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Aeroporto Internazionale Queen Alia di Amman, Giordania. Sono arrivato ma non sono ancora giunto. È un avvicinamento a tappe, lo so. Sognare ma anche soffrire per raggiungere la meta agognata. Come al solito, però, non riesco a gestire l’ansia. Non sopporto il prologo allo spettacolo, lo scorrere dei titoli di testa. Ora in aeroporto e in un batter di ciglia su un dromedario bianco a scorrazzare sulle orme del colonnello Lawrence: no, questo è solo sognare, rassegniamoci, dunque, a soffrire. Prima tappa del percorso di avvicinamento un bruttissimo albergone alla periferia della città dove trionfa il kitsch e l’innegabile cortesia del personale tenta di supplire a piccole ma evidenti défaillances di professionalità, che contribuiscono al consolidarsi di una serpeggiante e disturbante atmosfera di incompiuto, approssimativo, sfavillante solo in superficie: sono ancora molto lontano da dove voglio essere. La mattina dopo continua la tortura. Mi sembra addirittura di allontanarmi ancora di più dal sogno, trovandomi in mezzo ad una caotica cittadina in cui la chiesa greco-ortodossa intitolata a San Giorgio custodisce i resti di un pavimento a mosaico di epoca bizantina che rappresenta in modo mirabile la prima mappa geografica del medio oriente. Non posso non subire il fascino di un rimando così potente alle origini della nostra storia e delle religioni ebraica, cristiana e musulmana, ma l’impressione è che tanto valore storico non sia associato ad un eguale valore artistico. A me questi mosaici non piacciono granché, ed il pensiero corre subito a quelli di Piazza Armerina, una delle tante meraviglie del nostro passato di incomparabile bellezza, stile ed eleganza ignorate dai più nel nostro paese, che ricordo molto più raffinati, meglio conservati ed enormi, se paragonati alle poche tessere che costituiscono il mosaico che sto ammirando sotto, o meglio, davanti ai miei piedi. Ma questa è tutt’altra storia e pensarci non fa che acuire il mio sotterraneo disappunto, la strisciante sensazione di star perdendo tempo, l’angoscia che monta dentro di me per non aver raggiunto ancora la meta e non saper come fare per abbreviare l’attesa. E l’attesa non si abbrevia, si prolunga. Ecco il colpo di grazia definitivo. La meta religioso-turistica per eccellenza. Il pellegrinaggio mordi e fuggi al Monte Nebo, dove Mosè ebbe la visione della Terra Promessa, morì e fu sepolto in un luogo sconosciuto nei dintorni. Al contrario di Mosè io qui la mia terra promessa non la vedo ma sono sicuro di spegnermi definitivamente come lui, qui ed adesso, seppellito dal peso di questo struggimento. Mentre seguo passivamente il gruppo scattando brutte foto dell’ennesima spianata di mosaici all’interno della basilica, come un Bruce Chatwin senza moleskine e senza fascino anglosassone mi domando: che ci faccio qui? Va bene, ora basta. Risalgo in minivan con gli altri e mi impongo serenità, certo che non ci saranno più ostacoli. E il minivan finalmente va, procede tra terre asfaltate e sterrate e al calar del sole la meta è raggiunta. Tutto diventa vero. Mi crogiolo al calore intimo che un misto di soddisfazione e serenità mi regala, calore che supera di gran lunga la calura esterna: si apre davanti a me il Wadi Rum.

Il primo appuntamento come al solito è all’alba. Io sono un fotografo, non un turista. Certo, apprendista fotografo, ma senz’altro non un semplice backpacker. Io qui, ancora una volta sotto la guida del prode e valente Riccardo, ideatore e tour-leader degli ScenicLandscapePhotoWorkshop, sono venuto per imparare a fotografare “l’infinito”, come dice lui. E io di lui mi fido. Franco Fontana, il più grande di tutti per me, non ha mai fatto mistero della sua scarsa propensione a fotografare alla pur splendida luce dell’alba. Vista la difficoltà con cui mi sono svegliato alle 4 del mattino, mi sento sempre più vicino al grande maestro, ma comunque tonico, concentrato e certo che proverò grandi emozioni. Le mie certezze non crollano nonostante il freddo pungente della notte desertica e la sofferenza del mio fondoschiena, continuamente sollecitato dagli sbalzi sulle panche esterne del pick up che si fa largo tra la sabbia e le rocce del Wadi Rum, che per il momento scorgo appena. Eh già, perché il pick up è il dromedario dell’epoca moderna. Il deserto del Wadi Rum, nel 2018, non è più la terra dei Beduini, affascinante popolo nomade che dal deserto ha saputo trarre la propria fonte di sussistenza attraversandolo in lungo e in largo a dorso di dromedario. O meglio, i Beduini ci sono ancora, ma sono perfettamente integrati nella macchina acchiappaturisti, come oggi è ridotto questo deserto millenario, e animano le tante attività ricreative ammantate di uno sbiadito alone di “autenticità” che si offrono al turista estasiato: tour sulle orme di Lawrence, concerti di esasperante musica araba, cerimonie del tè nel deserto, ecc. Quindi, pick up, jeep e SUV tanti, dromedari pochi e spelacchiati, tanto da sembrarmi loro fuori contesto, una reminiscenza posticcia di una realtà che non esiste più. Al sorgere del sole comincia lo spettacolo, anche se la luce non è eccezionale. Una velatura di nubi stratificate rende l’orizzonte lattiginoso, polveroso, piatto. Non mi scoraggio. Mi dedico soprattutto ad osservare, capire, interpretare. Questo è il valore aggiunto di questi workshops fotografici. Il fotografo paesaggista professionista cerca di farti vivere la meraviglia del suo mestiere. Ti spinge innanzitutto a conoscere il paesaggio che vuoi ritrarre, camminandoci dentro, girando lo sguardo a 360° gradi, inquadrando prima con gli occhi e poi con la fotocamera. E tu capisci che una buona shooting session può nascere solo dopo questo processo di immersione nella realtà che ti circonda e ti affascina. Nella luce lattiginosa di questa prima alba nel Wadi Rum, mi incammino dunque lentamente, zaino in spalla e cavalletto in mano. In questo luogo maestoso, solido di rocce così imponenti da formare, susseguendosi le une alle altre, piccole catene montuose, vivo l’estraniante sensazione di essere contemporaneamente al centro della terra e su un altro pianeta, radicato nel presente, immerso nel passato e proiettato nel futuro. Sì, la caratteristica più sconvolgente di questo luogo è l’immutabilità. Ne sono convinto anche quando lo sguardo mi cade sugli emblemi della modernità che rendono oggi facile a chiunque, anche agli apprendisti fotografi, violentare con la propria presenza futile e passeggera questo immenso regno dell’eterno, dove tutto è cominciato e, forse, tutto finirà. Le automobili, al posto dei dromedari, i campi tendati con aria condizionata al posto dei ripari di fortuna dei Bedu e le bottiglie di plastica a mischiarsi con i sassi e ad insozzare la sabbia millenaria, non riescono minimamente ad indebolire la confortante serenità che l’immensa distesa di rocce e sabbia genera nel mio animo. Con l’irrompere della luce del sole, ora un po’ più vicino allo zenit, si squarcia la velatura caliginosa che ne aveva accompagnato il manifestarsi. Le rocce diventano color dell’oro, la sabbia si tinge delle mille sfumature del rosa, del bianco e del grigio.

Ogni cosa è illuminata. Jonathan Safran Foer è venuto nel deserto del Wadi Rum per ispirarsi? Non credo, ma sarebbe stato felice, penso, di constatare qui, come in nessun altro luogo, la manifestazione inequivocabile, fisica, tangibile della sua intuizione: il presente delle nostre vite è illuminato dalla luce del passato. E cosa c’è di più fisico, di più tangibile, concreto e, allo stesso tempo, evocativo dei Sette Pilastri della Saggezza? Sì, esistono davvero. Non sono solo il titolo di un romanzo o di un film. Non sono stati creati in cartapesta dalla maestranze di Hollywood. Eccoli di fronte a me in tutta la loro maestosità e precisione architettonica. Sembrano infatti costruiti. Sette guglie di una cattedrale neolitica. Il santuario, il luogo sacro dove è custodito lo spirito del Wadi Rum.

È tutto qui, in questo momento: passato-presente-futuro con me stesso nel mezzo, anch’io parte di questo paesaggio millenario insieme a rocce grandi, piccole e minuscole, vortici di sabbia, e sparuti cespugli.

La figura grande circondata da mille piccoli oggetti come in un disegno di Pericoli, cartone animato con la potenza descrittiva del più crudo dei reportage, incrocio tra sogno e realtà.

E mentre guardo, fotografo. Con calma, con accuratezza, cercando di includere il mondo in un mirino. E magicamente, con l’ultimo scatto, nel mio mondo entra una mongolfiera, che sorvola indolente le rocce e la sabbia e mi aiuta a salutare con un sorriso l’alba che se ne va.

Ma non c’è tregua per il fotografo professionista. E nemmeno per chi aspira ad esserlo. Alba-Tramonto: questo è il binomio che scandisce il tempo. Si può scattare solo all’alba ed al tramonto. Si cerca la luce dell’alba e del tramonto. Tutto quello che conta succede all’alba ed al tramonto. Si riesce a sognare solo all’alba ed al tramonto. E se il Wadi Rum all’alba è lo spettacolo della luce che colora il mondo, al tramonto è il regno della solitudine e del silenzio assoluti. Me ne accorgo all’improvviso. Circondato da tanta maestosità, sono solo. Mi sono distaccato lentamente ma inesorabilmente dagli altri. È una solitudine che non rattrista, che appaga, che permette di concentrarsi sul sé per entrare ancora più in contatto con gli altri. Tutto intorno a me è molto più solido e compatto rispetto a stamattina. Metri e metri di sabbia uniformemente arancioni. Grossi massi simili a dolmen che sembrano piovuti lì dal passato più remoto e non siano più stati spostati, e probabilmente e così.

Non c’è un alito di vento. L’aria si rinfresca mentre il sole cala lentamente e le ombre delle rocce si allungano sulla sabbia, che ormai è ocra. Vorrei rimanere qui fermo, seduto, per sempre. Per un attimo mi immagino ad una piccola scrivania, uno scratch book sul piano di legno ed un tronchetto di grafite in mano, a disegnare un paesaggio che mi include mentre disegno, come negli immaginifici gorghi surrealisti di Magritte. Ma l’arancione quasi marziano della sabbia e delle rocce mi suggerisce di stare all’erta per non essere investito dai mostruosi insetti-elefanti di Dalì o da Matt Damon, che si dirige lentamente alla guida del suo router verso il Cratere Schiapparelli, da dove lascerà Marte per ricongiungersi ai suoi compagni di missione.

E penso, solo per un attimo, che qui vorrei sempre ritornare, come ha scritto Sven Lindqvist, a proposito del deserto del Sahara, da lui attraversato sulle tracce dei grandi esploratori del passato. Qui vivrei, lui scrive, senza essere disturbato dalle complicazioni umane, senza amore ma anche senza dolore. Il pensiero è fugace. Il delirio onirico presto si estingue, risolto dall’ineffabile guida bedu che richiama la mia attenzione sulla possibile presenza di serpenti in quella zona del deserto, e mi invita a riavvicinarmi al pick up per sorbire il profumatissimo che ha avuto l’onore ed il piacere di preparare per il manipolo di intrepidi apprendisti fotografi. Con malcelata ansia, ritorno velocemente sui miei passi e raggiungo il focolare su cui l’acqua per il bolle in un maxi-teiera, che sicuramente sarà stata maneggiata anche da Lawrence d’Arabia in una pausa delle sue scorribande nel Wadi Rum a dorso di dromedario per sostenere la causa della rivolta araba. Ed ora, nella calma del tramonto inoltrato, il silenzio interrotto solo dalle chiacchiere divertite e sommesse del gruppo davanti alla teiera fumante, mi sento improvvisamene vicino al grande condottiero: anch’io, come lui,  ho compiuto un’impresa e ho vinto una sfida, non contro l’oppressore ottomano ma contro me stesso. E chissà se anche lui, seduto al focolare a prendere il tè con il principe Faysal dopo la conquista di Aqaba, sarà stato felice come me.


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© Alberto Manno.