettamente quartieri popolari, grazie alla trasformazione delle ex Varesine (dove un tempo c’era un grande luna park) nel rinomato e plurifotografato quartiere di Porta Nuova con il Bosco verticale, Piazza Gae Aulenti con il grattacielo Unicredit che ha rivoluzionato lo skyline cittadino, ci rendiamo conto di quanto astratto e impreciso sia parlare di periferia come di un insediamento immodificabile.

Certo, considerati i tratti distintivi e convenzionali della periferia: il grigiore uniforme delle case, l’edilizia speculativa, i giardinetti sguarniti e, da qualche tempo, l’azzeramento delle piccole imprese e botteghe artigianali, sostituite da immensi supermercati, mi domando se sia lecito definirli elementi semiotici  [1], ossia tratti corrispondenti a un codice iconologico ben definito.

Paesaggio urbano.

In
questo caso la periferia denuncia tutta la sua marginalità, diventando corpo
estraneo, un territorio desolato da evitare.

Eppure non tutte le periferie si assomigliano mettendo in mostra la loro fragilità. Una variazione sul tema ce la offre Nolo (North of Loreto), la social street per antonomasia.

Periferia nord-est, quartiere popolare e multietnico, per nulla uniforme nell’estetica degli edifici, divenuto una community dapprima virtuale su Facebook, poi comunità reale di individui che praticano il buon vicinato, frequentandosi e attivando quella socialità fatta di momenti di intrattenimento collettivo e senso di appartenenza. Una sorta di gentrificazione, anche se gli abitanti negano questa attribuzione; di fatto si riduce la distanza fra le persone che un tempo nemmeno si salutavano incontrandosi per le scale.

Piccola nota a margine: nel cuore di Nolo si trova Casa Lavezzari, edificata nel 1934, progetto degli architetti Giuseppe Terragni e Pietro Lingeri,  un esempio di architettura razionalista.

Casa Lavezzari a Nolo, 1934. Architetti Giuseppe Terragni e Pietro Lingeri. Immagine tratta dal web.

“Dobbiamo
sfatare un mito: la periferia non esiste più”

Stefano
Boeri

Allora cerchiamo di non stigmatizzare la città contemporanea intesa come degenerazione o superamento della città antica: oggi emergono nuove potenzialità, stili di vita, commistioni tra il vecchio e il nuovo che nulla hanno a che spartire con una rigida divisione della società in classi, un tempo ripartita tra quartieri eleganti e rioni popolari che, di questi tempi, hanno smarrito la loro originaria natura di milieux ben rappresentati. Semplicemente prendiamo atto della complessità.

Un capitolo di questa breve ricognizione sulla città e le sue controverse articolazioni, lo riserverei al fenomeno degli archistar. City Life (ex Fiera Campionaria), Porta Nuova, Apple Store alle spalle del Duomo. Questi siti interessati da un radicale rinnovamento dell’estetica degli edifici – non entro nello specifico tecnico – hanno sortito differenti reazioni da parte dei milanesi: dall’accoglienza entusiastica degli amanti del nuovo e appariscente look delle torri Isozaki e Hadid a City Life, le case transatlantico, sempre progetto Zaha Hadid e l’edificio residenziale Liebeskind, ai detrattori sistematici verso qualunque rinnovamento. Tutto intorno all’iperbolico insediamento, la sobria eleganza delle case della Milano bene, costruite mediamente negli anni trenta per la borghesia abbiente.

Render delle torri di Isozaki, Hadid e Liebeskind a City Life, Milano, immagine tratta dal web.
Casa transatlantico, architetta Zaha Hadid. Immagine tratta dal web.

Che
si diceva all’inizio? Frammenti, particelle, parti separate…

Infine, la ciliegina sulla torta nell’ambito di queste considerazioni è decisamente l’Apple Store (progetto Stefan Behling dello Studio Norman Foster), di recente inaugurazione: la fontana di vetro, un parallelepipedo alto otto metri all’interno del quale  l’acqua zampilla saturando il  manufatto; la fontana sormonta la scala che conduce a un ipogeo, l’ingresso del megastore.

In un mio articolo pubblicato su altra testata, l’Apple Store è stato inizialmente oggetto di “turismo totemico” da parte dei visitatori attratti dalla novità. Il che mi fa pensare, con un’ardimentosa ellissi, tra realtà e finzione, ai primati che si raccolgono attorno al monolite, nel film di Stanley Kubrick 2001 Odissea nello spazio.

Apple Store, Milano. Immagine tratta dal web.

Il
tutto a una manciata di chilometri dalle bistrattate periferie sopra descritte.

Tutto
ciò premesso, cosa sarà più straniante secondo voi ?

[1] Sia detto per inciso, sulla relazione tra architettura e semiotica, ha indagato Gillo Dorfles: Simbolo comunicazione consumo, 1962.

Ritengo invece (e questo punto mi sembra fondamentale tanto più perché contrasta con quanto viene sostenuto oggi dalla maggior parte dei ricercatori) che esista, non sempre, ma spesso, un « quid formale » – potremmo definirlo un gestaltema – capace di comunicare qualcosa esclusivamente in base al suo aspetto formale-configurazionale.”

Gillo Dorfles


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