Ci sono quei viaggi inaspettati e non programmati verso mete non considerate. Era il 2007 e, come di consuetudine, per aprile, ero alla ricerca di qualche buona offerta. Quell’anno avevo scelto la Thailandia di cui tanti racconti avevo ascoltato. Mi sono imbattuta in un’agenzia locale, che, lessi poi, organizzava anche tour per la Birmania. Qualcosa è scattato e mi accordai di ricevere un programma per questo paese tra i più poveri e meno sviluppati del pianeta, piegato da decenni di embarghi internazionali ed isolamento economico e sociale. Solo la mia testardaggine mi ha permesso di partire dopo lungaggini burocratiche, richiesta del visto, in un paese militare dove poco era lasciato al caso per entrare nel loro “mondo”. Eh già, perché un mondo a sé ho trovato dove tutto era alieno da quello a cui ero “assuefatta”. Non sto qui a parlare dei siti che ho visitato in venti giorni, per questo basta farsi un giro dei vari pacchetti su internet. Ma ciò che mi ha sconvolto sono state le lacrime mentre ero in aereo per tornare a Roma.
Essere assorbita da quella umanità, bontà, gentilezza e genuinità. Guardare negli occhi quelle persone, ai limiti dell’indigenza, ma serene, pacate e curiose. Essere continuamente avvicinata da quel calore umano, ricevendo da tutti carezze e benedizioni. Quei bambini con i loro sorrisi sdentati ma con quegli occhi già adulti.
A ogni passo respiravo una strana sensazione di sacralità. Nei profumi, nei paesaggi cheti, silenziosi, con un fascino mistico. Dove tutto sembrava immobile e allo stesso tempo pregno di un viaggio interiore che purifica e rasserena. Tante volte mi son ritrovata seduta in qualche tempietto buddista a respirare, osservare e immagazzinare quanto più possibile quell’ “ossigeno” così sano e giusto.
Il tempo si ferma. Tutto si svolge in tempi vitali in cui di tutto si gode, dove tutto si “riumanizza”. Dal pilota che si presenta in infradito e giacca di pelle. Nell’attesa degli aerei (ben 12 ne ho presi), dove si partiva quando a vista qualcuno decideva e dava l’ok. Dove se pioveva ok, valigie per terra, una sigaretta con i militari aereoportuali.
Sparita la frenesia, il legame con l’orologio un ricordo lontano. Internet vietato e linee telefoniche mobili praticamente inesistenti. Ci si avvaleva di lunghe chiacchierate di storie di vita, di speranze di questa popolazione attratta dal nostro benessere, dalla nostra conoscenza, ma allo stesso tempo fieri e custodi fedeli del loro Paese con una storia difficile.
Passeggiare nei vari mercati, un’esperienza unica. Cibi tutti da scoprire (alcuni sinceramente non ce l’ho fatta, come i molto comuni lombrichi vivi da sgranocchiare per un veloce snack).
Colpisce la lavorazione antica di ogni cosa. Tutto quello che ho acquistato era preparato lì per lì, da artigiani e tessitori. Passavano le ore nell’osservare i vari procedimenti, metodici, lenti ma precisi, dei variegati prodotti, anche gastronomici.
Le lunghe passeggiate silenziose al ciglio dei tanti canali di cui è composto il paesaggio.
Eh i fiori. Miriadi di fiori con i quali abbellivano ogni luogo sacro. Osservare quelle spose “bambine” emozionate e così dolci addobbate a festa per l’occasione. E gli sposi che avevo denominato “gli sbarbati”, ragazzetti giovani e pieni di vita, tronfi però della conquista e della nuova vita che si accingevano a iniziare.
Interminabili e scomodissimi spostamenti in macchina, con il naso perennemente rivolto al finestrino dove scorrevano tanti paesaggi, foreste, paludi. E sorridere del continuo strombazzare, perché sì, i birmani sono chiassosi quando guidano!
La fatica è stata tanta ma avevo sempre modo di rifocillarmi di un po’ di forza. Anche il più sperduto dei residence era da mozzare il fiato per la cura dei particolari, della vegetazione e ruscelletti da cui erano caratterizzati.
Il ricordo indelebile del mio arrivo a Yangoon.
Dopo una soddisfacente colazione, zaino in spalla e occhiali da sole, pronti a proteggermi dal sole cocente, mi sento inondare di acqua. Acqua buttata a secchiate da tutti, ridevano, sghignazzavano che ridevano, sghignazzavano. Un momento di sconcerto e, non vi nego, celato di paura. Forse che i turisti erano così odiati in questa metropoli? Tra gli scrosci e schizzi riesco a fermare dei ragazzi che tirandomi la maglietta da dietro mi avevano inondato la schiena … “ehi ma che succede“? Fortunatamente con un loro inglese molto approssimativo capisco … è il Capodanno Birmano. Chiamo la mia guida, che ancora dovevo incontrare e, mi spiega, che per loro è la festa della liberazione, la più importante, il momento in cui si lava via, ci si purifica dei peccati dell’anno passato. E ho pensato … cari amici birmani anche questa volta non mi avete delusa. Con tutta l’acqua che ho ricevuto il paradiso è assicurato!!! La guida che una volta arrivata al luogo dell’incontro mi abbraccia e mi fa “sorpresa!”.
Potrei continuare all’infinito… Ognuno di noi dovrebbe percorrere questo viaggio ritrovando cosa sia la vita reale nelle sue piccole cose. Provare per credere! Quello che spero è che tutto ciò che vi ho raccontato sia rimasto intatto all’inevitabile apertura del Paese. Quindi due consigli mi sento di darvi: armatevi di forza di volontà e cercate di andare nei luoghi rurali, anche se scomodi da raggiungere. E andate per Aprile per vivere il fantastico Capodanno!
Buon viaggio!
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Barbara Bruno è una fiera mamma di 43 anni. Sociologa, ama assaporare i rapporti umani. Viaggiatrice compulsiva, amante dei motori e di tutto ciò che abbia quattro ruote. Si rilassa con la lettura che le permette di vagare con la mente in svariate avventure; per questo non predilige generi, come nella musica… perché la vita è ascoltare, sentire, partecipare. Ma è soprattutto un viaggio e una continua scommessa.