Una macchina…da abitare. Le Corbusier, Unité d’Habitation a Berlino – Seconda parte

L’Unité d’Habitation a Berlino © Lucilla Brignola

…vai a Una macchina…da abitare. Le Corbusier, Unité d’Habitation a Marsiglia – Prima parte

Come in ogni romanzo giallo che si rispetti…l’assassino ritorna sui suoi passi!

In questa seconda parte parliamo di un altro misfatto di Le Corbusier. Questa volta siamo a Berlino e l’edificio di cui si dirà è stato oggetto di una illuminante passeggiata che sono riuscita ad inserire, tralasciando per un attimo le mete più battute, in un mio recente viaggio nella scorsa estate. Qui LC ha costruito il clone di Marsiglia ma, anche questo edificio, ha avuto le sue traversie.

Anche la Corbusierhaus, come è ufficialmente denominata, ebbe il suo soprannome. Wohndampfer, abitazione a vapore. Ad una prima rapida occhiata sembra molto simile a quella di Marsiglia, ma, in realtà, presenta alcune significative differenze tanto da essere stata definita Typ Berlin (in stile berlinese), 135 m di lunghezza per 23 m di larghezza, 17 piani per un’altezza di 56 m, 527 cellule abitative composte da una a cinque stanze per circa 2.000 abitanti. L’edificio è sollevato dal terreno di 7 m da enormi coppie di piloni cavi al cui interno sono alloggiate le canalizzazioni per gli impianti tecnologici costantemente manutenuti come ho potuto constatare quel giorno dalla rilevante presenza di Ditte specializzate nel settore.

 

L’Unité d’Habitation a Berlino. Vedute esterne ©Lucilla Brignola

Fu costruito nel 1957 in 18 mesi in occasione dell’Interbau, Internationale Bauausstellung Berlin (IBA), l’esposizione internazionale per l’edilizia, realizzata nell’area dell’Hansaviertel. A causa delle sue dimensioni, fu però collocato in una zona verde sulla collina nei pressi dello stadio olimpico, sulla Flatowallee, ai margini di un’area boscosa scelta da LC tra le varie alternative proposte.

È orientato in direzione nord-sud per poter avere il massimo dell’irraggiamento solare sulle logge degli appartamenti. Non furono mai realizzati i servizi nelle strasse (i corridoi interni, les rues di Marsiglia) e il tetto attrezzato/giardino come prevedeva il progetto iniziale; le uniche strutture collettive edificate al piano terra sono state la lavanderia, un piccolo negozio e la sala condominiale.

Il Regolamento Comunale dell’epoca non permetteva la costruzione dei servizi sul tetto e non fu utilizzato Le Modulor come riferimento per le altezze degli appartamenti che furono fissate a 2,50 m. Nel 1979 le abitazioni in affitto sono divenute di proprietà e, nel 2007, per i 50 anni dell’Interbau, sono stati ripristinati i colori originali delle finestre, dei balconi e delle strade interne. Ogni strasse ha riacquistato il suo colore, tutti diversi nei 17 piani, anche se questo non elimina un certo qual senso di claustrofobia, mentre le porte degli appartamenti sono verniciate con colori alternati. Anche questa costruzione è tutelata per il suo valore storico culturale e si percepisce chiaramente la cura e il rispetto degli abitanti per questo edificio simbolo della Storia dell’Architettura.

Anche all’osservatore più superficiale, ma non era il mio caso in quanto l’aggirarmi per quei luoghi era guidato quasi in stato di trance da una forte emozione suggerita dalla consapevolezza di trovarmi in un percorso profondamente segnato dalla presenza quasi fisica del Grande Architetto, non deve sfuggire il grande graffito scolpito nella facciata posteriore rispetto all’ingresso principale. In esso si legge (foto):

Charte d’Athenes CIAM IV 1933 ©Lucilla Brignola

Charte d’Athenes CIAM IV 1933 Congrès Internationaux d’Architecture Moderne

Dans ce villages vertical de 2000 habitans
On ne voit pas son voisin
On n’entend pas son voisin
On est une famille placées
“Dans les conditions de nature” 

Soleil espace verdure 

C’est la liberté acquise:

  1. Sur le plan de la cellule
    1. L’individu
    2. Le groupe familial
    3. Le foyer
  2. Au plan du groupe social c’est le benefice des services commun sconfirmant la liberté individuelle

Binome indisocialble     Individue
                                  Collective

Carta di Atene CIAM IV 1933 Congresso Internazionale di Architettura Moderna IV

Dentro questo villaggio verticale di 2000 abitanti
Non è possibile vedere il vicino
Non è possibile sentire il vicino
Siamo una famiglia
“Nelle condizioni della natura”

Sole spazio verde

È la libertà acquisita:

  1. Nella cellula
    1. L’individuo
    2. Il gruppo familiare
    3. La casa
  2. Per il gruppo sociale i benefici dei servizi comuni al di là della liberta individuale

Binomio indissolubile    Individuale
                                  Collettivo

È il manifesto programmatico e la sintesi estrema del Suo credo architettonico che prende le mosse da quanto fu dibattuto nei vari congressi del CIAM, Congresso Internazionale di Architettura Moderna, fondato nel 1928 presso il castello di H. de Mandrot a La Sarraz in Svizzera che rimase per lungo tempo il luogo ove si forgiavano i presupposti del nuovo verbo architettonico nel quale forte si presentò l’identità di LC.

La Carta di Atene, citata nel graffito, fu un documento redatto nel 1933 sulla nave Patris II in un viaggio di andata e ritorno da Marsiglia ad Atene. Fu pubblicato nel 1943 dopo 10 anni di rimaneggiamenti e doveva essere, nell’intenzione degli autori, il manifesto nel quale codificare principi generali e regole per una migliore qualità della vita nella città moderna allo scopo di individuare e soddisfare le aspirazioni e le necessità degli abitanti ed era rivolto principalmente ad amministratori pubblici e governanti.

Nel documento non era peraltro individuato un preciso e rigido modello formalmente concluso di progettazione urbana degli insediamenti, ma erano proposti principi e spunti di riflessione per la costruzione della città futura che ebbero poi magnifica realizzazione nelle opere di LC e nella sua aspirazione quasi maniacale alla Città Radiosa e Funzionale.

Sempre nel tour dell’emozione sono stata accolta e avvolta da una mostra in corso nella quale non immaginavo di imbattermi.

Nell’atrio d’ingresso della Corbusierhaus era stata allestita, per i 60 anni dall’inaugurazione del complesso, una mostra intitolata Farbdialog (7 luglio-30 settembre 2018), a cura di Florence Cosnefroy. L’Autrice, come aveva già fatto in altre mostre riguardanti le opere di LC, pone l’accento sui colori per comprendere come questo aspetto sia oggi percepito dagli abitanti. LC aveva, nel 1931, selezionato 43 sfumature di colore aggiungendone poi nel 1959, altre 20. Sulla base di questa tavolozza l’Autrice ha chiesto ai residenti di scegliere il colore che ognuno riteneva più evocativo e di associare ad esso un pensiero per poi esporre, nell’atrio, tutte le tavole dei colori scelti con sovrapposti i testi riportanti le impressioni degli abitanti. Sempre in un clima quasi di gioco erano state realizzate alcune installazioni al piano terra tra i pilotis e sulle vetrate dell’atrio riproducendo qui i colori delle logge della facciata (foto ingresso rosso e blu). Un capitolo a parte meriterebbe una più approfondita esposizione del lavoro che questa sapiente Autrice ha condotto sulle opere di LC. Qui ho voluto solo testimoniare in estrema sintesi l’emozione che mi ha pervaso nella mia passeggiata in questo inaspettato omaggio a LC che ha aggiunto non poco pathos al mio tour dell’emozione.

Immagini tratte dalla mostra Farbdialog, a cura di Florence Cosnefroy©Farbdialog, Unité d’habitation Le Corbusier, Berlin / FLC-ADAGP – photos: F. Cosnefroy, Markus Fisher, B. Högner, M. Strauch

Come a Marsiglia, anche a Berlino gli inquilini hanno costituito nel 2004 un’associazione, la Fördervere in Corbusierhaus Berlin e. V. (Associazione Amici della Corbusierhaus) con lo scopo, oltre che di curare la manutenzione delle strutture comuni, di promuovere eventi di carattere scientifico e culturale organizzando anche mostre attinenti, ad esempio, alla percezione che, nel corso del tempo, i residenti hanno elaborato passando dallo stato di abitanti di una costruzione del tutto inusuale e quindi da considerarsi brutta collocata in un luogo periferico all’orgoglio e al senso di appartenenza che nasce dalla vita in un edificio che è un Manifesto dell’architettura moderna. La mostra che ho visionato costituisce un eloquente esempio di queste attività.

L’Unité d’Habitation a Berlino ©Lucilla Brignola

Il mio breve ma sentito viaggio in un’opera di LC mi suggerisce un collegamento, con un’esperienza di casa nostra.

Con le debite proporzioni e attenzioni è un po’ quello che sta gradualmente accadendo per l’edificio di Corviale a Roma, la famosa stecca di un chilometro, ancor meglio noto come il Serpentone, edificio di edilizia popolare nella periferia romana, figlio estremo delle Unità di Abitazione di Le Corbusier. Da quando fu costruito negli anni ’70 (1972/’82) è stato tra gli edifici più bistrattati, amato e odiato, senza vie di mezzo, da chi lo voleva abbattere e da chi lo voleva ristrutturare. Finalmente, e dopo molte diatribe, si sta attuando una prima rivisitazione, risultato di un concorso indetto allo scopo di ripensare gli spazi comuni ubicati al quarto piano che, negli anni, erano stati occupati abusivamente a causa della mancata realizzazione dei servizi che pur erano stati previsti nella progettazione iniziale.

Al termine di questa passeggiata a puntate tra due opere di LC che ne rappresentano il paradigma architettonico potrebbe delinearsi una riflessione generale.

Gli esempi passati in rassegna presentano certamente un comune denominatore: l’innegabile relazione tra le scelte architettoniche e la nascita e lo sviluppo della convivenza umana. Su tale presupposto documenti come la Carta d’Atene che hanno ispirato l’attività di un’intera generazione di progettisti ed urbanisti, pur con qualche eccesso realizzativo nel tempo che non ne inficia la validità sostanziale, possono e, auspicabilmente, dovrebbero rappresentare, la base per assicurare una migliore qualità della vita umana. In questa convinzione può risiedere la vera motivazione per la conservazione di edifici come quelli di cui si è parlato che non sono solo freddi monumenti da contemplare poiché in essi le comunità che ancora li utilizzano per la loro vita quotidiana esprimono e realizzano concretamente la loro storia compiendo così pienamente gli intenti di coloro che li hanno pensati, progettati e realizzati.


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