WHITE SANDS

È buio quando montiamo in macchina.

Le quattro del mattino e non dormo. Tutti i sensi attivati, pronti a recepire anche la minima sollecitazione. Sono tutto occhi, naso, orecchie. Il gusto di limone del chewing gum che sto masticando si amplifica nel mio cervello creando l’illusione di una passeggiata in una limonaia nel golfo di Sorrento. Le mani poggiano sul sedile del VAN e riesco a percepirne ogni increspatura della finta pelle, ogni granello di polvere lasciata dai miei vestiti il giorno prima. Devo stare attento. Nulla deve andare sprecato. Ogni momento deve essere un attimo, ogni sensazione un’emozione. Tutto deve essere vissuto fino in fondo e poi congelato nell’ippocampo in modo da ricordarlo per sempre il più fedelmente possibile.

Per me questo non è un workshop fotografico, come recita il titolo di questo viaggio verso il “New Mexico”, è il mio stargate, il tunnel magico, la porta per entrare nella bolla spazio temporale che ho sempre sognato di abitare, quel meraviglioso mondo alieno che risponde al nome di White Sands DesertNew MexicoUSA. Ricordo perfettamente il momento in cui, per la prima volta, quasi trent’anni fa, si è materializzato davanti ai miei occhi il deserto bianco. Sul mio schermo TV, Mickey Rourke e Samuel L. Jackson ci affondano i piedi fino alle caviglie, inseguendosi e prendendosi a pistolettate in un thriller di terz’ordine giustamente finito presto nel dimenticatoio. Attendo che il bene trionfi – i cattivi muoiono o vanno sempre in prigione nei film hollywoodiani di terz’ordine degli anni ‘90 – finisco la vaschetta di gelato e poi vado a dormire ma… che posto è quello?

Cos’è quell’abbacinante distesa di bianco?

Una sconcertante manifestazione della natura o un’immensa distesa artificiale, risultato di una qualche attività umana?

Un deserto non rosa, non grigio, non dorato, senza cammelli o tuareg?

Ma che deserto è?

©Alberto Manno

Non so rispondere a queste domande e purtroppo navigare, per me e per tutti nel 1992, significa ancora solamente andar per mare. Mi limito a guardare ed a sognare incollato al televisore con la vaschetta di gelato vuota in mano ed il cucchiaino in bocca. Andare in quell’oceano bianco, affondarci i piedi fino alla caviglie, immergersi nelle sue dune e, soprattutto, immortalarlo nel mio ricordo con le foto, tante, mille, infinite. Mi sembra solo un sogno, un bellissimo sogno che non so neanche come provare a realizzare. Nel 1992.

Ma nel 2018 ecco che tutto si concretizza in un attimo: Scenic Landscape Photo Workshop – New Mexico – 12-18 maggio. Modulo di iscrizione compilato e firmato in mezz’ora, ogni esitazione cancellata, ogni dubbio spazzato via. D’altronde, alla storia che gli dèi quando ci vogliono punire esaudiscono i nostri desideri non ci ho mai creduto, con buona pace di Karen Blixen/Maryl Streep.

Ed infatti, mentre sono qui, seduto sul sedile di terza fila di questo mostruoso VAN che ci conduce verso la meta agognata, mi sento l’uomo più felice del mondo.

Scruto il cielo nero per intercettare il minimo biancore che annunci il manifestarsi dell’alba e l’inizio della magia ma arriviamo a destinazione che è ancora buio. Tutto calcolato, per prenderci i tempi giusti, senza fretta. Un programma studiato nei minimi particolari da Riccardo, il nostro tour leader nonché fotografo paesaggista ispirato, perché si ripeta il magico rituale da lui seguito più volte in passato, per il piacere suo e di altri fortunati come noi. Nell’attesa, nel freddo intenso della notte, penso alle questioni tecniche. Ripasso mentalmente tutti gli insegnamenti che Riccardo mi ha elargito durante i due corsi di fotografia amatoriale che ho seguito, ormai tanti anni fa. Ho quasi il terrore di sbagliare, di fare brutte foto a causa di errori di esposizione e bilanciamento del bianco, o nella gestione dell’insidiosa accoppiata tempo di esposizione/apertura del diaframma.

Il tempo di bere un tiepido caffè, zaino in spalla e cavalletto in mano e si parte per le dune.

Bisogna arrivare nella posizione ideale, alla giusta altezza. Attenzione che qui ci si perde facilmente, rimaniamo compatti, avvertite quando vi spostate da soli. E chi ti molla, anche perché l’allievo attento ama stare accanto al proprio maestro, la vicinanza fisica gli dà conforto, rafforza la sua convinzione che potrà fare un buon lavoro. I piedi affondano nella sabbia/non sabbia, fredda perché è gesso ed il gesso non assorbe il calore del sole. Si, è tutto fresco intorno, fresco e chiaro, lentamente, sempre più chiaro. Siamo sulla cresta della duna prescelta, la fotocamera saldamente agganciata sul cavalletto, il tele per entrare dentro al paesaggio, luce diurna, 400 ISO perché all’inizio è solo chiarore… e tutto comincia.

Non è affatto bianco e l’accetto senza delusione. Anzi, godo della vertigine della scoperta, della sensazione dell’inaspettato che cresce in me di minuto in minuto, anzi di secondo in secondo.
Perché il sole sorge, la luce si diffonde lentamente ma inesorabilmente e si infrange sulle dune trasformando il bianco in azzurro, l’azzurro in blu che a sua volta si alterna all’oro ed all’argento.

©Alberto Manno

©Alberto Manno

Cambio inquadratura girando il totem “macchina-cavalletto” e, all’improvviso, il gesso da bianco e puro diventa nero come la notte fonda e si erge in enormi muraglie che si intersecano con canyons d’argento, la cui superficie sembra la maglia metallica della cotta dei cavalieri medioevali.

© Alberto Manno

Quasi non riesco a star dietro con le inquadrature a questi repentini cambiamenti di luce, ombra e colori. L’emozione è sempre più forte e si tramuta presto in una sensazione quasi spiacevole, una sorta di frenesia, di angoscia di non poter registrare, ricordare, memorizzare, la paura che tutto svanisca troppo presto, che lo stargate si attivi improvvisamente in senso inverso e io sia trasportato di nuovo nel mondo reale non avendo visto abbastanza.

Allora capisco che mi devo fermare. Un respiro profondo, lo sguardo, ammirato, all’infinito che mi circonda. Mi pervade una sensazione di totale, profonda e consapevole serenità. Solo io ed altre nove persone nel mondo, non un alito di vento, il sole tiepido che mi riscalda dolcemente. La consapevolezza che un’esperienza fantastica si è conclusa. In queste tre ore ho visto e fotografato ogni cosa e provato ogni emozione con l’intensità che volevo, che mi aspettavo. 

© Alberto Manno

Adesso, a passeggio tra le dune che il sole sempre più alto nel cielo tinge “semplicemente” di tutte le sfumature del bianco e del grigio, tra battute e scherzi con i compagni di ventura, mi unisco al coro di ringraziamenti a Riccardo per averci portato nel luogo magico e cerco di riflettere, di capire meglio dove sono e cosa ho visto.

Il 16 luglio del 1945, al confine nord del White Sands Desert, si verifica un’enorme esplosione provocata dall’uomo: è il progetto “Trinity”, il primo test atomico, il test di prova per le prossime devastazioni di Hiroshima e Nagasaky. Dunque, il meraviglioso mondo alieno, il misterioso paesaggio che potrebbe appartenere sia alla terra sia alla luna, il paradiso di gesso bianco che si tramuta alla luce dell’alba in un abbacinante caleidoscopio di colori, è anche il luogo in cui è stato testato lo strumento di morte programmata per antonomasia, che ha concretizzato la sconcertante determinazione di porre fine all’orrore della guerra tra i popoli grazie alla cancellazione fulminea di una parte di questi.

Dove ho già visto descritta questa apparentemente inconcepibile convivenza di bellezza ed orrore? L’estraniante contemporanea sensazione di serenità e disperazione?

Lo stargate si rimette in moto e con un fulmineo flasback torno indietro nel tempo e nello spazio e sono al Museo dell’Ara Pacis due anni fa, di fronte allo struggente ritratto di una bambina con il volto devastato dagli effetti della bomba atomica di Hiroshima, gli occhi velati, privi di vita, che sembra sorridere. Lo sfondo, una tenda o una parete dipinta, è un susseguirsi di onde che sfumano in tutte le gradazioni del grigio fino al nero, la grana della stampa fotografica che le fa sembrare come fatte di sabbia. Onde di grigio e di nero, sabbia, serenità, orrore, gioia e tristezza, Hiroshima, tutto nel capolavoro del gigante della fotografia giapponese Domon Ken.

Ora, tutte le emozioni vissute mentre il sole sorgeva sul White Sand Desert, mi appaiono come un meraviglioso déjà vu e questo mi conforta, mi fa sentire vivo.

Sto forse capendo cosa abbia veramente significato per me questo viaggio: un grande artista che non ho mai conosciuto, morto da un pezzo, mi ha fatto vivere una grande emozione attraverso la sua arte fotografica, emozione che credevo unica ed irripetibile; due anni dopo, un viaggio in un luogo dove meraviglia ed orrore si fondono ed un apparecchio fotografico amatoriale, mi hanno permesso di riviverla.

Probabilmente ha ragione Primo Levi quando ci dice che la felicità perfetta è impossibile da raggiungere in quanto la condizione umana è nemica di ogni infinito; io comunque, l’infinito credo di averlo visto ed alla felicità perfetta ci sono andato vicino. E mi basta così.